giovedì 14 febbraio 2019

Il nuovo familismo amorale.

Come un secolo fa, si è formato e tende a prevalere un nuovo blocco sociale reazionario. Esso è fatto, come allora, di operai disoccupati, di ceti medi in rovina e, in più, di una parte di operai e di ceti medio-alti protetti e corporativi. I ceti poveri o impoveriti sono blanditi dal potere che si dichiara loro protettore per meglio scaricare su di loro il peso della crisi.



micromega Cosimo Perrotta
Nell’Italia di Salvini domina un nuovo familismo amorale. Questa espressione fu creata dal sociologo americano Banfield nel 1958 per descrivere i rapporti sociali di un paesino arretrato della Basilicata (Chiaromonte, chiamato col nome fittizio di Montegrano).[1] Il familismo amorale descrive la cultura di chi si sente assediato da un mondo esterno minaccioso e oppressivo, e si difende legandosi ai soli rapporti che può controllare, quelli della famiglia.

È questo un atteggiamento amorale perché disprezza la dimensione civica, ritenendola una finzione fatta a fini di interesse personale. Questo fanno i politici, ma anche i funzionari dello stato e di tutte le istituzioni, religiose o laiche. L’uomo del familismo non ha valori civici, non ha solidarietà, non riconosce il merito, non rispetta i diritti del cittadino. Egli conosce e riconosce solo il potere, inteso come forza e capacità di costringere gli altri. Non ha morale. “L’altro” è il diverso, l’estraneo; è un potenziale pericolo da cui difendersi. L’altro in quanto tale non merita rispetto né umana comprensione.

Si può pensare che tutto questo c’entri poco col nostro presente. L’analisi di Banfield riguardava il Sud contadino, che aveva subito per molti secoli le angherie degli agrari; ma anche dello stato e della chiesa, che erano al servizio degli agrari. Per tutto quel tempo i ceti popolari erano stati oppressi dalla fame e dalla fatica. In realtà quella società già allora aveva cominciato a scomparire. Però, sotto la crosta civica e democratica, imposta dal senso comune dell’Italia post-fascista, i disvalori - rispetto all’ottica moderna - del familismo amorale hanno continuato ad operare nel Sud, anche se continuavano a pagare un tributo formale ai valori moderni.[2]

D’altra parte, nel Nord la tradizionale debolezza dello Stato ha limitato il senso civico alla dimensione comunale o regionale, e ha predisposto quelle comunità all’ostilità verso l’estraneo. Ne hanno fatto le spese prima i meridionali e poi gli immigrati non italiani.

Tutti questi umori, irrazionali e più o meno sotterranei, sono riemersi con forza quando è arrivata la crisi economica che sta devastando l’economia occidentale. Questa crisi si presenta in modo molto di più grave in Italia, per cause remote, ma tutt’altro che oscure, che non possiamo riassumere qui.

La crisi sta creando una massa crescente di diseredati: scolarizzati senza lavoro, operai disoccupati, lavoratori precari e iper-sfruttati. La conseguente disoccupazione, che dilaga, e la tradizionale evasione fiscale, a livelli patologici, hanno ridotto talmente il gettito fiscale che gli anziani, i malati, gli invalidi, i poveri e gli stessi disoccupati hanno poca assistenza; i servizi sono sempre meno efficienti; le università e la ricerca sono al disastro; gli uffici pubblici, spesso, non sono più in grado di funzionare decentemente; il sistema sanitario ha carenze sempre più allarmanti.

Come si vede, le vittime di questo degrado sono tante, e crescono velocemente. Non c’è da meravigliarsi che esse si sentano tradite e si ribellino. È per questo che, nel cuore del benessere, riemergono i disvalori antichi. L’ostilità verso l’altro, visto come nemico, è diventata la versione odierna dell’“homo homini lupus” di Hobbes.

Ora assistiamo allibiti a questa involuzione. I valori moderni sembrano scomparsi, almeno per una larga parte della società. Sessanta anni di benessere diffuso, di scolarizzazione di massa, di cultura dei diritti e dei doveri, l’abitudine alla democrazia e alla solidarietà non sono stati sufficienti a radicare i valori moderni? In realtà, chi viene escluso dal benessere e dalla sicurezza del lavoro non si sente più legato a questi valori. Anzi si sente tradito da essi.

