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Quando l’emergenza Coronavirus sarà cessata (si spera, ovviamente,
molto presto) e le nostre vite verranno restituite alla loro normalità,
la domanda che dovremo farci dovrà essere la seguente: ha avuto
veramente luogo un’epidemia di Coronavirus?
Ciò che abbiamo vissuto è stata una reale situazione di emergenza
sanitaria o abbiamo piuttosto assistito ad uno spettacolo in cui fatti,
numeri, statistiche, opinioni contrastanti e informazioni
contraddittorie si sono accavallati con una velocità impressionante,
dando luogo ad una situazione irreale? Che ruolo ha giocato, nelle
misure estreme varate dal governo, l’informazione?
La velocità con cui hanno circolato le notizie in continuo
aggiornamento sul contagio, la viralità con cui sono proliferate le
opinioni contrastanti dei tecnici e degli esperti, l’eccezionalità delle
soluzioni politiche adottate, sono tutti elementi che non possono
esimerci da una riflessione sul ruolo tutt’altro che secondario che è
stato giocato dalla percezione del fenomeno, o meglio sarebbe dire dalla
sua spettacolarizzazione. Un punto soltanto sfiorato nel
dibattito, spesso appena accennato quando non clamorosamente mancato o
imperdonabilmente taciuto, mai approfondito a sufficienza. È quanto ci
si propone di fare, invece, in questo articolo.
Percezione
È in relazione ai suoi studi sul rapporto tra velocità e politica che Paul Virilio introduce il concetto di logistica della percezione, pilastro fondamentale nella sua dromologia, o “scienza della velocità”. Il termine logistica
non è casuale: oggetto di indagine del teorico francese è l’insieme
delle operazioni di reperimento, catalogazione e distribuzione
applicabili non alle persone e alle cose che fanno parte della realtà
(si potrebbe dire alle merci, ma non lo diremo), quanto alle percezioni della realtà stessa, alle sue immagini (anch’esse, appunto, merci).
Grazie all’utilizzo di un qualsiasi medium tecnologico (dal
cannocchiale al telescopio, dal televisore a internet) l’immagine di un
mondo lontano dalla nostra portata – in termini di spazio, dimensioni,
distanze – può essere proiettata nella nostra esperienza quotidiana. Si
tratta di una rivoluzione radicale che implica una accelerazione
nell’ambito della percezione sociale dei fenomeni: quel che avviene è
una sorta di collisione, un vero e proprio abbattimento di ogni barriera
tra il vicino e il lontano, e che dà luogo ad una vera e propria epidemia dell’immaginario,
per dirla con Zizek. Una circolazione incontrollata dell’immaginario
all’interno della realtà, nella quale il senso del reale inizia a
vacillare, e dove la possibilità di distinzione fra questi due ambiti –
fra ciò che, appunto, è reale e ciò che, invece, è immaginario – si fa
sempre più difficile.
Turbolenza
Baudrillard adopera un altro termine per definire questo fenomeno: turbolenza, ovvero una situazione percettiva in cui a sfumare e a svanire è l’effetto di realtà. La linearità fra cause ed effetti – per mezzo di cui si genera e si produce quel che chiamiamo comunemente realtà
– finisce per distorcersi, subisce urti, e provoca turbolenze
percettive dei fenomeni sociali. La domanda è: chi è che genera questa
turbolenza? La percezione è un fatto storicamente e tecnologicamente
determinato: qualsiasi mutazione storica è in primis una mutazione
tecnologica. La stessa periodizzazione storica procede secondo
classificazioni basate sulle tecnologie adottate nelle varie epoche (età
della pietra, del bronzo, del ferro, etc). Al mutare delle condizioni
tecnologiche mutano perciò anche le condizioni storiche della percezione
del reale. Stando così le cose il responsabile di tale turbolenza va
cercato nella tecnologia, giunta oggi alla sua espressione più elevata:
l’informatica, vale a dire la scienza dell’informazione.
Realtà
Che ne è del reale nell’epoca dell’informatica? È diventato il
prodotto di processi computazionali, ovvero può essere elaborato e
rielaborato, prodotto e riprodotto, costruito, decostruito e ricostruito
in maniera illimitata e indefinita. Detto in altre parole: l’effetto di realtà, quella linearità dei rapporti tra cause ed effetti che produce l’esperienza di ciò che comunemente chiamiamo reale, nell’ambito della scienza dell’informazione si rivela essere non un qualcosa di razionale (come un lineare concatenamento di cause ed effetti farebbe presupporre), quanto di operazionale:
esso è propriamente il prodotto di determinati processi e operazioni
tecnologiche. La conseguenza di ciò non consiste solamente nel fatto che
gli individui diventano dei semplici operatori in grado di instaurare rapporti di ibridazione e di innervazione
con gli strumenti tecnologici che li circondano (dal telecomando, al
touch-screen fino ai più sofisticati sistemi di riconoscimento vocale).
