mercoledì 13 febbraio 2019

La questione foibe e la verità di Stato

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di Angelo d’Orsi
Ho voluto attendere che il 10 febbraio fosse alle nostre spalle, prima di scriverne. Sapevo ovviamente che la “questione foibe” sarebbe ritornata puntualmente, come ogni anno, all’onore (o meglio al disonore) delle cronache. Sapevo che come per il Venezuela, come per il Tav (solo per fare due esempi), si sarebbe verificato il bombardamento mediatico-politico, e le tifoserie si sarebbero eccitate, scendendo in campo, ma a differenza di questi due esempi, in cui comunque i due campi hanno la possibilità di esprimersi, sia pure con uno dei due svantaggiato dalla schiacciante forza del mainstream, per “le foibe” la sproporzione è immensa: si tratta di un’autentica “guerra ineguale”. 

La narrazione delle foibe, mendace e infondata, anticomunista “a prescindere”, è divenuta, in quest’anno di grazia 2019, verità di Stato, con tanto di sanzioni per coloro che se ne distacchino. La situazione è stata aggravata dalla convergenza tra opinionisti (che di regola non sanno nulla di ciò su cui opinano) e politici (i quali prescindono completamente dalla verità). E a dispetto dei risultati della ricerca storica seria, che ha certificato qualche centinaio di infoibati, spesso semplicemente cadaveri (vittime “naturali” della guerra, ma anche persone giustiziate) che sono stati gettati in quelle cavità per ragioni di “praticità” in tempi difficili, dove non c’era spesso modo né tempo di dare degna sepoltura ai morti. Certo vi sono stati italiani trucidati, e infoibati, ma dobbiamo tener conto del contesto, e soprattutto stiamo parlando di cifre che sono davvero imparagonabili alle migliaia e decine di migliaia di cui il discorso che si è imposto parla senza alcun fondamento. Ma tant’è.

Si è andata costruendo, in sintesi, nel corso degli anni, una verità “politica” sulla questione, in un processo avviato una quarantina di anni or sono, in televisione, e portato avanti nelle aule parlamentari, processo che ebbe il suo crisma di ufficialità con l’istituzione della “Giornata del ricordo” nel 2004, Berlusconi regnante. Quella decisione, tuttavia, fu bipartisan, e da allora il cosiddetto centrosinistra non ha compiuto il minimo sforzo di differenziazione rispetto alla narrazione che era stata alla base di quella legge, e che a partire da quel momento diventò appunto “ufficiale”, per poi trasformarsi in una sorta di dogmatica rispetto alla quale ogni contestazione, anche limitatamente alle cifre o alle date, correva il rischio di essere bollata come eresia.
Che è precisamente ciò che si è verificato in questo 2019, con la manganellesca esternazione dell’onnipresente ministro Salvini, aduso ad ogni travestimento e a tutte le incombenze, anche quelle che nulla hanno a che fare col ruolo istituzionale, a cui del resto è poco interessato, comportandosi semplicemente da capopartito. A lui si sono accodati immediatamente un po’ tutti i rappresentanti dell’arco ufficiale della politica nazionale, da Giorgia Meloni ad Antonio Tajani, da Pietro Grasso a Nicola Zingaretti, fino al Presidente della Repubblica, ormai divenuto portatore di uno stile interventista che nei primi anni del mandato appariva in ombra: egli ha lodato, sintomaticamente, il suo predecessore Napolitano, il quale aveva provocato con certe dichiarazioni una crisi diplomatica con la Croazia, qualche anno fa. Mattarella, con gesto non si sa se machiavellicamente studiato o semplicemente irresponsabile, non solo ha mostrato di sposare in toto le panzane dei pasdaran dell’“operazione foibe”, ma ha tuonato, sia pure mellifluamente, contro i portatori di qualsiasi forma di “negazionismo” e di “riduzionismo”. E sotto tali fattispecie vengono collocati i tentativi, per quanto pacati e documentati, di inserire le vicende del Confine nordorientale nel contesto proprio: ossia l’occupazione fascista di quelle terre, la politica sterminazionista delle truppe italiane ai danni degli abitanti, la scia di odio e di risentimento che essa ha lasciato. 

