1. Il capitale non è più fattore di crescita ma di distruzione delle forze produttive della società.
Nella presente fase storica di accumulazione capitalistica la
questione centrale non è più soltanto quella della redistribuzione
“equa” della ricchezza prodotta, classico tema della politica
socialdemocratica, e della redistribuzione del lavoro (riduzione
dell’orario di lavoro a parità di salario), storico cavallo di battaglia
del movimento operaio. Il perseguimento di questi due importanti temi,
così come quello della inclusione dei migranti nella società europea,
non può prescindere dall’affrontare il tema della produzione della
ricchezza e quindi dei rapporti di produzione e del rapporto sta Stato e
economia, che diventano la priorità e il tema centrale della lotta
politica per una sinistra che voglia essere di classe e adeguata alle
condizioni della realtà.
La crisi, iniziata nel 2007/2008 e ancora in corso, è di natura e profondità diversa rispetto a quelle che si sono verificate ciclicamente dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Si tratta di una crisi che è manifestazione di una sovraccumulazione di capitale (cioè di un eccesso di investimenti di capitale sotto forma di mezzi di produzione) assoluta e senza precedenti. Tale crisi è irrisolvibile nell’ambito dell’attuale quadro di rapporti economici e politici se non mediante massicce distruzioni di capacità produttiva e capacità lavorative, che possono arrivare fino alla guerra.
Come ho cercato di spiegare più ampiamente nel mio libro “Globalizzazione e decadenza industriale. L’Italia tra delocalizzazioni, crisi secolare e euro”, ciò che caratterizza oggi il modo di produzione capitalistico, nei suoi punti centrali (la cosiddetta Triade: Usa, Europa occidentale e Giappone), è la separazione tra accumulazione (produzione di profitto) e crescita economica (misurata mediante il Pil). In sostanza la crescita del Pil, non è più condizione necessaria alla tenuta del saggio e della massa dei profitti. I profitti sono realizzati mediante investimenti speculativi e in settori di monopolio, esportazioni di capitale all’estero e attraverso la riduzione dei costi a livello internazionale, sia di quelli relativi al personale sia di quelli relativi agli investimenti fissi, i quali, pregiudicando l’innovazione, avranno un impatto negativo sullo sviluppo futuro del nostro Paese.
Infatti, nel corso della fase acuta della crisi il crollo degli investimenti fissi è stato senza precedenti nella Ue e la performance particolarmente negativa dell’Italia, peggiore anche rispetto al resto d’Europa Occidentale, è ricollegabile alla ancora maggiore contrazione degli investimenti. Oggi, si assiste a un apparente paradosso: la diminuzione del fatturato a fronte dell’aumento dei profitti. Le 20 imprese italiane (quasi tutte le più grandi e più internazionalizzate) dell’indice Stoxx600 hanno fatto registrare nel secondo trimestre 2016 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente una crescita aggregata del +6,28% degli utili a fronte di un calo del -11,1% del fatturato. Un risultato, che, come riconosce anche il Sole24ore, è dovuto, oltre che al ribilanciamento verso produzioni a più alto valore aggiunto e ai bassi tassi d’interesse, soprattutto alla riduzione dei costi e dunque alla massiccia contrazione degli investimenti fissi.
Il modo di produzione capitalistico, a differenza di quanto accadde in Europa occidentale e in Giappone nei primi decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, non è più fattore di sviluppo, per quanto ineguale e squilibrato, delle forze produttive sociali e dell’occupazione. Oggi, il capitalismo, nella maggior parte dei Paesi cosiddetti a “capitalismo avanzato”, è fattore di distruzione delle forze produttive sociali. Nei Paesi dell’Europa occidentale si assiste da decenni ad una tendenza alla deindustrializzazione e alla delocalizzazione in Paesi periferici delle attività produttive, che, dopo lo scoppio della crisi, si è accentuata. Il nostro Paese, in particolare, rispetto al 2007 ha perso tra il 20 e il 25% della capacità produttiva manifatturiera.
