di Antonino Galloni
1.INVARIANZA DELLA SITUAZIONE ATTUALE.Tale prima ipotesi conduce alla insostenibilita’ sociale assoluta ed alla insostenibilità finanziaria relativa.
La insostenibilità sociale dipende dall’architettura dell’euro; esso, infatti, é stato introdotto per un modello economico prevalentemente – se non esclusivamente – orientato alla ricerca di competitività.
Ma quest’ultima è stata perseguita per ottenere le conseguenze di essa: vale a dire la deflazione salariale e la compressione della domanda interna, cioé minore e peggiore occupazione (precarizzazione).
Se si fosse voluta una maggiore competitività dei mercati, infatti, si sarebbe dovuti partire dalla convergenza tributaria, non dalla moneta unica.
Nel progetto apparente dell’euro e della Unione, l’obiettivo di ciascun Paese sarebbe stato quello di far aumentare le esportazioni, anche a costo di sacrificare i salari e l’occupazione, vale a dire la domanda interna.
Ma le esportazioni di un Paese sono le importazioni di un altro; quindi, il modello scelto presuppone l’esistenza di squilibrio nella bilancia commerciale che spinge sia all’aumento della remunerazione del capitale finanziario (per attirare capitali dall’estero onde riallineare la bilancia dei pagamenti), sia a perseverare nella deflazione salariale e occupazionale.
In questo modo si ottiene un duplice effetto negativo sui conti pubblici dovuto all’aumento dei tassi di interesse sul debito pubblico da una parte e all’esigenza di aggravare la pressione fiscale sui ceti meno abbienti e più numerosi, già provati dalla deflazione.
La società, dunque, si divide tra una maggioranza che si impoverisce sempre più per effetto della deflazione, dell’aumento del carico tributario e del peggioramento dei servizi pubblici – da una parte – ed una minoranza che puo’ scaricare sulla clientela i maggiori oneri compresi gli stessi incrementi di tasse.
Non deve stupire, quindi, se tale maggioranza cerchi di esprimere, nei vari modi possibili (dalle elezioni alle proteste di piazza alla prospettiva della disobbedienza civile) il proprio disagio.
Dentro l’attuale cornice dell’euro e dell’Unione, lo scenario sociale puo’ essere definito solo come insostenibile in maniera assoluta.
Sul fronte finanziario, benché i dati disponibili siano più che allarmanti, il sistema internazionale appare ancora in grado di resistere.
Cio’ accade perché le risorse monetarie producibili dalle Banche Centrali per gestire le incredibili tossicità debitorie create dai grandissimi intermediari, non hanno limiti: é sempre possibile collateralizzare un titolo, magari allungandone la scadenza, se la Banca Centrale lo accetta a garanzia in cambio di moneta a corso legale e a « costo zero ».
Tale capitalismo ultrafinanziario ha superato la scarsità dei mezzi di pagamento; e la sua sostenibilità (relativa) si basa sul fatto che la immensa liquidità non arriva all’economia reale. Il credito bancario all’economia reale, infatti, é bloccato dalle regole vigenti e gli operatori si arrangiano con metodi alternativi; detto credito, tuttavia, sempre per le regole vigenti, é ampiamente disponibile per le operazioni speculative e la giostra continua.
Essa sarà fermata: da un cambiamento delle regole imposto dalla politica; dalla applicazione alle grandi banche dei test vigenti in concomitanza di un restrigimento della disponibilità di liquidi illimitati da parte delle Banche Centrali (ad esempio, l’allineamento della BCE sui comportamento più restrittivo della FED, atteso nella seconda parte del 2019, se Trump non la spunterà con la FED, se la Germania manterrà le posizioni previste quando sarà alla guida della BCE).
Tornando alla insostenibilità sociale, essa sarà confermata dai necessarissimi – ma mancati – superamenti del paradigma capitalistico e di quello della scarsità.
Nei comparti produttivi ad elevata redditività, infatti, la domanda di lavoro è decrescente (sempre meno addetti garantiranno i beni materiali ed i servizi ad alto valore aggiunto di cui abbiamo bisogno) ; l’aumento dei profitti sarà consistente, ma inferiore all’effetto di riduzione del PIL dovuto al calo occupazionale dove le retribuzioni possono essere più elevate e sarà anche inferiore alla necessità di investimenti tecnologici. La soluzione, almeno parziale, sarebbe la riduzione di orario di lavoro a parità di salario, ma gli stessi percettori di profitti vi si oppongono perché ne percepiscono solo l’effetto reditributivo a loro avverso. Non ne percepiscono neanche l’effetto di insostenibilità sull’economia complessiva, sicché si puo’ considerare storicamente esaurita la spinta sociale del capitalismo stesso.
