global project Fabio Mengali 31 / 10 / 2016
Abbiamo visto che la Costituzione dava in parte le condizioni per un agire democratico dei movimenti, ma in alcun modo ne stabiliva i tempi oppure esauriva con ciò che reca scritto le loro modalità, pratiche e contenuti. La
sua inattualità materiale, e anche formale, è spesso stata posta
direttamente o indirettamente in questione dai processi sociali. Pertanto,
una sua difesa a priori e ideologica non convince. Non può essere
pensata come la migliore Costituzione possibile, rendendola un oggetto
sacro e, così, disconoscendo tutte le volte che l’applicazione dei suoi
principi ha represso o limitato spinte differenti in campo politico e
sociale.In secondo luogo, connessa alla prima affermazione, sta una presa d’atto: molti degli articoli redatti nel 1948 rispecchiavano un modo di produzione economico ed una società che nel presente o non esistono più o sono, per dirla con Bloch, un «anacronismo contemporaneo» perché riguardano soltanto un gruppo o una classe sociale, non incarnando più una realtà egemone e diffusa. Guarda caso, quegli articoli che la revisione costituzionale del PD non si sente neanche in obbligo di modificare perché altrimenti dovrebbe contraddire la sua direzione politica in particolare e la sua natura in generale.
La Costituzione italiana è frutto della negoziazione tra diverse ideologie, che si stavano delineando nell’epoca postbellica, ed interessi particolari rappresentati dalle organizzazioni partitiche che ambivano a diventare di massa. Ponendo più in là lo sguardo, possiamo dire che è stato scritto nero su bianco il contratto sociale tra capitale e lavoro che sta alla base delle democrazie liberali condite con un po’ di repubblicanismo. L’articolo 1 che apre la Costituzione, in particolare i principi fondamentali immodificabili,stabilisce un vincolo indissolubile tra lavoro e cittadinanza. Per essere pienamente cittadino bisogna essere lavoratori o forza-lavoro in divenire, eccezion fatta per gli inabili e gli indigenti ai quali viene corrisposta una copertura minima. Certo, esistono i diritti della persona e dell’uomo riconosciuti dai trattati internazionali fatti propri dalla Carta, ma non dobbiamo scordarci che molto spesso la loro validità pratica dipende da un sostengo economico che, in mancanza di welfare e diritti sociali, non si dà senza o con alcune tipologie di lavoro (vedi la libertà di movimento, la casa, ecc.). Comunque, nel periodo postbellico dell’Assemblea Costituente questo vincolo aveva perfettamente senso: in poche righe si diceva che l’attività lavorativa rende uguali perché conferisce a tutti indistintamente lo stesso status formale di lavoratore. Questo presupponeva due cose. Da una parte che i Costituenti potevano contare sul fatto che il bacino della forza-lavoro fosse assorbito velocemente dalla produzione di fabbrica. Il processo di industrializzazione doveva svilupparsi ulteriormente per transitare dal capitalismo di Stato fascista ad un’economia fordista. In questa maniera anche i comunisti puntavano a rafforzare la classe operaia, loro diretto (s)oggetto politico di riferimento. Di conseguenza, che veramente tutti – e si iniziava a intravedere il tutte, per quanto con una serie di contraddizioni - potessero riprodurre la forma di vita fordista educata da una istruzione di base universale, poi messa a lavoro stabilmente fino alla pensione. Dall’altra, la Carta sottendeva all’assunto che il lavoro salariato fosse sinonimo di lavoro libero, stabilito da un contratto voluto da entrambe le parti; in quanto libero, il lavoro non può che essere un elemento cardine della cittadinanza, la quale per definizione deve includere universalità e la libertà individuale. E’ ovvio che una tale concezione di libertà implica un’ulteriore conseguenza in assenza di specificazioni politiche, cioè la libertà di condurre una tipologia di lavoro a partire da condizioni sociali determinate di disponibilità economica e materiale. In sostanza, per essere lavoratori liberi in grado di aprire un contratto, ci devono essere datori di lavoro che hanno i mezzi di produzione, dunque bisogna che ci sia una situazione di diseguaglianza tra chi riceve la prestazione e chi la dà. Questo il patto che veniva ripreso proprio all’inizio della Costituzione. Un patto che vincolava l’accesso ad alcuni diritti sociali (fatto salvo per l’istruzione e la sanità) al lavoro, ovvero allo sfruttamento e al disciplinamento dei salariati sotto la mano del padrone. Senza lavoro, che è ciò che rende eguali, non ci sono i diritti che per definizione servono per generare uguaglianza a partire dalle disparità. Il patto fordista rendeva possibile anche il pluralismo liberale ai fini della continua mediazione politica e sociale, con il riconoscimento esclusivo dei sindacati come rappresentati dei diritti dei lavoratori, tutto al fine di pacificare l’eventualità del conflitto.