La contrazione della base produttiva ha determinato la contrazione drastica del Pil che, sempre nel nostro Paese, dopo otto anni non ha raggiunto ancora i livelli precedenti allo scoppio della crisi. La contrazione del Pil ha condotto alla riduzione della base imponibile fiscale e all’aumento del debito, che è calcolato in percentuale sul Pil, e soprattutto ha determinato la contrazione assoluta dell’occupazione, determinando al contempo l’allargamento del divario tra Mezzogiorno e Centro-Nord. Oggi, in quasi tutta L’Europa non si riescono a realizzare posti di lavoro sufficienti a rispondere alla domanda occupazionale dei giovani e, aspetto decisivo, si è ridotto il numero degli occupati assoluti (15-64 anni), contrattisi tra 2008 e 2015 di 726mila unità in Italia e di quasi 4 milioni nella Ue. In altre fasi storiche, anche se i disoccupati aumentavano, gli occupati assoluti tendevano a rimanere pressoché stabili. Un vero decremento assoluto degli occupati comincia a verificarsi, sebbene con una intensità inferiore a quello odierno, negli anni ’90, quando accelerano gli investimenti diretti all’estero e si dà il via alle privatizzazioni ed il livello pre-crisi di occupati del 1991 fu raggiunto e superato solo nel 2001. Quindi, il problema principale che ci si pone è la lotta contro la disoccupazione di massa e i suoi naturali accompagnatori, la sottoccupazione, il precariato e i salari di sussistenza o persino al di sotto della sussistenza.
2. Non basta redistribuire la ricchezza, bisogna affrontare il nodo della crescita e soprattutto il nodo dei rapporti di produzione
Dunque, non basta la redistribuzione della ricchezza, come poteva essere nel periodo d’oro della crescita capitalistica tra 1945 e 1975, i “trenta gloriosi”. E, del resto, anche allora la redistribuzione finì ad un certo punto per scontrarsi con il vincolo rappresentato dai rapporti di produzione privati. Né possiamo cavarcela semplicemente dicendo che “i soldi ci sono”, perché la semplice redistribuzione, in una situazione di contrazione delle basi produttive, non solo non basta, ma non coglie il problema fondamentale che è la crisi dei rapporti di produzione su cui si basa il capitale. Tanto meno, come fa il Movimento Cinque Stelle, si può ricondurre tutto alla corruzione o ai costi e all’inefficienza della politica o pensare di risolvere il problema della mancanza di reddito con formule come il “salario di cittadinanza”, che, in questa situazione, rappresenterebbe la redistribuzione della povertà tra gli occupati e i disoccupati e un fattore di passivizzazione piuttosto che di partecipazione al lavoro e quindi alla vita e al conflitto sociale.
L’obiettivo decisivo è, invece, la costruzione di nuovi posti di lavoro. Negli ultimi anni la perdita di occupazione nell’industria è stata (solo in parte), sostituita dall’occupazione precaria, part time e a salari a livello (o al disotto) della sussistenza in settori “poveri” sul piano del valore aggiunto prodotto come la ristorazione veloce e il cosiddetto terzo settore. Oggi, invece, c’è bisogno soprattutto di buoni posti di lavoro, a tempo pieno e indeterminato e soprattutto in settori “ricchi” sul piano del valore aggiunto e del contenuto tecnologico, cioè nell’industria, e nel terziario avanzato, la cui crescita è collegata a sua volta a quella dell’industria. Ma, per farlo, vanno ricostruite le basi della produzione e della crescita. Il che richiede, a sua volta, la ripresa degli investimenti fissi. La crescita del Pil e gli investimenti non deve, però, essere confusa con la riedizione del vecchio produttivismo, basato sulla crescita indiscriminata, del resto impraticabile in una fase di decrescita imposta dal capitale. La crescita che ci deve interessare è una crescita che incrementi il valore di scambio della produzione, massimizzando al tempo stesso la sua utilità sociale e minimizzando sprechi, rifiuti e soprattutto riciclando materiali e risparmiando energia. Infatti, la crescita del Pil non deriva necessariamente dalla crescita della quantità fisica delle merci prodotte e dall’aumento di consumi privati superflui, bensì può derivare dalla crescita del valore incorporato nei manufatti e nei servizi e soprattutto dalla crescita del valore della produzione complessiva, dovuto alla crescita dei consumi collettivi, nel quadro di una ripresa dello sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro.
