domenica 3 novembre 2019

Non può salvare il pianeta chi l’ha devastato.


La risposta alla crisi ecologica non può essere delegata alle Istituzioni che in questi anni l'hanno prodotta. Le comunità locali devono riprendersi il diritto di scrivere la propria storia.

 

Di fronte alle devastanti conseguenze della crisi climatica, denunciata da anni da scienziati, scienziate e movimenti sociali, si è andata diffondendo una narrazione, squisitamente ideologica, che ritiene possibile sfidare l’attuale crisi solo attraverso la cooperazione di istituzioni nazionali/transnazionali, aziende e cittadini. 
Come argomentato dal sociologo Razmig Keucheyan in La natura è un campo di battaglia, questa narrazione appiattisce gli antagonismi esistenti e ignora che questa devastazione ambientale, per quanto di ampie dimensioni, ha dei responsabili ben definiti e delle vittime predestinate e si incrocia con altre dimensioni di oppressione (di classe, di razza, di genere e di specie) che ne rafforzano l’impatto. 

Raccontare la sfida al cambiamento climatico come processo che può darsi tramite l’impegno congiunto di istituzioni, aziende e cittadini significa rimuovere una questione centrale: che la crisi ecologica è intrinsecamente legata al fallimento del modello della democrazia rappresentativa che, pur proponendosi come l’unico capace di mediare tra i diversi interessi presenti nella società, si è invece rivelato una stampella per chi ha l’interesse del profitto. 

Il caso italiano ne è un esempio.

