ilfattoquotidiano.it Francesco Casula
Piombo, mercurio e Pcb, oli altamente cancerogeni svuotati nel Mar Piccolo. Non dall’Ilva, ma dalle imprese private che lavoravano negli anni 2000 nell’Arsenale di Taranto. È quanto emerge dalle dichiarazioni rese da uno dei testimoni nell’aula bunker dove si sta svolgendo il maxi processo “Ambiente svenduto” sul disastro ambientale e sanitario del capoluogo ionico.
Il 12 febbraio scorso giudici, avvocati, cancellieri, imputati erano in assoluto silenzio: Fernando Severini stava per rivelare dettagli inediti sulla storia dell’avvelenamento di Taranto. Chi è Severini? Prima della pensione era un ispettore del lavoro: per 43 anni è stato nel nucleo di Polizia giudiziaria del suo ufficio e consulente di diverse procure. Ed è proprio per un incarico ricevuto dalla procura ionica nel lontano 2005 che, il 12 febbraio scorso, Severini era in aula a raccontare quella che lui definisce una “indagine maledetta” partita per un controllo sulle condizioni di lavoro delle ditte dell’indotto dell’Arsenale di Taranto è giunta a un passo dal sequestro di un sommergibile militare.L’attività investigativa di Severini, coordinata all’epoca dal pubblico ministero Vincenzo Petrocelli scomparso nel 2012, accertò, stando a quello che l’uomo raccontato in aula, che nella zona dell’Arsenale di Taranto utilizzata in quegli anni dalle ditte private, le condizioni ambientali erano talmente pessime che la zona era stata soprannominata “Shangai”: alla corte d’assise di Taranto racconta di aver sequestrato allora l’intera area e “tutti gli insediamenti, mi pare che fossero circa settanta fra officine, officinette, installazioni, proprio in relazione alle precarie condizioni in cui si trovavano, alla presenza di prodotti, sostanze e materiali altamente tossici e nocivi”.
Sui terreni della Shangai tarantina c’era “amianto” e “qualsiasi tipo di sostanza nociva, solventi, diluenti, oli sintetici”. Con la pioggia “finiva tutto quanto direttamente in mare”. Ma non è tutto. “Scoprii – aggiunge il testimone – delle canalizzazioni ben mimetizzate, delle tubazioni, che scaricavano direttamente a mare”. Nel mar Piccolo di Taranto, insomma, stando al racconto dell’ex ispettore del lavoro, già a metà degli anni 2000 era stata sversata dalle ditte dell’indotto militare una importante quantità di materiale inquinante.“In queste canalizzazioni – specifica Severini – furono trovati, oltre che quantitativi di solventi, diluenti, oli minerali eccetera, anche quantitativi, purtroppo, di Pcb (il Pcb è il policlorobifenile, un olio dielettrico altamente cancerogeno) che scaricavano a mare”. I sub del Nucleo Operativo ecologico dei carabinieri di Lecce recuperarono “di tutto”, persino trasformatori da cui sarebbero fuoriusciti “oli dielettrici”. Il pm Petrocelli ordinò di smantellare alcuni allevamenti di cozze contaminate.
L’inchiesta proseguì e dopo aver chiuso praticamente tutti i reparti ispezionati, Severini bloccò anche il bacino “Brin” nel quale c’era un sommergibile in manutenzione. Qui, secondo il suo racconto, qualcosa andò storto. Quel sommergibile, una volta finiti i lavori in bacino, avrebbe dovuto partecipare a un’esercitazione Nato. La Marina militare e lo Stato italiano rischiavano una pessima figura in ambito internazionale. L’allora comandante del “Sios”, il “Servizio informazioni operative e situazione”, dei Carabinieri di Taranto sussurrò a Severini che qualcuno lo avrebbe bloccato, “cosa che poi in effetti si è verificata” ricorda l’uomo a distanza di oltre dieci anni.Dopo il fermo del bacino, il pm Petrocelli fu infatti convocato dal procuratore di allora Aldo Petrucci e, stando al racconto dell’ex ispettore del lavoro, alla fine della riunione tornò “mortificato” e disse “Non se ne fa più nulla. Non posso…”. L’indagine sarebbe quindi stata bloccata, smembrata in diversi tronconi e distribuita ad altri magistrati. Nel 2013 le accuse principali vengono archiviate: nello stesso periodo, però, la stessa procura accusa i Riva anche dell’inquinamento in Mar Piccolo e dell’avvelenamento delle cozze.
Un giallo riemerso dopo tanti anni che per la difesa dei Riva sgretola l’accusa contestata agli ex padroni dell’acciaio. Un mistero che si è infittito quando i difensori dei Riva, tra i quali gli avvocati Pasquale Annicchiarico e Stefano Lojacono, hanno chiesto copia di quel vecchio fascicolo: negli archivi della Procura ce n’è solo una piccola parte. Il resto? Non si sa, forse è in uno dei vecchi archivi al momento inagibile. Forse. Al momento ci sono le sue dichiarazioni e i documenti che ha voluto conservare e che nei giorni scorsi ha consegnato alla Corte d’assise. Per dimostrare che nella città dei due mari il disastro ambientale è stato causato dalla fabbrica siderurgica e da altri soggetti finora sconosciuti.
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