In tal senso, la crescita del valore aggiunto prodotto (e quindi del Pil) può derivare proprio dal lavoro di messa in sicurezza del territorio da frane e inondazioni, dal riadeguamento del vecchio patrimonio abitativo a criteri antisismici e da un nuovo programma di edilizia popolare. Inoltre, la crescita può derivare non solo dall’incremento delle infrastrutture stradali, ferroviarie e aeroportuali, ormai inadeguate e spesso in stato di abbandono, ma soprattutto dalla loro manutenzione, riparazione, ammodernamento e riadeguamento alle nuove necessità. Ma, in ogni caso, la crescita non può prescindere dallo sviluppo della manifattura, fondamentale per mantenere in attivo la bilancia commerciale e dei pagamenti e spina dorsale di qualsiasi economia. Sviluppo della manifattura vuol dire sia ammodernamento tecnologico, anche dal punto di vista della sicurezza del lavoro, della prevenzione dell’inquinamento e della gestione dei rifiuti, dei settori maturi (siderurgia, mezzi di trasporto, macchine utensili, agroalimentare, ecc.), che mantengono una loro importanza strategica per il Paese, sia cura dei nuovi settori ad alta tecnologia e ad alto valore aggiunto in cui la presenza dell’Italia va rafforzata (telecomunicazioni, biotecnologie e farmaceutica, nuovi materiali, aeronautica e droni civili, energie alternative, ecc.).
La crescita della produzione richiede, però, un livello tale di investimenti che il privato non è intenzionato a fare perché la caduta del saggio di profitto e i processi di internazionalizzazione lo spingono alla razionalizzazione della base produttiva in Italia e a dirigere gli investimenti all’estero o in attività di carattere monopolistico. Solo lo Stato può fare gli investimenti che sono necessari alla ripresa economica e dell’occupazione. Per fare questo c’è bisogno del ritorno dello Stato (o meglio del pubblico) nell’economia, non solo nelle necessarie vesti di regolatore, controllore e prestatore di ultima istanza, ma soprattutto come soggetto attivo, cioè nella veste di stato imprenditore. Aspetto questo che contempla anche la ripubblicizzazione di imprese e banche di interesse strategico nazionale e la reinternalizzazione di servizi pubblici locali, a fronte del completo fallimento del mercato come dimostra ad esempio la siderurgia, per il settore manifatturiero.
3. Un riformismo radicale e un nuovo tipo di intervento pubblico contro i rapporti di produzione privati
Tutto ciò, però, richiede una spinta riformista che, a differenza del riformismo socialdemocratico classico e dell’intervento statale odierno (funzionale al capitale globalizzato e indirizzato alla socializzazione delle perdite), ha un contenuto radicale perché implica la rottura nei confronti dei rapporti di produzione vigenti, cioè con i rapporti basati sulla appropriazione privata del prodotto del lavoro. Infatti, non solo presuppone l’inversione della tendenza neoliberista in atto negli ultimi trent’anni, ma, proprio per questo, essendo incompatibile con l’indirizzo e le necessità del capitale, contiene in sé i germi, la prefigurazione della trasformazione dei rapporti di produzione privati in senso socialista. Pensare a un nuovo intervento statale nel contesto attuale è un equazione molto complessa da risolvere, che impone, quindi, l’individuazione di quattro nodi programmatici che bisogna impegnarsi a focalizzare ed esplicitare:
a) La progressiva riduzione dello spazio del mercato autoregolato mediante l’introduzione di elementi di programmazione della produzione e di controllo sui capitali. A questo scopo va ripresa l’esperienza di interventismo statale post-bellica, soprattutto quella avvenuta negli anni ’60 e ’70, basata sulla Programmazione economica e sulle Partecipazioni statali, in cui gli investimenti pubblici non erano subordinati alla sola redditività ma erano diretti a scopi di sviluppo generale del Paese e di convergenza tra Mezzogiorno e resto del Paese. Oggi, però, tale ripresa va svolta in modo critico, individuando i forti limiti che impedirono la realizzazione di una effettiva programmazione centrale e la sostituirono con la negoziazione degli investimenti tra lobby politiche (e capitalistiche) nazionali e locali, da una parte, e il management di singole imprese statali, dall’altra. L’insufficienza, da parte dello Stato proprietario, del controllo sulla gestione e del coordinamento generale delle attività delle imprese e delle banche di cui era azionista, e l’esclusione del Parlamento dalla supervisione delle attività economiche pubbliche finirono per condurre alla crisi del sistema delle Partecipazioni statali. La crisi del settore pubblico, pur potendo essere risolta e malgrado i notevoli successi economici raggiunti da molte imprese statali fino ai primi anni ‘90, fu presa a pretesto per smantellare le Partecipazioni statali e svendere le singole imprese al capitale privato.
