A causa della temuta infezione, l’Ospedale in questione avrebbe sospeso i servizi. La notizia, subito smentita dall’istituzione, era poi stata fatta circolare dallo stesso Kaka. Troppo tardi, perché nel frattempo la voce era corsa.
I primi allarmi avevano lasciato credere il peggio persino nel Niger dove il sole, la sabbia e la giovane età della popolazione tengono a bada il virus.
D’altra parte, da questa parte del mondo, la cosa di cui si parla non è l’epidemia del coronavirus quanto l’epidemia da corruzione che non risparmia nessuno e nulla.
E’ di questi giorni a Niamey lo scandalo di false fatturazioni e acquisti di materiale inadatto o scadente per le forze armate che, proprio in questi ultimi mesi, hanno perso decine di militari per attacchi rivendicati dallo Stato Islamico nel Sahel.
La contaminazione della società avviene per trasmissione del virus da corruzione, che non è altro che il tradimento della democrazia e del bene comune che dovrebbe attraversarla.
Qui la morte non ci spaventa perché non abbiamo paura di vivere.
“Una cosa è morire di dolore e un’altra è morire di vergogna”.
Mi è tornata in mente questa poesia di Mario Benedetti, compianto poeta dell’Uruguay, appresa mentre mi trovavo in Argentina. La cosiddetta distanza sociale, oggi riesumata, era stata da tempo introdotta e non casualmente e non certo per compassione si tengono aperti i supermercati e si chiudono le chiese e gli stadi e gli avvenimenti culturali e le scuole. Si troveranno buone giustificazioni di carattere medico e senza dubbio scientificamente motivate ma abbiamo perso, non da oggi, la dignità. Da tempo non sappiamo perché valga la pena vivere la vita e ci perdiamo, stolti consumatori consumati, dietro l’effimero che ci seduce per la sua nullità. Quanto ci appaiono vere le profezie di Pier Paolo Pasolini e il suo inascoltato grido del cambiamento antropologico in atto nel paese e in Occidente.Una cosa è morire di dolore alle frontiere dell’Europa, nei deserti che vorrebbero raggiungere il mare, nei viaggi senza fine e nelle guerre comandate, finanziate e alimentate dai fabbricanti d’armi, europei, americani, cinesi e russi compresi. E l’altra è morire di vergogna come da troppo tempo si fa in Occidente dove la morte, prima parte della vita e celebrata con rintocchi di campane e la sommessa preghiera dei paesani, è stata censurata, di lei ci si è vergognati come fosse una sconfitta e persino le tombe sono giardini coltivati per illudere il tempo futuro.
Ecco perché lei, sorella morte, è tornata, con fattezze antiche e attuali, e passa attorno tra gente isolata, impaurita e scontenta della vita. Eravamo morti da tempo senza neppure accorgercene e facevano bene, i nostri antenati colpiti dalla peste, a rifugiarsi dove almeno le parole di conforto avevano un senso e magari si aspettava che qualche santo ci mettesse una pezza e ci si rendeva conto della fragilità umana e della morte che inciampa nella vita. Ha ragione Benedetti che morire di vergogna è la cosa peggiore che mai potrebbe capitare.Nella poesia in questione che porte il titolo Uomo prigioniero che guarda suo figlio, il poeta scrive verso la fine del poema: “Uno non sempre fa quello che vuole/però ha il diritto di non fare/ ciò che non vuole”. Ci siamo persi gli anni più belli, quelle delle rivoluzioni e delle resistenze, quelli dei No operai e partigiani e, liquidando le grandi narrazioni della storia, ci siamo ridotti a fare la lista della spesa per il supermercato più vicino che possiede, tra l’altro, lo spazio giochi per i bambini e un ampio parcheggio per le auto, la domenica.
Magari le campane suoneranno, per ricordare che c’è un’ora e un tempo per tutto. Sentiremo il rimpianto, per un attimo, del mondo che avrebbe potuto essere differente, un mondo nuovo da inventare ogni giorno negli occhi di chi si innamora della vita. Perché, come ancora ricorda Benedetti alla conclusione della poesia citata: “è meglio piangere che tradirsi… piangi, ma non dimenticare“.
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