L’ultimo saggio dello storico israeliano Yuval Noah Harari “21 lezioni per il XXI secolo” pone questioni cruciali di attualità: è un pensiero di grandi temi e grandi ambizioni, che mette a fuoco domande impellenti sull’avvenire del pianeta e di ognuno di noi.
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micromega Rossella Guadagnini
Non penso mai al futuro. Arriva così presto. Albert Einstein
Pensare in grande. Una modalità che avevamo un po’ trascurato,
presi come siamo dalle urgenze quotidiane, concentrati sull’ordinaria
amministrazione. Eppure il terzo millennio appena cominciato si profila
già così inquietante. E’ la paura del futuro, certo, che ci attanaglia
se guardiamo in avanti, tanto più se non si è giovani. Ma a scoraggiare
ogni tentativo concorre anche la vastità dei problemi che ci fa toccare
con mano la nostra finitezza, rivelando il limite del singolo e il senso
di impotenza che ne deriva. Un effetto collaterale della
globalizzazione.
Per mettere un po’ d’ordine nel caos del presente arriva un saggio dal titolo fiammeggiante, che ci spinge un passo oltre la soglia: “21 lezioni per il XXI secolo” (edito da Bompiani) di Yuval Noah Harari, docente alla Hebrew University di Gerusalemme. Lo storico israeliano quarantaduenne – già autore del fortunato “Homo deus” – esamina, con un linguaggio diretto e immediatamente comprensibile, temi di attualità a cui è difficile oggi dare una risposta, forse perfino prematuro. Perché la democrazia liberale è in crisi? Dio è tornato? Sta per scoppiare una nuova guerra mondiale? L’Europa deve tenere le porte aperte ai migranti? In che modo difendersi dal terrorismo? Che si può fare contro le fake news?
La riflessione ambiziosa quanto vasta di Harari ci fa da utile stampella in questo accidentato percorso, a cominciare dall’attuale situazione politica e tecnologica. “Sul finire del XX secolo – scrive – sembrava che le grandi battaglie ideologiche tra fascismo, comunismo e liberalismo si fossero concluse con la schiacciante vittoria del liberalismo”. Ma, visto che ‘la fine della storia’ – almeno per ora – è rimandata ci siamo ritrovati con un liberalismo in difficoltà, senza più sapere dove siamo diretti. La convergenza delle tecnologie informatiche e biologiche è in grado “di espellere dal lavoro miliardi di soggetti e mettere a rischio sia la libertà che l’uguaglianza”.
Gli algoritmi che elaborano i Big Data – spiega lo storico – potrebbero instaurare dittature digitali in cui tutto il potere è concentrato nelle mani di un’élite, condannando tutti gli altri a qualcosa di peggio dello sfruttamento, di marxiana memoria, ossia all’irrilevanza. Eppure, la liberal democrazia resta per lo studioso il modello di maggior successo ancora in circolazione, il più versatile per affrontare le sfide del mondo moderno. I suoi istituti vanno però adattati e aggiornati; nell’attuale clima politico, inoltre, qualunque pensiero critico del liberalismo e della democrazia può essere strumentalizzato da autocrati e da movimenti illiberali.
Dunque, che fare? Le cognizioni oggi offerte dalle neuroscienze e dall’economia comportamentale ci hanno privato di quello che ritenevamo il libero arbitrio, il potere di compiere scelte indipendenti: sappiamo ormai che intervengono miliardi di neuroni nel cervello per calcolare le probabilità di successo in una frazione di secondo e quello che riteniamo ci piaccia d’istinto può, in realtà, essere pilotato da chi conosce i nostri comportamenti abituali meglio di noi stessi. “Matrix” docet. L’intelligenza artificiale è destinata a superare le prestazioni persino nei compiti che prevedono l’intuizione. Perfino le forme artistiche, come la musica ad esempio, possono essere replicate grazie agli algoritmi biometrici e addirittura ‘migliorate’, rese più facilmente accette, benché tutto ciò non significhi produrre arte di miglior livello.