b) La critica all’integrazione economica europea, che, con i suoi vincoli di bilancio, l’autonomia della Banca centrale e l’introduzione di un regime di cambi fissi, accentua la stagnazione interna e la tendenza espansiva dei capitali verso l’estero. Il programma di investimenti ideato da Juncker è del tutto insufficiente mentre i Qe di Draghi, peraltro limitati in confronto a quelli delle banche centrali statunitense, giapponese e britannica, non hanno avuto effetto sulla produzione né sono arrivati alle piccole imprese o alle famiglie, fermandosi alle banche. Investimenti di entità massiccia e ripresa dell’intervento statale diretto in economia non possono neanche essere concepiti senza lo scardinamento dei vincoli di bilancio europeo e il superamento delle normative europee. Ciò, a sua volta, richiede il superamento della integrazione valutaria, chiave della gabbia europea, in modo da rendere di nuovo disponibili gli strumenti di contrasto alla crisi, come il controllo sulla valuta e l’acquisto diretto di titoli di Stato da parte della Banca centrale, ristabilendo condizioni più favorevoli alla conduzione lotta di classe e alla reintroduzione di politiche economiche pubbliche espansive.
c) Tutto questo pone la questione della natura non neutrale dello Stato, della sua forma (quale rapporto tra masse e istituzioni) e del rapporto che le forze della trasformazione devono avere con esso. Infatti, lo Stato non può più essere inteso come la stanza dei bottoni in cui entrare e da cui poi magicamente modificare la realtà. Lo Stato è una macchina burocratica organizzata per la difesa dei rapporti di produzione capitalistici, che, nel migliore dei casi, può realizzare una temporanea mediazione favorevole alle forze antiliberiste e antagoniste al capitale. Questo è ancora più vero oggi, quando lo Stato, in modo molto più forte di trenta anni fa, si identifica con il capitale, pretendendo persino di condividerne i modelli di organizzazione e funzionamento. Dunque, non è possibile mettere in discussione i rapporti di produzione (ma neanche quelli di redistribuzione) e introdurre programmazione economica e elementi di pianificazione senza tenere conto dell’”attrito” rappresentato dalla macchina burocratica e senza porsi nella prospettiva di trasformare lo Stato stesso.
d) Siamo, quindi, arrivati alla politica. Il recupero di una prospettiva politica strategica e di ampio respiro è la precondizione anche per l’ottenimento di risultati parziali e tattici, e per la realizzazione di riforme anche limitate, ma che migliorino le condizioni generali dei lavoratori dopo tanti arretramenti. La politica è ricomposizione della grande varietà delle lotte parziali - economiche e generalmente sociali, grandi o microscopiche che siano – in una dimensione complessiva di critica e di lotta contro il modo di produrre nel suo complesso e contro lo Stato, al fine di costruire rapporti di forza migliori tra capitale, da una parte, e lavoro salariato e classi subalterne, dall’altra. Per questo è fondamentale individuare i punti programmatici generali, potenzialmente ricompositivi di una classe lavoratrice frammentata, unificanti delle lotte parziali e locali e inseriti all’interno di un percorso di lunga durata indirizzato alla trasformazione generale dei rapporti di produzione e sociali in senso socialista. Questi punti programmatici non possono che essere la ripresa dell’intervento pubblico e il superamento dell’integrazione europea, nel quadro della critica ai rapporti di produzione privatistici.