Nello stesso senso va il riconoscimento della famiglia come «società naturale fondata sul matrimonio» e l’impegno della Repubblica che «agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia». In parole più spicce: la Costituzione tutela l’ambiente privato di riproduzione del lavoratore, e di dominio della donna, nel quale questi può esprimere la sua libertà al fine di reiterare, in un altro momento, il lavoro.
Già negli anni Sessanta e Settanta i movimenti degli studenti, degli operai, delle donne hanno criticato a fondo questi articoli costituzionali ponendoli in contraddizione rispetto allo sfruttamento che il lavoro imponeva al prezzo della cittadinanza, nonché agli stili di vita che intendeva normare minando la libertà dei soggetti.
Adesso, superato il primo decennio del nuovo secolo, cosa è rimasto di vero nella Costituzione formale scritta? Quali rapporti concreti, materiali nel mondo del lavoro e nella società descrive realmente? Le risposte a tali domande rendono difficile un attaccamento ideologico alla Carta del ’48 perché, banalmente, un’intera generazione precaria non ha vissute sulla propria pelle i diritti qui sanciti. L’argomento, poi, della disattesa attuazione della Costituzione appare una pessima scusa, dal momento che proprio le trasformazioni del lavoro, la cui idea astratta è assunta a caposaldo giuridico, non permettono che ciò che vi è scritto possa essere applicato. Mi spiego meglio.
La difesa del diritto al lavoro prevista dall’articolo 4 dei principi fondamentali («la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto») pone all’interno della Costituzione la titolarità che ha ciascuno di trovare un’occupazione. Se ricolleghiamo questo articolo al legame tra cittadinanza e lavoro ci accorgiamo che nei fatti più che un diritto diviene un dovere: senza attività lavorativa è impossibile godere di alcuni diritti di cittadinanza. Questo diritto al lavoro, che deve essere sostenuto dallo Stato, non è un’idea giuridica e politica che sta dietro ai recenti interventi in materia economica del governo italiano? Innanzitutto, concretamente il diritto al lavoro non può essere affidato soltanto all’ambito giuridico, dunque allo Stato, perché intervengono dinamiche economiche del mercato, della finanza e dell’ imprenditoria, nonché le istituzioni sovranazionali come quelle presenti in Europa, che non lasciano una unilateralità della decisione. Renzi e Poletti hanno infatti approvato una riforma, il Job’s Act, in coerenza con quanto chiedono le imprese e la governance in Europa. Qual era il movente della più grande distruzione del diritto del lavoro? Creare occupazione, «promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto» (cit.).
E’ di pochi giorni fa la pubblicazione del rapporto Caritas sullo stato di salute del lavoro e sul livello di ricchezza degli italiani. Gli effetti del Job’s Act e dell’attitudine imprenditoriale che vuole il lavoratore in una formazione continua (master, stage, tirocini, ecc) hanno messo in ginocchio tutti/e, ma soprattutto la generazione giovanile e precaria: si parla dei working poor, coloro che lavorano con scarsa retribuzione e a titolo gratuito, incapaci di far fronte alle spese quotidiane; di quel 46,6% di poveri che hanno l’età compresa tra i diciotto ed i trentaquattro anni (senza scordarci anche i quarantenni), ossia i cittadini italiani che non ricevono gli aiuti della previdenza sociale (disoccupazione o pensione) e che non hanno beni immobili di loro proprietà. Proprio ciò che ha caratterizzato la generazione dei nostri nonni e in parte dei nostri genitori, tant’è che la Caritas registra tra le persone ultrasessantenni un livello di disagio economico molto più contenuto grazie al sistema di welfare e alla casa.
Un’intera generazione non sa cosa voglia dire avere la disoccupazione, la continuità di lavoro e dunque di retribuzione, una contribuzione solidaristica che permette di andare in pensione dignitosamente (per età e per remunerazione), oppure appoggiarsi alle case pubbliche e popolari. Ha soltanto visto dare grandi sgravi fiscali a imprese che ne hanno approfittato per assumere con le tutele crescenti al solo fine di licenziare più facilmente (grazie all’addio all’articolo 18) non appena questi sono finiti; ha visto aumentare i contratti a tempo determinato e l’uso criminale dei voucher. Il lavoro stagionale, temporaneo pagato con i voucher, aumentati del 66% negli ultimi due anni, rappresenta forse la punta estrema di questa iceberg che ha demolito qualsiasi corrispondenza tra lavoro e diritti di cittadinanza.