Analoghe parole venivano intanto proferite dal sullodato Salvini, sia pure con altro tono e in contesto espressivo di ben diversa aggressività (“ i negazionisti mi fanno schifo” e via vomitando ingiurie), mentre Giorgia Meloni si esibiva in una conferenza davanti alla videocamera da diffondere via Facebook, raccontando, da nota studiosa di storia (!), la “verità sulla foiba di Basovizza”.

Quanto a Tajani, presidente del Parlamento Europeo, ricuperava agilmente il paragone foibe-lager nazisti, e non solo ribadiva quelle pseudo-verità come fatti incontrovertibili, ma si spingeva, con un straordinario esempio di stoltezza politica, a rivendicare all’Italia Fiume e la Dalmazia. Parole che hanno provocato l’ira dei governanti sloveni e croati. Qui non si tratta delle ombre residue delle due guerre mondiali, ma del possibile, sciagurato, non si sa quanto involontario, preavviso di una nuova guerra: del resto non ci si può stupire più di tanto. Il Parlamento di Bruxelles, dominato dalla destra, ha riconosciuto il signor Guaidò a presidente del Brasile, ha appoggiato il colpo di Stato nazista in Ucraina, e via seguitando. Tajani in fondo è il degno rappresentante di quel consesso.

In tale clima, determinato dalla nuova santa alleanza dei costruttori della menzogna che si riassume nella parola “foiba”, si è diffuso un clima di caccia alle streghe che quest’anno si è materializzato con aggressioni fisiche, verbali, denunce, dichiarazioni di incompetenti spacciati per esperti, i quali non possono evitare l’urlo sguaiato. E chi non si allinea, viene bollato con l’etichetta di “negazionista”. Strano destino quello della parola: da fase suprema del revisionismo, che si spinge a negare l’esistenza delle camere a gas nei lager nazisti e lo stesso progetto di sterminio del popolo ebraico e degli altri “sottoumani” internati. Ora la parola viene derubricata, con una perdita di senso e di valore rispetto alla quale la prudenza sarebbe obbligatoria. E Salvini, di scempiaggine in scempiaggine, è riuscito a dire, con sfrontatezza, “i bimbi di Auschwitz e quelli delle foibe sono uguali”… Parole che hanno suscitato una vibrata protesta di un grande scrittore testimone ebreo slavo e cosmopolita come Boris Pahor.

Certo, anche se pochi, gli studiosi e le studiose professionali di questo tema esistono, ma o si lasciano condizionare dal senso comune (qualcuno in relazione alla famigerata “foiba di Basovizza”, dove cadaveri non sono stati ritrovati, è riuscito a dire che comunque si potrebbero trovare, che è difficile trovarli, e così via: come dire, che non essendoci documenti su di un fatto storico, noi lo ricostruiamo come ci piace, dicendo che comunque le prove si potrebbero trovare…); oppure si cerca di toglier loro la parola, ed è ciò che è capitato a Claudia Cernigoi, che è stata crocifissa, le è stato letteralmente impedito di parlare: in particolare segnalo il caso vergognoso del sindaco di Cologno Monzese e del presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, i quali hanno aggredito colei che, accanto ad Alessandra Kersevan e a Sandi Volk, è a mia conoscenza probabilmente la sola vera studiosa delle foibe. Evidentemente non è questo il tempo di lasciare la parola a chi sa. È invece il tempo degli urlatori, dei demagoghi, dei veri propalatori di false verità. Ma ciò che atterrisce è che stiamo assistendo non solo alla trasformazione della menzogna in verità, ma alla sua istituzionalizzazione.

A maggior ragione, occorre che la comunità intellettuale, in primo luogo quella dei cultori della musa Clio, si stringa intorno a quei pochi, che impavidi, anche se assediati, resistono in difesa della verità storica.

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