La crisi, iniziata nel 2007/2008 e ancora in corso, è di natura e profondità diversa rispetto a quelle che si sono verificate ciclicamente dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Si tratta di una crisi che è manifestazione di una sovraccumulazione di capitale (cioè di un eccesso di investimenti di capitale sotto forma di mezzi di produzione) assoluta e senza precedenti. Tale crisi è irrisolvibile nell’ambito dell’attuale quadro di rapporti economici e politici se non mediante massicce distruzioni di capacità produttiva e capacità lavorative, che possono arrivare fino alla guerra.
Come ho cercato di spiegare più ampiamente nel mio libro “Globalizzazione e decadenza industriale. L’Italia tra delocalizzazioni, crisi secolare e euro”, ciò che caratterizza oggi il modo di produzione capitalistico, nei suoi punti centrali (la cosiddetta Triade: Usa, Europa occidentale e Giappone), è la separazione tra accumulazione (produzione di profitto) e crescita economica (misurata mediante il Pil). In sostanza la crescita del Pil, non è più condizione necessaria alla tenuta del saggio e della massa dei profitti. I profitti sono realizzati mediante investimenti speculativi e in settori di monopolio, esportazioni di capitale all’estero e attraverso la riduzione dei costi a livello internazionale, sia di quelli relativi al personale sia di quelli relativi agli investimenti fissi, i quali, pregiudicando l’innovazione, avranno un impatto negativo sullo sviluppo futuro del nostro Paese.
Infatti, nel corso della fase acuta della crisi il crollo degli investimenti fissi è stato senza precedenti nella Ue e la performance particolarmente negativa dell’Italia, peggiore anche rispetto al resto d’Europa Occidentale, è ricollegabile alla ancora maggiore contrazione degli investimenti. Oggi, si assiste a un apparente paradosso: la diminuzione del fatturato a fronte dell’aumento dei profitti. Le 20 imprese italiane (quasi tutte le più grandi e più internazionalizzate) dell’indice Stoxx600 hanno fatto registrare nel secondo trimestre 2016 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente una crescita aggregata del +6,28% degli utili a fronte di un calo del -11,1% del fatturato. Un risultato, che, come riconosce anche il Sole24ore, è dovuto, oltre che al ribilanciamento verso produzioni a più alto valore aggiunto e ai bassi tassi d’interesse, soprattutto alla riduzione dei costi e dunque alla massiccia contrazione degli investimenti fissi.
Il modo di produzione capitalistico, a differenza di quanto accadde in Europa occidentale e in Giappone nei primi decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, non è più fattore di sviluppo, per quanto ineguale e squilibrato, delle forze produttive sociali e dell’occupazione. Oggi, il capitalismo, nella maggior parte dei Paesi cosiddetti a “capitalismo avanzato”, è fattore di distruzione delle forze produttive sociali. Nei Paesi dell’Europa occidentale si assiste da decenni ad una tendenza alla deindustrializzazione e alla delocalizzazione in Paesi periferici delle attività produttive, che, dopo lo scoppio della crisi, si è accentuata. Il nostro Paese, in particolare, rispetto al 2007 ha perso tra il 20 e il 25% della capacità produttiva manifatturiera.
