mercoledì 13 febbraio 2019

Migranti & Hotspot. Tra i dimenticati di Lesbo, finché l’Europa non tornerà umana.

Quando arriviamo alle barriere di filo spinato che circondano l'hotspot di Moria, un forte temporale si abbatte sull'isola di Lesbo già da qualche ora. 

François Dumont Direttore della comunicazione Medici Senza Frontiere Italia

Secondo le previsioni, il meteo non dovrebbe migliorare nei prossimi nove giorni.  
Più di 5mila uomini, donne e bambini sopravvivono qui, in un campo previsto per ospitarne 3mila, privo delle minime condizioni di dignità.

Sembra una prigione a cielo aperto, dove intere famiglie vivono intrappolate dall'accordo tra Unione Europea e Turchia, siglato nel 2016.
Soprannominato da molti "l'accordo della vergogna", l'intesa Ue-Turchia prevede il contenimento e il respingimento di migranti e rifugiati in Turchia e l'obbligo per le persone arrivate a Lesbo di fare domanda d'asilo sull'isola. Questo costringe migliaia di persone, in fuga da guerra e violenze, a rimanere bloccate per mesi, alcune addirittura fino a due anni, prima di ricevere una qualunque risposta.
Mentre camminiamo nel campo insieme a Faris Al-Jawad, della comunicazione di Medici Senza Frontiere (MSF), e Mahdjane Abidian, che si occupa di promozione della salute, siamo circondati dalle piccole bandiere europee stampate su ogni telo di plastica che ricopre i ripari di fortuna, per segnalare che sono donati dall'Unione.
Una signora afghana ci invita nello scarno container che le serve da casa. Non riesco a crederle quando mi dice che ci abitano in 30, con anche tanti bambini, per la maggior parte del tempo senza elettricità.

Per dormire, si sistemano in due persone ogni letto e si danno un'illusione di privacy appendendo delle coperte a dividere lo spazio.
"Olive Grove" è un campo di ulivi identico – se non peggiore – a tantissimi campi per rifugiati di guerra o disastri naturali che ho visitato in altri continenti. Chi non ha trovato posto nel sovraffollato campo ufficiale, ha iniziato a sistemarsi come poteva su questa terra che lo affianca.
In mezzo al fango e ai rivoli d'acqua, c'è una piccola tenda bassa e buia, all'interno della quale hanno addirittura acceso un fuoco per scaldarsi. È qui che incontriamo Ismail, un signore afghano di 70 anni, bloccato sull'isola da più di cinque mesi. Con la stampella appoggiata nel fango, dice di avere già vissuto il caldo dell'estate e il freddo dell'inverno in questo campo, e condivide con noi la sua speranza, semplice: "Trovare un posto sicuro e avere un tetto sopra la testa".
MSF gestisce una clinica di fronte al campo, dove fornisce cure mediche e psicologiche ai bambini, e cure ostetriche alle donne incinte. L'ostetrica italiana Tina Maffezzoni riceve le donne in un piccolo van medicalizzato, attrezzato con un letto per le visite e tutti gli strumenti necessari.
Una sistemazione sommaria ma, come mi dice Tina, anche un posto protetto, dove si può trovare un po' di privacy: "Noi diciamo a queste donne che ci siamo, non solo per aiutarle dal punto di vista medico ma anche per ascoltarle, scambiare emozioni e farci sentire vicini."
Un terzo degli abitanti del campo di Moria sono bambini, circa 2mila al momento, e per loro le conseguenze sono drammatiche.
Ogni settimana le nostre équipe assistono adolescenti che hanno tentato il suicidio o si sono inferti ferite, e rispondono a numerosi casi critici dovuti a violenze, autolesionismo infantile e mancanza di accesso a cure mediche d'emergenza.
Come spiega lo psicologo Fabrizio Carucci, responsabile del programma di salute mentale di MSF, "riusciamo ad aiutarli, con il nostro cuore e la nostra professionalità, ma rimarrà un cerotto su una ferita aperta, fino a quando questi bambini non verranno liberati dalle condizioni inumane che causano – e ogni giorno peggiorano – il loro disagio psicologico."
Tante delle persone che si trovano a Moria hanno subito violenze o torture nei loro paesi d'origine, e sono affetti da disturbi post traumatici da stress.
Ma ciò che colpisce di più, come spiega il dottor Alessandro Barberio, psichiatra di Trieste e operatore di MSF sull'isola, è che tanti pazienti presentano anche sintomi psicotici gravi, come stato di agitazione, confusione mentale, disorientamento e spesso allucinazioni.
Continuano a vedere i perpetratori delle violenze che hanno subito, i militari che li hanno torturati o i loro cari che sono stati uccisi accanto a loro.
Nella clinica, un paziente non poteva sopportare l'odore del sangue, perché gli ricordava il fratello decapitato.
Per aiutare queste persone, vittime di traumi e violenze, MSF ha aperto una clinica per la salute mentale a Mitilene, la città principale dell'isola, a qualche chilometro dal campo di Moria.
Con il cuore, gli operatori di MSF forniscono un'assistenza medica e psicologica davvero fondamentale, ma anche una presenza umana e un po' di sollievo in mezzo alla disperazione.
Mentre la mia visita a Lesbo si conclude arrivo anch'io alla stessa conclusione: l'unico modo per aiutare veramente queste persone, porre fine alle loro sofferenze e dare loro un'opportunità di recupero, è di evacuarle urgentemente verso una sistemazione sicura. Evacuarle sulla terraferma o in altri paesi europei, dove potranno ricevere un'accoglienza adeguata.
Le bandiere europee onnipresenti in ogni angolo di Moria me lo ricordano ogni minuto: i paesi e l'Unione europea devono assumersi la responsabilità di questo inferno e avviare azioni concrete per ridare speranza ai dimenticati di Lesbo e un po' di umanità alla nostra Europa.

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