Anche le decisioni politiche, i voti di elezioni e referendum – ricorda Harari – dipendono non da ciò che pensiamo, ma da ciò che proviamo. E i sentimenti non guidano soltanto gli elettori, ma anche i leader. La fiducia riposta nel fare ‘la cosa giusta’ può rivelarsi assai fallace, specie quando “qualcuno a Pechino o a San Francisco avrà messo a punto la tecnologia per controllare i sentimenti e manipolarli”. Uno scenario orwelliano da “1984”, in cui la tv ci guarderà nell’esatto istante in cui noi la guarderemo, grazie a una telecamera in grado di osservare le espressioni facciali e i movimenti oculari. Avete presente l’uso di informazioni fornite dai nostri comportamenti non verbali in opera nella serie tv americana “Lie to me”? Però distorto e applicato su larghissima scala.
“Chi possiede i dati possiede il futuro”. Un’affermazione dimostrata dall’interesse strategico per il loro rastrellamento da parte delle grandi compagnie di information technology. L’obiettivo di Google è “fornire la migliore risposta in assoluto a qualunque interrogativo venga posto”. Per fare questo ha necessità di un’enorme quantità di informazioni. Quelle personali spesso siamo noi stessi a fornirle, ben felici di comunicare gratuitamente notizie che ci riguardano in cambio di qualche simpatico video sui gattini. Facebook, in questa prospettiva, assomiglia indubbiamente più a un’arma di penetrazione di massa, che a un innocuo “libro delle facce”. E Mark Zuckerberg appare un po’ meno un benefattore universale nel suo desiderio di unire tutto il mondo in rete.
Ma cosa può succedere se continuiamo a delegare le scelte alle macchine, dal linguaggio automatico degli smartphone – che stabilisce come proseguire la parola che abbiamo appena iniziato a digitare – al navigatore satellitare – che decide il percorso migliore – o un domani al pilota automatico dell’auto che, in caso di incidente, determina al posto nostro quale tra le persone coinvolte sacrificare? Scenari distopici a parte, il trattatello cinquecentesco di Etienne de la Boétie “Sulla servitù volontaria” – e la sua tesi sui tiranni che detengono il potere poiché sono i sudditi a concederglielo – sembra essere costantemente valido, sebbene a esercitare una forma di dittatura consensuale sia la tecnologia.
“In un mondo alluvionato da informazioni irrilevanti, la lucidità è potere. La censura non opera bloccando il flusso di informazioni, ma inondando le persone di disinformazione e distrazioni”. Tutto vero: siamo già continuamente sollecitati da troppi input, obbligati a un’attenzione intermittente, incapaci di concentrazione prolungata. “Se vi sentite sopraffatti e confusi dalla difficile situazione del pianeta – ci conforta Harari – siete già sulla buona strada”.
La propaganda non è una novità, così come le bufale: “alcune notizie false durano per sempre”: è il caso dei miti fondativi e delle religioni. Abbiamo assimilato con fiducia storie di pura fantasia per migliaia di anni, perciò di cosa stupirsi? Una tesi sostenuta una volta può essere una bugia, ma ribadita innumerevoli volte “si trasforma in verità”, dal momento che abbiamo “l’abilità di sapere e non sapere allo stesso tempo”. In effetti “verità e potere possono viaggiare insieme solo fino a un certo punto”, poi le strade divergono. Quale imboccheremo? “Come specie, gli uomini preferiscono il potere alla verità”, commenta lo storico.
Per difendersi la soluzione sarebbe “la cooperazione globale”, ma nazionalismi, religioni e cultura “dividono l’umanità in parti ostili”. Un esempio sotto gli occhi di tutti noi è l’Europa e quel che se ne deve fare: darle una pedata o renderla finalmente sovrana? Magari – aggiungiamo – secondo la volontà e l’interesse degli europei e non secondo i desiderata di altri stati o confederazioni. Qui arriva in appoggio un’altra massima di Harari: “Il silenzio non è neutrale, è a sostegno dello status quo”.
Non a caso l’ultima parte del volume è sulla resilienza, mentre la necessità della meditazione sigilla il discorso. Consapevoli, frequentatori del dubbio, lucidi e tenaci, resteremo l’ingrediente principale della ricetta ancora per qualche decennio. Post-verità e posterità, insomma. Poi sapiens avvisato…
(6 febbraio 2019)
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