Rapporto Oxfam Italia-Borderline Sicilia: "scacco in 4 mosse ai diritti umani", dopo cui sono morte 5.300 persone, di cui 4000 nel Mediterraneo centrale.
Il nuovo rapporto diffuso oggi da Oxfam Italia e Borderline Sicilia, analizza la strategia messa in atto dal Governo italiano e dall'Ue, che - incurante dei vincoli del diritto internazionale - mostra tutta la sua inadeguatezza nella gestione di politiche di ingressi regolari nel nostro continente e di meccanismi di redistribuzione automatica dei migranti tra gli Stati membri. "Proprio a partire dall'accordo Italia – Libia di due anni fa, sono quattro le mosse che secondo la nostra analisi hanno causato un vero e proprio scacco ai diritti umani, generando effetti disastrosi sul tasso di mortalità nella rotta del Mediterraneo centrale con 1 vittima ogni 38 arrivi nel 2017 a 1 ogni 14 nel 2018. – afferma Paolo Pezzati, policy advisor per la crisi migratoria di Oxfam Italia - Si sono contati 1.311 tra morti e dispersi lo scorso anno e allo stesso tempo sono peggiorate drammaticamente le condizioni di vita dei migranti in Libia. È necessaria un'inversione di rotta, verso l'attuazione di politiche di aiuto e cooperazione improntate al rispetto dei diritti umani e alla costruzione di un ambiente sicuro in Libia e in Europa". Ecco quindi le 4 mosse attraverso cui l'Italia e di conseguenza l'Europa, hanno scavalcato il diritto internazionale, prevaricando di fatto i diritti umani dei migranti.
Mossa numero 1: Guardia Costiera libica, un attore illegittimo.
Se la Libia non è un porto sicuro, come più volte ribadito anche a livello europeo, si può continuare a ritenerla attore legittimo di una zona di ricerca e soccorso con la sua Guardia costiera? Secondo le stime in questo momento serve solo a intrappolare migliaia di migranti, esponendoli a sistematiche e quotidiane violazioni, torture e abusi di ogni sorta, in campi di detenzione equiparabili a lager ufficiali e non ufficiali. Mentre secondo le stime sarebbero circa 600mila i migranti bloccati nel Paese. "[...] La prigione di Bani Walid era un hangar mentre a Sherif eravamo rinchiusi in un tunnel sotterraneo dove si viveva costantemente al buio. In tutto ho vissuto un anno e mezzo di detenzione in entrambe le prigioni, dove tutti vivevamo in condizioni terribili, con tantissime persone che si ammalavano - ha raccontato A.A. eritreo, 28 anni, rapito da una delle tante bande libiche, agli operatori di Oxfam e Borderline - Le persone ammalate non ricevevano cure. In molti sono morti e sono stati sepolti come animali. Le donne invece venivano violentate di fronte a noi. Venivamo picchiati ogni giorno dalle guardie carcerarie, che ci hanno costretto a chiedere un riscatto alle nostre famiglie". Un film dell'orrore che si interrompe, a quanto pare, solo durante le ispezioni delle Nazioni Unite nei campi di detenzione. "Nei giorni in cui il personale delle Nazioni Unite è venuto dove eravamo detenuti ci hanno trattato bene, permesso di lavarci, vestirci, mangiare e fatto fare un check up medico - ricorda R.M. guineano, 26 anni, rapito da una delle bande di strada di Tripoli - Non appena però lo staff delle Nazioni Unite se ne è andato, le cose sono cambiate immediatamente. Ci hanno ripreso tutto quello che ci avevano dato: cibo, vestiti, sapone". "Nel 2018, la guardia costiera libica ha intercettato 15.000 persone e le ha riportate indietro esponendole nuovamente a condizioni disumane – aggiunge Pezzati - Attualmente, 6.400 persone sono intrappolate in luoghi di detenzione ufficiali in Libia, ma molte di sono detenute in "carceri non ufficiali", alcune delle quali gestite direttamente da gruppi armati libici. Non solo: secondo l' Onu anche i centri ufficiali in diversi casi sono gestiti dalle stesse persone che sono coinvolte nella tratta di esseri umani e nel traffico di persone - che proprio l'UE e l'Italia si sono impegnate a combattere. Pertanto, riportare i migranti in Libia non fa che alimentare il traffico di esseri umani".
