lescienze.it Giovanni Sabato
Ci lavorano intensamente già a decine, fra aziende e centri di ricerca, ma c’è poco da fare: il vaccino contro il nuovo coronavirus non è dietro l’angolo.
Maria Elena Bottazzi, italiana cresciuta nel continente americano, specialista di vaccini al Baylor College of Medicine di Houston in Texas, riepiloga in una rassegna la situazione e le sfide da superare.
“Il vaccino dovrà innanzitutto offrire una protezione valida alle popolazioni più a rischio, quali i sanitari in prima linea, esposti ad alti carichi virali, e gli anziani, che sono più a rischio se infettati, ma più difficili da proteggere per l’immunosenescenza che riduce la risposta alle immunizzazioni.
Ma dovrà anche superare un altro problema: il cosiddetto immunopotenziamento”, spiega Bottazzi a “Le Scienze”.
Fin dagli anni sessanta si è visto infatti che i vaccini contro vari virus respiratori, come il virus respiratorio sinciziale, possono indurre una risposta immunitaria eccessiva che, in caso di infezione, anziché prevenire la malattia la aggrava, attaccando i tessuti stessi del malato. Decenni dopo, negli animali, si è visto lo stesso con alcuni vaccini contro la SARS.
E poiché il nuovo coronavirus è molto simile a quello della SARS, bisognerà accertarsi che il vaccino nei suoi confronti non causi lo stesso effetto.
Le ricerche, che impegnano già almeno una trentina di aziende e centri accademici, perseguono tre tipi di strategie. La più classica è l’uso di virus interi, attenuati affinché siano capaci di moltiplicarsi ma non causino la malattia, oppure inattivati, cioè uccisi con calore o trattamenti chimici. I virus interi hanno il vantaggio di essere molto immunogeni, inducendo una forte risposta anticorpale, ma, come si è visto con la SARS, sono anche i più propensi a causare l’immunopotenziamento. “Non pensiamo che non vadano studiati, ma bisognerà farlo con molta attenzione, evitando una corsa troppo rapida all’uso clinico prima di avere solide prove di sicurezza”, dice Bottazzi.
Altri centri lavorano sui vaccini a subunità, che non somministrano l’intero virus ma solo un suo componente. “Come già si faceva per la SARS, si somministra la proteina spike, quella con cui il virus si lega al recettore cellulare, per indurre anticorpi contro di essa e bloccare il legame”, dice Bottazzi. In qualche caso, però, si è visto che anche la sola proteina spike induce l’immunopotenziamento indesiderato.
“Per questo motivo noi lavoriamo in consorzio con il New York Blood Center, dove nel 2003 hanno preso dal virus della SARS la proteina spike e hanno studiato come ridurla il più possibile fino a tenere solo il pezzo più immunogenico: la regione della proteina con cui il virus si lega al recettore nelle cellule umane ed entra”, spiega Bottazzi. Gli studi sugli animali hanno mostrato che questo frammento stimola un’elevata immunità, che protegge dal virus, senza causare l’immunopotenziamento.“Ora stiamo iniziando a fare la stessa operazione con il virus attuale. Ma intanto pensiamo che varrebbe la pena provare il prodotto che già abbiamo, perché il nuovo coronavirus ha molte analogie con quello della SARS: sono virus molto omologhi geneticamente, si legano allo stesso recettore sulle cellule, e mostrano oltre l’80 per cento di omologia di aminoacidi nel dominio della spike con cui si legano.
Anche la struttura 3D dei due virus si sta rivelando molto simile. E il siero preso da persone infettate da SARS, in laboratorio neutralizza il nuovo virus. Allora, dato che abbiamo già in freezer un prodotto che ha superato bene gli studi di laboratorio e sugli animali, ed è di qualità adatta agli usi umani, vale la pena provare subito anche questo”, dice Bottazzi.
La terza via a cui lavorano diverse aziende importanti, anche in Italia, è la più innovativa: quella dei vaccini a RNA o a DNA. In questo caso si inietta come vaccino un frammento di DNA o RNA del virus, che contiene le istruzioni per produrre la proteina virale spike. Le cellule umane quindi la producono, suscitando la risposta immunitaria. Almeno in teoria.Questo metodo infatti ha il grande vantaggio della velocità: a gennaio, a una sola settimana dalla pubblicazione della sequenza del nuovo coronavirus, l’azienda statunitense Moderna ha prodotto il primo RNA candidato a divenire un vaccino, e in questi giorni sta iniziando a sperimentarlo sui primi volontari umani. Questa tecnica ha però anche uno svantaggio: anche se risale agli anni novanta, e ha dato buoni risultati nei topi, finora nell’uomo non ha mai funzionato.