La contrazione della base produttiva ha determinato la contrazione drastica del Pil che, sempre nel nostro Paese, dopo otto anni non ha raggiunto ancora i livelli precedenti allo scoppio della crisi. La contrazione del Pil ha condotto alla riduzione della base imponibile fiscale e all’aumento del debito, che è calcolato in percentuale sul Pil, e soprattutto ha determinato la contrazione assoluta dell’occupazione, determinando al contempo l’allargamento del divario tra Mezzogiorno e Centro-Nord. Oggi, in quasi tutta L’Europa non si riescono a realizzare posti di lavoro sufficienti a rispondere alla domanda occupazionale dei giovani e, aspetto decisivo, si è ridotto il numero degli occupati assoluti (15-64 anni), contrattisi tra 2008 e 2015 di 726mila unità in Italia e di quasi 4 milioni nella Ue. In altre fasi storiche, anche se i disoccupati aumentavano, gli occupati assoluti tendevano a rimanere pressoché stabili. Un vero decremento assoluto degli occupati comincia a verificarsi, sebbene con una intensità inferiore a quello odierno, negli anni ’90, quando accelerano gli investimenti diretti all’estero e si dà il via alle privatizzazioni ed il livello pre-crisi di occupati del 1991 fu raggiunto e superato solo nel 2001. Quindi, il problema principale che ci si pone è la lotta contro la disoccupazione di massa e i suoi naturali accompagnatori, la sottoccupazione, il precariato e i salari di sussistenza o persino al di sotto della sussistenza.
2. Non basta redistribuire la ricchezza, bisogna affrontare il nodo della crescita e soprattutto il nodo dei rapporti di produzione
Dunque, non basta la redistribuzione della ricchezza, come poteva essere nel periodo d’oro della crescita capitalistica tra 1945 e 1975, i “trenta gloriosi”. E, del resto, anche allora la redistribuzione finì ad un certo punto per scontrarsi con il vincolo rappresentato dai rapporti di produzione privati. Né possiamo cavarcela semplicemente dicendo che “i soldi ci sono”, perché la semplice redistribuzione, in una situazione di contrazione delle basi produttive, non solo non basta, ma non coglie il problema fondamentale che è la crisi dei rapporti di produzione su cui si basa il capitale. Tanto meno, come fa il Movimento Cinque Stelle, si può ricondurre tutto alla corruzione o ai costi e all’inefficienza della politica o pensare di risolvere il problema della mancanza di reddito con formule come il “salario di cittadinanza”, che, in questa situazione, rappresenterebbe la redistribuzione della povertà tra gli occupati e i disoccupati e un fattore di passivizzazione piuttosto che di partecipazione al lavoro e quindi alla vita e al conflitto sociale.
L’obiettivo decisivo è, invece, la costruzione di nuovi posti di lavoro. Negli ultimi anni la perdita di occupazione nell’industria è stata (solo in parte), sostituita dall’occupazione precaria, part time e a salari a livello (o al disotto) della sussistenza in settori “poveri” sul piano del valore aggiunto prodotto come la ristorazione veloce e il cosiddetto terzo settore. Oggi, invece, c’è bisogno soprattutto di buoni posti di lavoro, a tempo pieno e indeterminato e soprattutto in settori “ricchi” sul piano del valore aggiunto e del contenuto tecnologico, cioè nell’industria, e nel terziario avanzato, la cui crescita è collegata a sua volta a quella dell’industria. Ma, per farlo, vanno ricostruite le basi della produzione e della crescita. Il che richiede, a sua volta, la ripresa degli investimenti fissi. La crescita del Pil e gli investimenti non deve, però, essere confusa con la riedizione del vecchio produttivismo, basato sulla crescita indiscriminata, del resto impraticabile in una fase di decrescita imposta dal capitale. La crescita che ci deve interessare è una crescita che incrementi il valore di scambio della produzione, massimizzando al tempo stesso la sua utilità sociale e minimizzando sprechi, rifiuti e soprattutto riciclando materiali e risparmiando energia. Infatti, la crescita del Pil non deriva necessariamente dalla crescita della quantità fisica delle merci prodotte e dall’aumento di consumi privati superflui, bensì può derivare dalla crescita del valore incorporato nei manufatti e nei servizi e soprattutto dalla crescita del valore della produzione complessiva, dovuto alla crescita dei consumi collettivi, nel quadro di una ripresa dello sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro.