La vera conseguenza – per lo meno quella che più ci riguarda in questa
sede – è che l’esperienza che gli individui fanno del reale avviene dentro questi stessi strumenti tecnologici. Se oggi, in ambito informatico (e non), si parla tanto di user experience è perché ciò che la rende possibile è una più ampia experience design,
una ingegneria tecnologica dell’esperienza, in cui la vita quotidiana
viene disegnata, progettata e costruita mediante precisi processi
operazionali che avvengono all’interno di precisi strumenti tecnologici.
È all’interno di essi che oggi, principalmente, si dà la possibilità
stessa di un’esperienza di ciò che continuiamo a chiamare realtà.
Simulazione
Si tratta, tuttavia, di un’esperienza che si rivela priva di contenuto. Quel che conta ai fini della experience design
non è il contenuto concreto dell’esperienza quanto la capacità di una
sua simulazione: la pura e semplice emissione di una realtà (virtuale) percepibile come reale.
Relativamente alla percezione del fenomeno Coronavirus, l’unico dato
di cui si ha certezza è l’esistenza di quello che Baudrillard chiama il regime di simulazione,
ovvero l’assoluta trasparenza della realtà percepita indipendentemente
dalla sua concreta ed effettiva realizzazione. Mediante l’esibizione
continua della realtà da parte dei media, ecco che al suo posto compare
un simulacro di realtà generato dall’informazione: la realtà raccontata
dal punto di vista delle telecamere, dei titoli in sovraimpressione,
degli appelli terroristici al non lasciarsi prendere dal terrore; la
realtà dei pareri discordanti degli esperti e dei tecnici invitati a
dare costantemente la loro opinione; la realtà dei numeri e dei dati in
costante aggiornamento sui contagi, non importa se certi o solamente
presunti, purché i numeri e i dati siano aggiornati. La scienza
dell’informazione deve informare e comunicare, qualsiasi cosa succeda.
Anche a costo di informare e comunicare il niente. È il regime di
simulazione, bellezza! L’unica realtà di cui possiamo dire di avere
esperienza certa.
Sparizione
Quel che in questo modo si produce, però, è un effetto paradossale: la sparizione del reale.
Il reale scompare proprio laddove esso diviene più trasparente, proprio
laddove la scienza dell’informazione riesce a presentare ed esibire
ogni suo aspetto, ogni suo dato, ogni suo minimo dettaglio.
L’informazione punta all’occupazione totale della vita sociale. Nel
momento in cui l’onnipervasività dei sistemi di informazione consente di
cogliere qualsiasi realtà individuale nella sua assoluta trasparenza
per presentarla come realtà sociale, l’individualità scompare: cede il
suo posto ad una esistenza sociale che tuttavia ha luogo solo e
unicamente all’interno dei media, all’interno degli stessi
sistemi di informazione. Ogni singola esistenza viene perciò modellata
dalla potenza sociale che lo spettacolo è in grado di conferirgli. Solo per il fatto che non è, le è permesso di apparire.
In questo modo l’insieme delle informazioni che circolano nel regime di
simulazione non si rivela nient’altro che un insieme di giustificazioni
per una forma di organizzazione sociale priva di giustificazione.
L’assalto ingiustificato ai centri commerciali per fare incetta di beni
di prima necessità, la ressa ingiustificata nelle farmacie per fare
scorte di amuchina e di mascherine, l’ingiustificato aumento dei prezzi
di questi beni; e di seguito, specularmente, le ingiustificate e
autocontraddittorie misure di sicurezza e prevenzione adottate dal
governo; l’ingiustificata sospensione di qualsiasi attività sociale
(lavorativa, ludica, sportiva, educativa, religiosa, ecc…),
l’incomprensibile sperpero di soldi pubblici in attività di
sorveglianza, in presidi militari, in posti di blocco (piuttosto che il
loro utilizzo per un ampliamento delle strutture della sanità pubblica).
Tutto diventa condizionato dallo spettacolo, da un sistema di potere
che per reggersi non ha più bisogno di pensare la propria base
materiale, la realtà, ma deve al contrario occultarla, farla scomparire.
Spettacolo
Se l’unica realtà esistente è il regime di simulazione, ovvero la
spettacolarizzazione della realtà, risulta chiaro a questo punto che i
media non sono un semplice strumento di comunicazione, un qualcosa che
può essere adoperato per veicolare e diffondere determinati contenuti
più o meno corrispondenti alla realtà. Essi sono molto di più. A nulla
servono, ad esempio, gli appelli continui per una gestione consapevole
dell’informazione, le rassicurazioni costanti di tranquillità e le
mobilitazioni anti-panico cui abbiamo assistito in queste settimane, se
non ad alimentare esattamente l’effetto opposto. È come attivare un
allarme facendo suonare la sirena per segnalare costantemente e
ripetutamente che non vi è alcun rischio.