Quindi, crescono solo i profitti, non l’occupazione, non il PIL, non la convenienza ad investire nella tecnolgia perché la massa di essi cresce in assoluto e all’interno del valore aggiunto o PIL, ma decresce in rapporto alla massa degli investimenti: cio’ vuol dire che, presto, lo Stato dovrà riprendere a fare investimenti non solo « strategici » ma anche industriali.
Invece, nei comparti dove l’occupazione deve crescere (servizi di cura delle persone, dell’ambiente, del patrimonio esistente) il paradigma capitalistico non puo’ essere applicato perché il fatturato – che dipende dal reddito disponibile dei cittadini – é inferiore al costo (il lavoro necessario, appunto).
Che fare, dunque?
2.I MEMBRI DELL’UNIONE EUROPEA SI METTONO D’ACCORDO PER RIFORMARE LE REGOLE OVVERO ABBANDONARE L’EURO.
Scenario molto teorico, visti gli interessi di chi ha continuato a prosperare alle spalle degli altri consociati. Ma, almeno, allettante se si dovesse raggiungere consapevolezza di un modello economico sostenibile, vale a dire caratterizzato dal comune obiettivo di sostituire importazioni ovvero favorire le economie locali restituendo alla crescita della domanda interna il suo fondamentale ruolo di traino.
Le elezioni europee di fine maggio 2019 ci diranno qualcosa al proposito…ma, per ora, tale scenario appare il più improbabile.
3.ESPLOSIONE OVVERO IMPLOSIONE DEL SISTEMA DELL’EURO.
Meno improbabile appare tale terzo scenario, soprattutto alla luce dell’analisi iniziale; in tale caso occorre dotarsi – o, meglio, essersi dotati tempestivamente di un “Piano B” in grado di relizzare in tempi e modi accettabili un ritorno improvviso alla valuta nazionale.
4.GRANDE PAESE CHE LASCIA.
Premesso che l’abbandono di Italia, Francia o Germania porterebbe quasi sicuramente al crollo dell’euro, tale ipotesi, oggi, sembrerebbe più probabile per quest’ultima. Infatti, la Germania ha già capitalizzato tutti i vantaggi della situazione e, adesso, avrebbe più ragioni di guardare verso la Russia, soprattutto se l’Unione Europea dovesse continuare a manifestare una scarsa indipendenza internazionale dagli USA.
Ma gli USA vorrebbero uno sfaldamento della UE ? O, piuttosto, temono un allargamento dell’Europa – ma non certo di questa UE – alla Russia ?
5.UNA SOLUZIONE PARALLELA.
Sebbene un qualsiasi tipo di abbandono dell’euro non ponga più problemi di quanti ne risolverebbe (purché, ad esempio, nel caso italiano, si tornasse almeno alla situazione precedente il 1981, non certo a quella del 2001), prevale, nell’opinione pubblica, il disagio per un programma di immediato e diretto ritorno alla valuta nazionale.
Vi sono, invece, molte buone ragioni per proporre una soluzione più pratica e di facile applicazione: vale a dire l’introduzione di una valuta parallela statale, a sola circolazione nazionale, non convertibile, ma a corso legale, con cui sarebbe possile, soprattutto, pagare le tasse; essa non é contemplata e, quindi, nemmeno proibita, dal Trattato di Lisbona dove si parla, appunto, di banconote e non di statonote.
La competenza sottratta alle banche nazionali per essere attribuita alla BCE, infatti, riguarda la sola « moneta a debito », non la sovranità monetaria dello Stato che puo’ essere o non essere esercitata per sola volontà amministrativo-politica interna.
Il vantaggio di tale soluzione é che un’immissione di tali mezzi di pagamento per una percentuale moderata del PIL (non superiore al 3 % di esso perchè il resto sarebbe credito bancario) avrebbe il duplice vantaggio di consentire spese pubbliche necessarie (come le assunzioni nella pubblica amministrazione) senza aggravare disavanzi o debito: infatti tali risorse – a costo zero – avrebbero lo stesso segno algebrico delle tasse e si sommerebbero ad esse controbilanciando il livello della spesa.
6.CONCLUSIONI.
Atteso che l’intera impalcatura dell’Unione risulta in crisi – come evidenziano anche le tensioni tra Italia e Francia dall’ « affaire Gheddafi » ai Gilet Gialli – persino di più del capitalismo ultrafinanziario internazionale (considerate le luci dei Paesi emergenti come Cina, India, ecc.): bisognerebbe cercare convergenza su un « programma minimo » non massimo (come le parole d’ordine giuste ma divisive « fuori dall’Unione, fuori dall’euro »). Esso può trovare il primo e fondamentale elemento di coagulo nel superamento del paradigma capitalistico (in crisi) della scarsità attraverso la introduzione di una valuta parallela, a corso legale solo nazionale, non convertibile, capace di fornire mezzi ad una spesa pubblica – per occupazione ed investimenti necessari – senza creare ulteriore debito.
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