In tal senso, la crescita del valore aggiunto prodotto (e quindi del Pil) può derivare proprio dal lavoro di messa in sicurezza del territorio da frane e inondazioni, dal riadeguamento del vecchio patrimonio abitativo a criteri antisismici e da un nuovo programma di edilizia popolare. Inoltre, la crescita può derivare non solo dall’incremento delle infrastrutture stradali, ferroviarie e aeroportuali, ormai inadeguate e spesso in stato di abbandono, ma soprattutto dalla loro manutenzione, riparazione, ammodernamento e riadeguamento alle nuove necessità. Ma, in ogni caso, la crescita non può prescindere dallo sviluppo della manifattura, fondamentale per mantenere in attivo la bilancia commerciale e dei pagamenti e spina dorsale di qualsiasi economia. Sviluppo della manifattura vuol dire sia ammodernamento tecnologico, anche dal punto di vista della sicurezza del lavoro, della prevenzione dell’inquinamento e della gestione dei rifiuti, dei settori maturi (siderurgia, mezzi di trasporto, macchine utensili, agroalimentare, ecc.), che mantengono una loro importanza strategica per il Paese, sia cura dei nuovi settori ad alta tecnologia e ad alto valore aggiunto in cui la presenza dell’Italia va rafforzata (telecomunicazioni, biotecnologie e farmaceutica, nuovi materiali, aeronautica e droni civili, energie alternative, ecc.).
La crescita della produzione richiede, però, un livello tale di investimenti che il privato non è intenzionato a fare perché la caduta del saggio di profitto e i processi di internazionalizzazione lo spingono alla razionalizzazione della base produttiva in Italia e a dirigere gli investimenti all’estero o in attività di carattere monopolistico. Solo lo Stato può fare gli investimenti che sono necessari alla ripresa economica e dell’occupazione. Per fare questo c’è bisogno del ritorno dello Stato (o meglio del pubblico) nell’economia, non solo nelle necessarie vesti di regolatore, controllore e prestatore di ultima istanza, ma soprattutto come soggetto attivo, cioè nella veste di stato imprenditore. Aspetto questo che contempla anche la ripubblicizzazione di imprese e banche di interesse strategico nazionale e la reinternalizzazione di servizi pubblici locali, a fronte del completo fallimento del mercato come dimostra ad esempio la siderurgia, per il settore manifatturiero.
3. Un riformismo radicale e un nuovo tipo di intervento pubblico contro i rapporti di produzione privati
Tutto ciò, però, richiede una spinta riformista che, a differenza del riformismo socialdemocratico classico e dell’intervento statale odierno (funzionale al capitale globalizzato e indirizzato alla socializzazione delle perdite), ha un contenuto radicale perché implica la rottura nei confronti dei rapporti di produzione vigenti, cioè con i rapporti basati sulla appropriazione privata del prodotto del lavoro. Infatti, non solo presuppone l’inversione della tendenza neoliberista in atto negli ultimi trent’anni, ma, proprio per questo, essendo incompatibile con l’indirizzo e le necessità del capitale, contiene in sé i germi, la prefigurazione della trasformazione dei rapporti di produzione privati in senso socialista. Pensare a un nuovo intervento statale nel contesto attuale è un equazione molto complessa da risolvere, che impone, quindi, l’individuazione di quattro nodi programmatici che bisogna impegnarsi a focalizzare ed esplicitare:
a) La progressiva riduzione dello spazio del mercato autoregolato mediante l’introduzione di elementi di programmazione della produzione e di controllo sui capitali. A questo scopo va ripresa l’esperienza di interventismo statale post-bellica, soprattutto quella avvenuta negli anni ’60 e ’70, basata sulla Programmazione economica e sulle Partecipazioni statali, in cui gli investimenti pubblici non erano subordinati alla sola redditività ma erano diretti a scopi di sviluppo generale del Paese e di convergenza tra Mezzogiorno e resto del Paese. Oggi, però, tale ripresa va svolta in modo critico, individuando i forti limiti che impedirono la realizzazione di una effettiva programmazione centrale e la sostituirono con la negoziazione degli investimenti tra lobby politiche (e capitalistiche) nazionali e locali, da una parte, e il management di singole imprese statali, dall’altra. L’insufficienza, da parte dello Stato proprietario, del controllo sulla gestione e del coordinamento generale delle attività delle imprese e delle banche di cui era azionista, e l’esclusione del Parlamento dalla supervisione delle attività economiche pubbliche finirono per condurre alla crisi del sistema delle Partecipazioni statali. La crisi del settore pubblico, pur potendo essere risolta e malgrado i notevoli successi economici raggiunti da molte imprese statali fino ai primi anni ‘90, fu presa a pretesto per smantellare le Partecipazioni statali e svendere le singole imprese al capitale privato.