I media, come diceva Pasolini, non veicolano contenuti reali, ma sono al contrario operatori ideologici, e in quanto tali manifestano in concreto lo spirito del nuovo potere.
Baudrillard avrebbe detto che sono il luogo in cui il reale viene
disattivato mediante la proliferazione virale della sua assoluta
trasparenza o, detto con le parole di Debord, attraverso il suo
spettacolo: lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale tra individui, mediato dalle immagini.
Ed è questo rapporto sociale che si impone alla nostra percezione e che
si tratta di definire: un rapporto sociale che è sempre, in ultima
istanza, un rapporto di potere.
Potere
Si deve certamente a Foucault l’abbandono di una concezione obsoleta
del potere come un qualcosa di concentrato e individuabile, e la sua
ridefinizione e riconfigurazione nel senso di un qualcosa che si
esercita. Ma se Baudrillard afferma che è giunta l’ora di dimenticare Foucault,
non è certo per una mancanza di stima e di rispetto nei suoi confronti
(non si spreca mai tempo a discutere con chi non si rispetta, in genere
lo si ignora). Afferma questo, piuttosto, per la pienezza semantica e
l’onnipervasività ormai raggiunte dal concetto di dispositivo, e
per una concezione generale e generalista del potere che egli reputa
limitata e speculativamente sterile, nient’altro che l’ulteriore
volteggio di una critica tutta interna al movimento del potere stesso.
Dal punto di vista di Baudrillard infatti, il discorso foucaultiano sul
potere, proprio in quanto discorso, contribuisce ad esibire il
potere, ad alimentarne la spettacolarizzazione, instaurando così un
legame di connivenza proprio con quello stesso potere che intende
criticare.
In soldoni: se il potere è un discorso che si fa, se è un insieme di
pratiche e di azioni che si esercitano, sarà sempre e comunque
necessaria la presenza di un oggetto reale su cui esercitare tali
pratiche e tali discorsi, ovvero quelle che per Foucault erano il sesso,
il desiderio, l’inconscio, e così via. Ma nel momento in cui, a causa
del regime di simulazione, il reale sparisce nella sua trasparenza,
nella sua spettacolarizzazione mediatizzata, su cosa potrà mai
esercitarsi il potere? Senza reale, che ne è del potere?
Vuoto
Ecco così apparire un vuoto. Il vuoto del reale che scompare nello
spettacolo è, allo stesso tempo, il vuoto di un potere che nella sua
sovranità soltanto apparente opera come se fosse realmente esistente. Un
potere, insomma, che al suo interno è vuoto. Vuoto nella misura in cui è
incapace di valutare ciò che sta accadendo e che potrebbe succedere, e
che tuttavia non può esimersi dal prendere decisioni, dal produrre
provvedimenti, dall’agire, dall’esercitare sé stesso. Il potere deve
essere esercitato, deve agire, non ci sono alternative; anche nella
situazione eccezionale in cui non vi sia la possibilità di valutare con
certezza come e in che maniera, secondo quali criteri, si debba agire.
Un potere che, vittima dello stesso copione imposto dallo spettacolo,
deve continuare a recitare la sua parte. The show must go on!
Ecco allora sorgere, da questo vuoto, quella che Debord chiama volontà astratta dell’efficacia immediata.
Ecco lo stato di eccezione, vero e proprio paradigma di governo in
tutte quelle situazioni in cui il vuoto di potere (che, in un mondo
ormai esistente soltanto nella sua dimensione spettacolare, è anche allo
stesso tempo un vuoto di realtà) genera un bisogno autoindotto di
attualità da soddisfare in ogni modo. The show must go on!
Agire, sempre e comunque, per coprire ed occultare la sua realtà, il
suo vuoto: ecco l’essenza del potere. Ed ecco lo spettacolo a cui
abbiamo assistito. Ma come dice Debord, una critica che voglia andare al
di là dello spettacolo, che non voglia cadere vittima della sua stessa
spettacolarizzazione, deve saper attendere.
Gianpaolo Cherchi ha conseguito il Dottorato di Ricerca in
filosofia presso l’Università San Raffaele di Milano. Si occupa di
storia critica delle idee, di teorie del soggetto e di filosofia della
storia. Collabora con il quotidiano “il manifesto”. Ha curato il volume
“Dell’Uomo e dei Diritti/On Human and Rights” (Mimesis, 2018), e la
nuova edizione critica de “L’educazione del genere umano” di G. E.
Lessing (Mimesis 2018). Di prossima pubblicazione “Logica della
disgregazione e storia critica delle idee. Uno studio a partire da
Adorno” (Il Mulino, 2020).
Immagine in apertura: Angela Loveday, The Happy Family
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