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E’ il nuovo tormentone, l’ultima trovata – in realtà per niente
originale – per far fronte all’irrompere dei populismi e sovranismi,
tanto temuti dall’attuale e tenace compagine di potere: l’apologia della “competenza”. Per salvare il sistema da temibili e minacciosi sovvertimenti occorre che il potere
consultivo e decisionale su ogni ambito della vita individuale e
collettiva venga demandato a una cerchia ben selezionata di
“competenti”. Ma chi sono questi individui eletti? In teoria, persone la
cui elevata conoscenza tecnica in materie specifiche li eleva a massimi
esperti, e dunque portatori indiscussi di verità assolute e
inconfutabili, sottratte a ogni critica. In pratica, gli stessi che
hanno già ricoperto ruoli di prestigio in istituzioni
che ci hanno governato finora, con i risultati – più o meno disastrosi –
che sono sotto gli occhi di tutti. Il concetto di competenza, tanto in
voga tra gli economisti, perde così ogni riferimento alla misurazione
dei risultati raggiunti dalle azioni e dagli strumenti messi in atto:
l’efficacia delle politiche adottate non ha alcuna rilevanza. Ciò che
conta è la legittimità delle azioni e degli attori, l’autorevolezza che
gli viene tributata da enti e istituzioni universalmente riconosciuti.
Secondo un meccanismo autoreferenziale e capace di autoriprodurre il
proprio pensiero senza interruzione critica, nell’ambito della ricerca
scientifica vengono premiati e incentivati coloro che sono in grado di
portare prove a sostegno di un modello universalmente
riconosciuto. Una sorta di esaltazione della “mediocrità”, dove per
mediocre intendiamo quell’individuo che annulla il proprio spirito
critico, in virtù di un’adesione e un sostegno preconcetti a un modello
già esistente. In un simile contesto, il lavoro di analisi e
confutazione di teorie già esistenti e acclamate viene scoraggiato e
marginalizzato. Pensiamo al clamoroso errore nel 2010 di Carmen Reinhart
e Kenneth Rogoff, due docenti della prestigiosa Università di Harvard e
con ruoli nel Fmi, che con la loro pubblicazione “Growth in a Time of
Debt”, forniscono la prova “scientifica” che qualora il debito pubblico di una nazione raggiunga la soglia del 90% del Pil diventerebbe un ostacolo insuperabile alla crescita.
Il paper diventa la Bibbia dei paladini dell’austerity: quel 90%
fornisce una cifra precisa, capace di esercitare quella fascinazione
sull’opinione pubblica che la “scienza esatta” è in grado di suscitare.
Tre anni dopo accade che dei professori dell’università di Amherst
affidano a uno studente il compito di scegliere una ricerca e replicarne
il risultato. La scelta del giovane Herndon ricade proprio
sull’osannato paper di Reinhart e Rogoff e l’esito della sua analisi
è sconvolgente: lo studio è compromesso da gravi problemi metodologici e
addirittura da un banale errore nel foglio Excel, alcuni calcoli sono
sbagliati e viene omesso di includere tra le nazioni esaminate tre casi
rilevanti. Gli stessi economisti di Harvard sono costretti a riconoscere
l’errore, sebbene cercando di sminuirne la portata. Ma la credenza che
l’aumento del debito pubblico
sia dannoso alla crescita non solo non viene scalfita, ma anzi si
rafforza e le politiche dell’austerity continuano a seminare sempre più
vittime, in Europa come nel resto del mondo.
Intanto Reinhart e Rogoff hanno continuato a essere protetti dalla
loro aura sacrale conferitagli dalla “competenza”, sono stati insigniti
di importanti premi e riconoscimenti, e a collaborare con organizzazioni
che esercitano la governance mondiale. Gli errori sono umani e non si
possono certo stigmatizzare due economisti che sicuramente hanno
dedicato la loro vita agli studi, ma di ridimensionare il potere assoluto e dispotico della scienza, di riportarla al suo ruolo di strumento funzionale al benessere e allo sviluppo umano.
(Ilaria Bifarini, “La chiamano competenza, invece è mediocrità”, dal blog della Bifarini del 4 febbraio 2019).
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sabato 16 febbraio 2019
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