“L’organismo deve fare un notevole lavoro: dal DNA deve sintetizzare l’RNA e poi la proteina, che poi dev’essere presentata in modo efficace alle cellule immunitarie per suscitare la reazione. È più complicato che iniettare direttamente la proteina, già impacchettata col giusto adiuvante”, dice Bottazzi.
“Ora, con le ultime innovazioni biotecnologiche, i risultati umani stanno migliorando e quello per Covid-19 potrebbe essere il primo vaccino ottenuto così. Ma bisogna stare attenti a non farsi abbagliare dalle novità. Noi e altri usiamo proteine ricombinanti che sono facili ed economiche da produrre, e ci hanno dato molti vaccini già in uso. Con queste nuove tecnologie, sia la complessità sia i costi e i problemi di brevetti potrebbero rendere difficile l’accesso ai vaccini ai paesi meno ricchi.”Lo stesso discorso vale per gli adiuvanti, quelle sostanze che si aggiungono al vaccino per aumentare la risposta immunitaria, aiutando per esempio i più anziani a produrre anticorpi a sufficienza, ma devono evitare le reazioni eccessive descritte prima. “Ci sono tante formulazioni promettenti, che sollecitano meccanismi immunitari diversi, ma spesso sono care. Noi abbiamo visto che con l’idrossido di alluminio, che è l’adiuvante più usato, sicuro ed economico, otteniamo una buona risposta con il minimo immunopotenziamento”, spiega Bottazzi.
I trial e i tempi
Anche le più avanzate tecnologie per arrivare al prodotto candidato, e la rapidità degli studi sugli animali, non possono però abbreviare i tempi dei successivi studi umani, indispensabili per verificare la sicurezza e l’efficacia del vaccino. Nei casi migliori questi studi possono richiedere un anno e mezzo, seguito dall’esame dei risultati da parte delle agenzie di regolazione, e non sono all’orizzonte grandi scorciatoie per tagliare ancora di più questi tempi, già molto stretti e che presuppongono che tutto vada per il meglio e il vaccino si mostri subito valido e sicuro.
“Per varie malattie si usano i modelli di infezione umana controllata: alcune persone vaccinate vengono infettate in clinica con una variante del patogeno, resa poco pericolosa, per studiare l’effetto del vaccino in condizioni controllate, per esempio sapendo esattamente la quantità di patogeno infettante. Questo accelera i tempi degli studi”, spiega Bottazzi. Ma per il coronavirus non abbiamo ancora una forma virale da usare come modello.Per il nuovo coronavirus, che richiederà particolare attenzione alla sicurezza per il rischio dell’immunopotenziamento, parecchi esperti ipotizzano poi tempi molto più lunghi. “Secondo me entro l’anno conosceremo la sicurezza dei primi prodotti e forse qualcosa sulla risposta anticorpale che inducono, ma non avremo un prodotto approvato. Magari agli inizi ne avremo uno indicato per gruppi limitati, come gli operatori sanitari, ma per averne uno di uso generale penso che serviranno almeno 3 o 4 anni. Sempre che ci si arrivi”, dice Bottazzi.
I titoli che si leggono spesso in questi giorni, come “Entro l’estate il vaccino sarà pronto”, si riferiscono quindi ai candidati che devono iniziare tutta la trafila delle sperimentazioni umane, non al vaccino pronto all’uso.
“Il vaccino sarà una soluzione di lungo termine, ora l’essenziale è trovare test diagnostici rapidi e terapie efficaci. Ma in prospettiva è importante. E anche se non abbiamo ancora ottenuto fondi per sperimentare sull’uomo il nostro prodotto - anche perché è stato sviluppato contro la SARS e non contro Covid-19 - noi crediamo che valga la pena di provarlo e stiamo cercando i finanziatori”, dice Bottazzi.
Più in generale, visto che in questo secolo tra SARS, MERS e Covid-19 abbiamo avuto un’epidemia da coronavirus ogni decennio, secondo Bottazzi e colleghi varrebbe la pena di pensare a un vaccino universale contro i beta-coronavirus. “Per ora è solo un’idea teorica. Ma vedendo quanto sono simili questi virus, sia quelli passati nell’uomo sia quelli dei pipistrelli, sembra sensato pensarci.”
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