b) La critica all’integrazione economica europea, che, con i suoi vincoli di bilancio, l’autonomia della Banca centrale e l’introduzione di un regime di cambi fissi, accentua la stagnazione interna e la tendenza espansiva dei capitali verso l’estero. Il programma di investimenti ideato da Juncker è del tutto insufficiente mentre i Qe di Draghi, peraltro limitati in confronto a quelli delle banche centrali statunitense, giapponese e britannica, non hanno avuto effetto sulla produzione né sono arrivati alle piccole imprese o alle famiglie, fermandosi alle banche. Investimenti di entità massiccia e ripresa dell’intervento statale diretto in economia non possono neanche essere concepiti senza lo scardinamento dei vincoli di bilancio europeo e il superamento delle normative europee. Ciò, a sua volta, richiede il superamento della integrazione valutaria, chiave della gabbia europea, in modo da rendere di nuovo disponibili gli strumenti di contrasto alla crisi, come il controllo sulla valuta e l’acquisto diretto di titoli di Stato da parte della Banca centrale, ristabilendo condizioni più favorevoli alla conduzione lotta di classe e alla reintroduzione di politiche economiche pubbliche espansive.
c) Tutto questo pone la questione della natura non neutrale dello Stato, della sua forma (quale rapporto tra masse e istituzioni) e del rapporto che le forze della trasformazione devono avere con esso. Infatti, lo Stato non può più essere inteso come la stanza dei bottoni in cui entrare e da cui poi magicamente modificare la realtà. Lo Stato è una macchina burocratica organizzata per la difesa dei rapporti di produzione capitalistici, che, nel migliore dei casi, può realizzare una temporanea mediazione favorevole alle forze antiliberiste e antagoniste al capitale. Questo è ancora più vero oggi, quando lo Stato, in modo molto più forte di trenta anni fa, si identifica con il capitale, pretendendo persino di condividerne i modelli di organizzazione e funzionamento. Dunque, non è possibile mettere in discussione i rapporti di produzione (ma neanche quelli di redistribuzione) e introdurre programmazione economica e elementi di pianificazione senza tenere conto dell’”attrito” rappresentato dalla macchina burocratica e senza porsi nella prospettiva di trasformare lo Stato stesso.
d) Siamo, quindi, arrivati alla politica. Il recupero di una prospettiva politica strategica e di ampio respiro è la precondizione anche per l’ottenimento di risultati parziali e tattici, e per la realizzazione di riforme anche limitate, ma che migliorino le condizioni generali dei lavoratori dopo tanti arretramenti. La politica è ricomposizione della grande varietà delle lotte parziali - economiche e generalmente sociali, grandi o microscopiche che siano – in una dimensione complessiva di critica e di lotta contro il modo di produrre nel suo complesso e contro lo Stato, al fine di costruire rapporti di forza migliori tra capitale, da una parte, e lavoro salariato e classi subalterne, dall’altra. Per questo è fondamentale individuare i punti programmatici generali, potenzialmente ricompositivi di una classe lavoratrice frammentata, unificanti delle lotte parziali e locali e inseriti all’interno di un percorso di lunga durata indirizzato alla trasformazione generale dei rapporti di produzione e sociali in senso socialista. Questi punti programmatici non possono che essere la ripresa dell’intervento pubblico e il superamento dell’integrazione europea, nel quadro della critica ai rapporti di produzione privatistici.
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