Le mobilitazioni che da anni attraversano lo stivale per difendere i territori dalla costruzione di grandi opere inutili e dalla devastazione ambientale hanno svelato le contraddizioni dell’ambientalismo istituzionale che, da un lato, omaggia Greta Thunberg e, dall’altro, non perde occasione per rilanciare il Tav Torino-Lione come opportunità di crescita economica, misurata ancora una volta in termini di Pil e non di benessere delle comunità.
La lotta a difesa della terra si è presto estesa a una lotta contro i governi che, pur cambiando nel corso degli anni, hanno mantenuto continuità nel rapporto col dissenso espresso dai territori proseguendo su due linee di azione: la militarizzazione e l’accentramento dei poteri decisionali. All’interno di questi conflitti, la tensione tra democrazia top down e democrazia bottom up, tra locale e nazionale, tra necessità dei territori e interessi speculativi di pochi, si è inasprita sino a divenire centrale nel dibattito dei movimenti contro le grandi opere.
Intorno ai conflitti ambientali si è plasmato in quest’ultimo decennio un modello di gestione del dissenso e si è ridefinita una visione alternativa di democrazia. Se la Valsusa in questo senso ha fatto scuola, mettendo in atto pratiche di resistenza capaci di porre al centro del dibattito la questione centrale del «chi decide sui territori», anche la controparte ha sperimentato proprio in questa valle dei modelli repressivi poi diventati un esempio da perseguire altrove.
Sebbene inizialmente i tentativi di dialogo tra istituzioni e oppositori del Tav vi siano stati, si sono rivelati inutili nel momento in cui è emerso che si poteva discutere del tracciato ma non dell’opportunità di costruire l’opera. Ed è qui che si annida la questione centrale: ciò su cui non vi può essere confronto è sul rifiuto totale di un progetto. La macchina del progresso deve andare avanti.
Per ovviare le tensioni che sempre più frequentemente si sono generate e continuano a generarsi intorno all’uso del territorio, mercificato e messo a profitto da un galoppante e insaziabile neoliberismo, si è costituito nel 2004 l’osservatorio Nimby Forum che, attraverso attività di «informazione» e coinvolgimento dei cittadini, ha l’obiettivo di rendere accettabili agli occhi delle comunità locali opere e attività estremamente discutibili puntando sul rilancio occupazionale ed economico di territori che il mercato ha depredato e ora vorrebbe salvare. Questo osservatorio, finanziato da istituzioni politiche e da aziende coinvolte nella costruzione stessa delle opere contestate, rappresenta in modo chiaro l’idea di coinvolgimento e partecipazione delle élites politiche ed economiche. Una partecipazione che non può mettere in discussione il dogma del progresso, non può esprimere il proprio radicale dissenso, ma deve essere ricondotta nell’alveo del buon cittadino, passivo e conciliante.
Dati i numerosi attriti tra locale e nazionale in merito ai progetti infrastrutturali, il partito trasversale del cemento ha deciso di accentrare i poteri in poche mani. Si tratta di un processo inaugurato con la Legge Obiettivo del 2001 del governo Berlusconi e proseguito nel 2014 con lo Sblocca Italia del governo Renzi. Esautorando i livelli di governo locali delle loro competenze in materia si è cercato di velocizzare l’iter decisionale vanificando i tentativi delle comunità locali di fare pressioni sui livelli governativi a loro più vicini. Lo Sblocca Italia, in questo senso, ha rappresentato un ulteriore step nel processo di involuzione autoritaria nella gestione del dissenso proveniente dai territori, prevedendo procedure semplificate e in deroga al codice degli appalti che, tradotto, significa riportare competenze prima concorrenti tra Stato e Regioni nelle mani del primo e con maggiori rischi di corruzione nella costruzione di opere pubbliche. Inoltre, con lo Sblocca Italia, vengono dichiarate opere di «interesse strategico» nazionale tutte le infrastrutture legate all’uso di petrolio e di gas, come il Tap, con conseguenze in termini di potere decisionale riconosciuto allo Stato e di misure emergenziali a cui ricorrere a difesa dell’interesse strategico. È, ad esempio, appellandosi a quest’ultima ragione che nel 2017 ancora il governo a guida Pd decide l’istituzione di una zona rossa nei pressi del cantiere di Melendugno per difendere la multinazionale azero-svizzera Tap dalle contestazioni della popolazione che si stava opponendo all’eradicazione degli ulivi per far spazio al cantiere.
L’incapacità delle istituzioni di dialogare con gli oppositori, o forse l’interesse delle élites politiche a difendere gli interessi speculativi, ha inevitabilmente spostato lo scontro dalle istituzioni alle piazze o, per meglio dire, ai territori, e la repressione spesso è sembrata essere l’unica risposta. Dai Daspo alle zone rosse, dai processi alle manganellate, vi è stato un tentativo capillare di disincentivare ogni forma di protesta limitando, tra l’altro, la libertà di circolazione degli abitanti.
La risposta muscolare dello Stato tramite la militarizzazione, in Valsusa come a Chiaiano, a Melendugno come a Niscemi, mostra essenzialmente la volontà delle istituzioni di rifuggire da un confronto politico trattando la protesta come una questione meramente di ordine pubblico e criminalizzando il dissenso. In numerose occasioni il conflitto è stato spostato nelle aule dei tribunali, arrivando al punto di sventolare l’accusa di terrorismo contro gli attivisti, come si è tentato spesso di fare con il movimento No Tav e più recentemente con gli attivisti sardi di A Foras contro le basi militari nell’isola. I recenti decreti sicurezza emanati dal passato governo giallo-verde sono andati nella stessa direzione, reintroducendo il reato di blocco stradale, depenalizzato nel 1999, e così criminalizzando una delle pratiche di resistenza più comuni tra i movimenti a difesa della terra.
Sarebbe fuorviante pensare questi casi come delle eccezioni. Queste lotte, piuttosto, hanno messo in evidenza il modo in cui ordinariamente il sistema interagisce col dissenso.
Il merito dei numerosi movimenti che negli ultimi vent’anni hanno animato il paese, è quello di essere riusciti a intrecciare in modo indissolubile la dimensione ecologica e quella democratica svelando le dinamiche di potere in un conflitto evidentemente asimmetrico e sollevando con irruenza un interrogativo: chi ha diritto a decidere sulle nostre vite e sui nostri territori? Perché delegare la decisione a chi difende gli interessi privati di pochi a danno delle collettività?
Questo breve excursus di atti e decreti, più che restituire una cronistoria del rapporto tra governi e istanze ambientaliste nel contesto italiano, serve a ragionare sulla retorica dominante nell’attuale fase politica. Questa narrazione tende a indicare l’umanità tutta – indistintamente da classe, razza e genere – come responsabile dei catastrofici stravolgimenti del pianeta che hanno condotto a una nuova era geologica (antropocene) e come protagonista, oggi, di una sfida che ci vede tutti alleati.
Questa alleanza tuttavia non è possibile nella misura in cui i politici italiani – e non solo – continuano a investire in opere anacronistiche ed energivore basate ancora sui combustili fossili, come Tap, Rete Adriatica o Galsi, pur riempiendosi la bocca di parole e promesse di un futuro ecologico. L’idea di «green» che mercati e Stati vorrebbero attuare l’abbiamo conosciuta alle numerose Conferenze per il Clima e ai vertici internazionali. Ma anche a Milano, nel 2015, con Expo, dove dietro allo slogan «Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita» si è consumato l’ennesimo mega-evento fatto di debito, cemento e precarietà ma anche di corruzione e di redditizie opportunità per i grandi brand come Nestlè, Coca Cola, Enel o McDonald di presentarsi con un nuovo volto e per altre, come Eataly o Slow Food, di accaparrarsi una fetta di mercato costruito sulla strumentalizzazione delle istanze green.
Tenendo conto dell’intersezione tra questi aspetti, è evidente che la risposta alla crisi ecologica non può essere delegata a chi l’ha prodotta imponendosi sulle comunità, quelle che per prime hanno pagato il conto di un mercato predatorio che considera la deturpazione dell’ambiente, con tutto ciò che ne consegue, come esternalità negative da mettere a valore. La ricerca di una soluzione non può essere consegnata nelle stesse mani che hanno avvelenato e saccheggiato il pianeta e che hanno represso fisicamente e giudiziariamente chi ha provato a smascherare questo sistema e a difendere il diritto, individuale e collettivo, a vivere sul proprio territorio.
Questa sfida è stata già colta da anni dai movimenti contro le grandi opere inutili e imposte e oggi assunta dai Fridays For Future che sono stati capaci di legare, con efficacia locale e globale, lotta sui territori e lotta al cambiamento climatico.
La rotta può essere invertita solo accogliendo la proposta proveniente da questi soggetti di ripensare radicalmente modelli decisionali e organizzativi che partano dalle necessità delle comunità di poter decidere per il proprio futuro e per il proprio presente. Questo significa anche disinnescare il processo individualizzante e atomizzante che caratterizza il sistema capitalista e ripensarci come comunità, ricomponendo quella tensione individuo-collettivo, termini che appaiono nel nostro tempo antitetici a causa di una retorica incentrata sulla competizione e sul darwinismo sociale.
Le lotte di cui parliamo sono state e sono tutt’ora fondamentali laboratori politici dove queste riflessioni sono maturate e hanno messo radici, e dove le comunità, basate su una comunione di intenti piuttosto che su un senso identitario escludente, si sono ricostruite e hanno posto in modo incontrovertibile la rivendicazione dell’autodeterminazione.
Del diritto, per dirla con le parole usate dal movimento No Tav, di scrivere la propria storia.

*Paola Imperatore è dottoranda presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa, membro dell’Opi (Osservatorio su Politica e Istituzioni) e del PoliCom. Attivista di Non una di meno Pisa, ha scritto per Gaia, Commonware, Il Ponte e altre riviste.

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