Il caso Baobab rivela che la giunta Raggi vuole solo una cosa: evitare che i profughi passino per la capitale. Ma non è un atteggiamento né saggio né responsabile. L'accusa dei Radicali al sindaco e all'assessore Baldassarre.
L'Espresso Alessandro Capriccioli
La parola magica, quella che spiega tutto, è «transitanti». Si tratta di quei migranti (ormai la stragrande maggioranza del totale), in genere potenziali beneficiari di protezione internazionale, che passano da Roma per fermarsi pochi giorni, raccogliere le forze dopo il viaggio infernale che gli è toccato in sorte e poi ripartire per altri paesi europei. Persone cui occorre prestare un'assistenza di base e alle quali è necessario spiegare chiaramente la loro condizione: identificati subito dopo lo sbarco, secondo Dublino possono chiedere asilo soltanto in Italia, e solo successivamente tentare le carte della relocation (solo se eritrei, siriani e iracheni) o del ricongiungimento. Nel caso in cui vogliano provare ugualmente a varcare una frontiera (circostanza per niente inconsueta), il rischio è quello di essere fermati, riconosciuti attraverso le impronte e rimandati in Italia.
Fino a tre giorni fa il Baobab, o per meglio dire Via Cupa, la strada in cui il centro (chiuso a dicembre dello scorso anno) si trova, ha accolto migliaia di persone, soprattutto eritrei e sudanesi, nelle condizioni che ho appena descritto.
Lo ha fatto grazie al lavoro dei volontari e delle associazioni (tra cui noi radicali) che hanno prestato a quelle persone prima accoglienza e assistenza legale, segnalando a più riprese la necessità che a Roma fosse aperto un centro apposito, del quale si facesse carico, almeno in prevalenza, il Comune.
Dopo settimane di trattative, di richieste rimaste senza risposta, di molte promesse e di altrettanti passi indietro, venerdì scorso il responso dell'amministrazione è arrivato nel più inequivocabile dei modi: Via Cupa sgomberata, i migranti che vi si trovavano portati in questura e identificati (magari per la terza o quarta volta), i loro effetti personali (compresi i documenti) rimasti, o trasportati, chissà dove, la strada e le vie limitrofe piantonate, presidiate, blindate da decine di poliziotti, il quartiere percorso dalle ronde. Alcune persone (la minoranza) sistemate nei centri in cui c'era qualche posto libero; le altre, tra cui anche donne incinte (in genere perché violentate in Libia durante il viaggio che le ha portate da noi), disperse, sparpagliate per la città, a dormire per strada sotto il ponte della Tiburtina o vicino al muro del Verano.
Una risposta, dicevo, inequivocabile. La risposta di un'amministrazione che decide di non farsi carico di una questione che esiste, tangibilmente e drammaticamente, ma si limita a ignorarla, a negarla secondo il più classico degli stilemi destrorsi e xebofobi: sgomberare, disperdere, vietare, punire.
Un'amministrazione e un assessore, Laura Baldassarre, che si guarda bene dal percorrere la strada dei centri di transito intrapresa a Milano, a Ventimiglia e a Como, ma ritiene, per quella che deve considerarsi una precisa (e raggelante) scelta politica, di fare in modo che Roma smetta di essere una città di passaggio. La cosiddetta tolleranza zero, quella che in tutta Europa appartiene ai governi di destra: e che caratterizza come tale, oltre ogni ragionevole dubbio, anche quello del Movimento 5 Stelle nella Capitale.
Ma anche (ed è l'altra faccia della medaglia) un'amministrazione terrorizzata dall'idea di mettere in moto meccanismi e poi non riuscire a controllarli, atterrita dall'idea di emanare un bando per timore di non saperne verificare la corretta attuazione, appiattita sul mantra dell'onestà al punto da trasformarlo paradossalmente in inerzia, in inazione, in paralisi.
Un'amministrazione che dopo mesi dal suo insediamento continua a non ricevere, nonostante le ripetute richieste, chi come noi ha elaborato delle soluzioni, le ha sottoposte al vaglio dei cittadini e le ha regolarmente depositate in Campidoglio corredate da più di seimila firme: le delibere di iniziativa popolare «Accogliamoci», che hanno ad oggetto proprio la questione dei richiedenti asilo e quella dei rom, e che per obbligo di legge dovrebbero già essere state calendarizzate in Consiglio Comunale.
Sarebbe questa, la «rivoluzione» promessa ai romani in campagna elettorale? Sarebbe questo il risultato del «cambiamo tutto» della scorsa primavera? Non trovate che assomigli, più che a una rivoluzione, a un gigantesco passo indietro, con cui la città rischia di ritrovarsi su posizioni che credevamo ormai superate da anni?
I fenomeni, questo è il punto vero, si governano: tenendo conto della loro esistenza, delle loro ragioni, della necessità di affrontarli con equilibrio e senso di responsabilità. Ignorarli, fingere che non esistano e archiviarli con dinamiche e provvedimenti sommari significa non voler vedere che quei fenomeni si riproporranno, un paio di chilometri più in là, in modo (se possibile) ancora più drammatico e provocando nel tessuto della città attriti e tensioni ancora più gravi.
Si scrive «governare», si legge «assumersi la responsabilità». Altrimenti, anziché cambiare tutto, si finisce per non risolvere nulla.
Alessandro Capriccioli, segretario di Radicali Roma
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