Mossa numero 2: Da Triton a Themis, meno approdi in Italia ma più rischi per i migranti.
La principale novità introdotta su richiesta del governo italiano, prevede l'obbligo di sbarco dei migranti e dei naufraghi soccorsi, nel porto più vicino al punto in cui è stato effettuato il salvataggio in mare e non più automaticamente in un porto italiano come succedeva con la missione Triton. Inoltre la linea di pattugliamento delle unità navali coinvolte è stata posta al limite delle 24 miglia nautiche dalle coste italiane, riducendo la zona operativa (Triton arrivava alle 30 miglia). Solo per le persone soccorse all'interno del limite diviene automatico lo sbarco in un porto italiano. Una condizione che espone di conseguenza uomini, donne e bambini innocenti, e in fuga da atrocità, a ulteriori rischi, indipendentemente dalla propria storia, condizione di vulnerabilità o dal paese di provenienza. Il tutto, mentre la rotta del Mediterraneo centrale si conferma la più pericolosa al mondo, con 937 morti e dispersi tra giugno e dicembre 2018 su un totale di 1.311 nell'intero anno.
Mossa numero 3: La politica dei "porti chiusi" e dei pericoli aperti.
Il governo in carica, raccoglie l'impostazione del precedente e la porta all'estremo iniziando una lotta corpo a corpo sia con altri stati membri sia con le imbarcazioni che soccorrono naufraghi. Il caso dell'imbarcazione Lifeline, il secondo dopo quello dell'Aquarius costretta a dirigersi a Valencia dopo un tira e molla tra i vari governi europei, rappresenta il precedente che ha condotto il Consiglio europeo del giugno scorso a includere nelle sue Conclusioni la facoltà per gli Stati membri di subordinare lo sbarco a un accordo preventivo sulla redistribuzione dei migranti a bordo. Una misura che sancisce la rinuncia a cercare soluzioni strutturali e che inaugura una fase in cui le decisioni vengono prese caso per caso. Oltre alle condizioni disperate a cui sono sottoposti i migranti, come nei ben noti casi Lifeline, Diciotti e SeaWatch, il braccio di ferro tra gli stati europei, partito dall'Italia, continua e continuerà a mettere in pericolo la vita di persone vulnerabili, violando allo stesso tempo la Convenzione europea per i diritti dell'uomo agli articoli 2 (diritto alla vita) e 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti). Questo però non sembra preoccupare l'attuale Governo italiano, che rifiutando l'autorizzazione allo sbarco sul proprio territorio a tutte le navi coinvolte in azioni di salvataggio in mare, non rispetta le norme del diritto interno e internazionale.
Mossa numero 4: Il nemico alle porte: le Organizzazioni Non Governative.
Tra il 2014 e il 2017, le navi delle ONG nel Mediterraneo hanno salvato la vita di 114.910 persone a fronte delle 611.414 soccorse, pari al 18,8% del totale. Nonostante questo la campagna di screditamento e criminalizzazione partita nel 2017 - che non ha generato alcuna condanna giudiziaria – ha determinato mancanza di soccorsi in mare; violazioni dei diritti umani ai danni dei migranti, perpetrati dalla Guardia costiera libica nel corso delle operazioni di salvataggio; ritardi nella segnalazione di naufragi, non denunciati anche per diversi giorni. Di fronte a tutto questo chiediamo con forza all'Italia di revocare l'accordo con le autorità libiche, in accordo con l'Ue e altri Paesi europei. - conclude Pezzati – Per questo oggi assieme a 50 organizzazioni abbiamo inviato una lettera aperta ai Governi degli Stati membri, con la richiesta di impedire che i migranti salvati in mare vengano riportati nell'inferno della Libia. Allo stesso tempo, facciamo appello all'Italia affinché interrompa la politica dei porti chiusi e al contrario si faccia promotrice a livello europeo di una nuova missione salvataggio nel Mediterraneo. All'Unione europea chiediamo di fare tutti gli sforzi diplomatici possibili, affinché gli stati membri approvino nel Consiglio Europeo la Riforma del trattato di Dublino come votata dal Parlamento Europeo, con la previsione di una redistribuzione automatica dei richiedenti asilo".
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