Per i diseredati, il ritorno ai disvalori pre-moderni è una tentazione continua; tanto più difficile da rifiutare quanto più deboli culturalmente sono le vittime della crisi. D’altra parte, il degradarsi dei partiti e la corruzione dei politici hanno distrutto il legame pedagogico che nel passato aveva guadagnato le masse contadine e operaie alla democrazia. È già tanto che una parte delle vittime si sottragga ancora al degrado. Penso ai giovani che emigrano, agli intellettuali, agli anziani cresciuti nel culto dei partiti e della democrazia.

I diseredati si sono accaniti tanto più contro i valori civici in quanto vedono che l’altra parte della società, quella tutelata, non solo conserva il proprio benessere ma cresce in ricchezza e privilegi. L’aumento della diseguaglianza fino a livelli di vera barbarie è – come si sa – la caratteristica di questa crisi dell’economia occidentale. Ed è proprio la parte protetta della società, quella del lavoro garantito e del reddito sicuro, a conservare i valori della civiltà moderna. Questo è un primo paradosso: i valori della democrazia sono “salvati” dai privilegiati. Ma la democrazia non è uguaglianza tendenziale? Non è innanzitutto garanzia di lavoro e benessere? Come fa a salvarsi attraverso i privilegi?

Ma c’è un secondo paradosso, peggiore del primo. Una larga fetta della società tutelata non crede affatto nei valori della modernità e della democrazia; e non si schiera a loro difesa. Anzi, essa incoraggia i diseredati a combatterli. Perché lo fa? Per il motivo opposto a quello che spinge i diseredati: vuole proteggere il proprio benessere, i propri privilegi, la propria evasione fiscale, ecc. Essa ha capito che il modo più efficace per farlo è di lanciare i diseredati contro un nemico esterno: l’Europa, cattivissima; gli immigrati, tutti “mussulmani”; i “negri”, selvaggi per definizione.

Dunque, se si guarda bene, gli individui privilegiati o protetti che sono ostili al rispetto dei diritti umani vogliono rafforzare l’esclusione dei diseredati, indebolire lo spirito di equità e neutralizzare le garanzie residue verso i più deboli. Essi fingono di allearsi con gli esclusi contro un immaginario nemico comune. Ma in realtà sono loro i veri nemici degli esclusi.

Ecco, Salvini – il corifeo della crociata anti-immigrati e anti-Europa – dice di voler difendere “gli italiani”. Gli italiani diseredati pensano che egli sia il loro paladino; e nel Sud qualcuno gli bacia la mano (come ai padroni di un tempo e ai mafiosi di oggi; come al re, Borbone o Savoia che fosse). Ma gli italiani privilegiati, che lo votano e lo esaltano, sanno bene che Salvini pensa a loro.

È l’eterna storia del populismo, dalla Francia di Napoleone III al qualunquismo di Giannini e al corporativismo di Poujade; dal peronismo all’Italia di oggi. I ceti poveri o impoveriti – vittime di disoccupazione, crisi, inflazione, ruberie o abusi dei più ricchi – sono blanditi dal potere che si dichiara loro protettore per meglio scaricare su di loro il peso della crisi. L’operazione è ancor più efficace se viene individuato un capro espiatorio innocente da additare come colpevole. Con le dovute proporzioni, gli immigrati di oggi sono come gli ebrei di ieri.

Il celebre etologo Desmond Morris afferma che la paura degli estranei deriva dal fatto che siamo animali tribali, ma che essa va tenuta sotto controllo. “Un eccesso di familismo ci rende aggressivi con gli estranei. Un eccesso di patriottismo, conduce diritto al conflitto con gli altri popoli”[3].

Come un secolo fa, si è formato e tende a prevalere un nuovo blocco sociale reazionario. Esso è fatto, come allora, di operai disoccupati, di ceti medi in rovina e, in più, di una parte di operai e di ceti medio-alti protetti e corporativi.

NOTE

[1] Edward Banfield, Le basi morali di una società arretrata, Bologna, il Mulino 2010 (orig. 1958).

[2] Vedi Cosimo Perrotta e Claudia Sunna, L’arretratezza del Mezzogiorno. Le idee, l’economia, la storia, Bruno Mondadori, Milano, 2012.

[3] Intervista di Marino Niola a Desmond Morris, la Repubblica del 23/1/2019, p. 29.

(13 febbraio 2019)

Nessun commento:

Posta un commento