Tra il lavoro che non c’è e quello che c’è ma non dà diritti, l’impianto della Costituzione del ’48 poteva funzionare bene, appunto, per le generazioni precedenti. Per queste generazioni, lavoratrici nel fordismo, suonava molto bene l’ultima parte dell’articolo 3: «E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale , che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». [1]
Le argomentazioni dai toni nostalgici di difesa della Carta, per quanto si rifacciano a valori condivisibili quali l’antifascismo e la spinta progressista soggiacente alla Costituzione, sono oltre tempo massimo: non può esserci nostalgia per qualcosa che non si è mai vissuto, o che si è vissuto così poco da averne un ricordo fugace. Certamente, mi sento molto più vicino a Zagrebelsky che a Scalfari o Renzi, e non importa nemmeno dire che voterò NO. Ma la difesa a priori della Costituzione da ogni eventuale modifica la rende un oggetto di culto verso qualcosa che nella realtà non esiste più. Bisognerebbe proprio ritoccare la Costituzione nel senso di un’emancipazione definitiva del lavoro come precondizione dei diritti di cittadinanza, cosa che permetterebbe di aggirare tutti gli ostacoli teorici e concreti alla riforma del welfare, partendo da un reddito di base sganciato dalla prestazione lavorativa. Oppure, per riconoscere diverse forme di affettività e di collettività che non sono vincolate dal matrimonio, ma che sono la forma di legame più diffusa tra le persone appartenenti a quel 46,6% dei giovani poveri. Evitare di dire tutto ciò lascia spazio alla retorica del Cambiamento in sé di Renzi & Co. e tiene ai margini milioni di persone, le cui vite non sono rappresentate nella Costituzione. La cosa più odiosa di tutto questo è che il Presidente del Consiglio si erga a messia dei giovani precari, ossia colui che cambia le modalità di decisione per provvedere tempestivamente alla loro sorte. Per fortuna, il mondo della precarietà sa bene chi l’ha vessato e ne distingue l’infausto accento fiorentino, lo stile spocchioso e arrogante illuminato dalle cene alla Casa Bianca, la faccia da culo usata per mentire rispetto ai dati sull’occupazione.
Il NO nelle urne e, soprattutto, nelle piazze deve disvelare tutti i grandi sì che stanno dietro ai comitati, ai sindacati di basi, ai no border, ai movimenti contro la violenza di genere e per il diritto all’abitare: quei sì che chiedono che ci siano un cambiamento verso l’inclusione, l’universalità e l’eguaglianza – quella vera. Dei sì che giorno dopo giorno modificano la realtà in questa direzione e che vogliono vederla riconosciuta anche formalmente, al di là di qualsiasi legge scritta che finora si è dimenticata di prendere in considerazione una parte consistente della cittadinanza. Manifestare per l’opposizione alla revisione costituzionale renziana è d’obbligo per rigettare una proposta che aggrava la condizione della democrazia nel nostro Paese (già di per sé malandata) e che continua a rimuovere il problema della rappresentazione della generazione precaria nella Carta. Ma lo è anche perché dobbiamo chiedere, e costruire, a gran voce un vero cambiamento che non può accettare sulla difensiva lo status quo.
[1] Per essere più precisi, l’intero Titolo III della Costituzione presenta degli articoli molto avanzati e che sono stati frutto dell’influenza della Resistenza e del peso del Partito Comunista, punto di riferimento della composizione operaia. L’articolo 35, tuttavia, presenta lo stesso problema del 4, cioè la tutela “del lavoro”, che è diverso dal dire del “lavoratore”. Gli articoli 36 e 38, in parte il 41, non sono mai stati effettivamente applicati per le giovani generazioni e sono stati spesso disattesi in generale; il problema sta nell’interpretazione di questi articoli, nell’efficacia del giuridico in un’organizzazione complessa e multilivello globale. Inoltre, da tener presente che nella Carta sussiste anche il principio della libera attività economica che sta proprio alla base della diseguaglianza tra lavoratore e datore di lavoro, così come il rispetto delle esigenze produttive, ossia il riconoscimento di altre fonti che intervengono in qualche misura al fine di determinare le politiche sul lavoro
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