mercoledì 26 ottobre 2016

Referendum Costituzionale. Le implicazioni economiche della controriforma costituzionale.

“Se la riforma costituzionale venisse bocciata il rischio politico aumenterebbe in modo rilevante e alcuni degli sforzi fatti per aumentare la produttività e rafforzare la crescita economica di lungo termine potrebbero subire una battuta d’arresto”.
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micromega di Guglielmo Forges Davanzati

Il prossimo 4 dicembre saremo chiamati a pronunciarci sulla revisione di una parte consistente della Costituzione vigente. Si tratta di un tentativo di riforma che, se avrà successo, ridisegnerà in modo significativo i rapporti fra Stato e mercato nell’economia italiana. In altri termini, è estremamente difficile ritenere che si tratti esclusivamente di un’operazione, per così dire, ‘sovrastrutturale’ che incide esclusivamente sulla sfera della politica e dei rapporti di bilanciamento dei poteri fra camera dei deputati e nuovo senato, fra governo e amministrazioni locali. Detto diversamente, la riforma costituzionale la si può leggere come un provvedimento di politica economica, soprattutto su questi aspetti.


1) La modifica dell’art.81, già fatta due anni fa e mantenuta nel nuovo testo, di fatto stabilisce che le politiche di sostegno della domanda anche solo in funzione anti-ciclica (l’aumento della spesa pubblica in fasi recessive) sono incostituzionali, dal momento che il nuovo articolo – peraltro approvato con pochissima discussione in Parlamento – stabilisce che lo Stato italiano si impegna a mantenere tendenzialmente l’eguaglianza fra spese ed entrate. L’obiettivo del pareggio di bilancio diventa costituzionalmente garantito e, come è agevole intuire, diventa costituzionalmente garantita una particolare teoria economica. Quella, di impronta liberista, che si fonda sulla convinzione che la spesa pubblica sia solo fonte di sprechi e che in fasi recessive occorre semmai ridurre la spesa pubblica – la c.d. dottrina dell’austerità espansiva, ampiamente sperimentata in Europa e in Italia negli ultimi anni (e attualmente ancora dominante, in teoria e nei fatti), peraltro ampiamente smentita sul piano teorico e fattuale.

2) L’abolizione del CNEL non è affatto, come sostenuto sia dal fronte del SI sia anche da molti esponenti del fronte del NO, un atto dovuto in considerazione del fatto che si tratta di un ente inutile. A parte la difficoltà di dare una definizione condivisa di ente inutile, il CNEL è stato pensato come fondamentale organo consultivo per le attività di programmazione economica che la costituzione vigente assegna allo Stato. In tal senso, la sua abolizione sancisce la convinzione che lo Stato debba rinunciare a programmare l’attività economica, ovvero debba ritirarsi, fare un passo indietro, rispetto alle dinamiche proprie di un’economia di mercato.

3) Non è un mistero, anzi è parte integrante della propaganda ufficiale del Governo, che il tentativo di fuoriuscire da questa lunga recessione passa attraverso il tentativo di attrarre investimenti. Sul sito del Governo italiano, si invitano le imprese a investire in Italia (o a non delocalizzare) facendo presente che in Italia i salari sono ‘competitivi’, cioè bassi: il che è assolutamente vero. Cosa c’entra questo con la riforma costituzionale? E’ la ‘governabilità’ a dovere garantire questo esito, negli auspici del Governo. L’accentramento di poteri dovrebbe far sì che l’esecutivo assuma in tempi più rapidi di quelli attuali (sebbene sia noto che la produzione di leggi in Italia non sia assolutamente al di sotto della media europea) decisioni che favoriscano l’ingresso nel nostro Paese di capitali esteri.

Si può ricordare che un obiettivo analogo si pose in fase di discussione dell’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e si può registrare che da allora, ovvero nell’ultimo biennio, la localizzazione di investimenti in Italia è stata sostanzialmente nulla. In quella fase, l’argomento era: le imprese non investono in Italia perché abbiamo un mercato del lavoro troppo rigido. In questa fase, l’argomento è: le imprese non investono in Italia perché i tempi di decisione della Politica sono troppo lenti. Stando alle rilevazioni del Centro Studi CGIA, la dinamica degli investimenti diretti esteri (IDE) presenta, per l’Italia, un saldo negativo, ovvero è maggiore il valore degli investimenti effettuati dalle imprese italiane all’estero rispetto al valore degli investimenti “in entrata”.

La scommessa governativa – rivedere la Costituzione per attrarre investimenti – appare dunque molto ragionevolmente perdente, anche perché, considerando la recente bocciatura del nuovo testo da parte della finanza sovranazionale (attraverso il Financial Times), la riforma è troppo confusa per essere compresa da investitori esteri e non è neppure soddisfacente per chi la ha commissionata. E’ noto infatti che, a partire da un report del 2013, J.P. Morgan ha sollecitato una profonda revisione della Costituzione italiana, invitando il Governo a emendare i troppi elementi di “socialismo” che essa contiene, con particolare riferimento alla “tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori” e al diritto di sciopero, che, per la finanza sovranazionale della quale J.P. Morgan è fra le massime espressioni, andrebbero superati[1].

Ma, per molti aspetti, è anche una scommessa controproducente ai fini del recupero di un percorso di crescita, nonostante l’opinione del Centro Studi di Confindustria[2]. Come è noto, a partire dalla primavera scorsa, Confindustria ha esplicitato un netta posizione a favore del SI, con argomentazioni francamente imbarazzanti per chi continua a ritenere le previsioni in Economia una cosa seria, sebbene difficilissime da implementare e comunque da assumere cum grano salis. L’Ufficio studi di Confindustria prevede in caso di vittoria del NO uno scenario a dir poco drammatico: una riduzione del Pil dell’1,7%, un crollo degli investimenti del 12,1%, un aumento di 430 mila poveri e un calo degli occupati di 289mila unità. Curiosamente, a differenza di quanto normalmente si fa (e si dovrebbe fare) non si fanno previsioni sullo scenario alternativo (vittoria del SI), così che non è dato sapere, ammesso che la metodologia sia valida, se il SI produrrebbe crescita o – caso da non escludere - una recessione ancora più intensa.

Come vengono motivate queste previsioni? Fondamentalmente avvalendosi dell’argomento per il quale il NO produrrebbe instabilità; l’instabilità produrrebbe incertezza; l’incertezza si assocerebbe a declino degli investimenti e alla conseguente contrazione del tasso di crescita. Posta la questione in questi termini, viene da chiedersi, non retoricamente, perché non dovrebbe accadere quanto previsto in caso di vittoria del NO per tutte le possibili crisi di governo. E’ ovvio infatti che ogni cambiamento istituzionale genera incertezza, così come lo genera la resistenza (se ha successo), a cambiamenti di significativo rilievo del disegno istituzionale.

A ben vedere, sembra molto più ragionevole l’argomento contrario. Innanzitutto, è proprio il Governo ad aver creato le condizioni per un aumento dell’incertezza, che è esattamente la variabile che, proprio per la logica seguita dall’Ufficio Studi di Confindustria, disincentiva l’attrazione di investimenti. In secondo luogo, se si riconosce che la ‘riforma’ è finalizzata all’attrazione di investimenti occorre riconoscere che questa si rende semmai possibile comprimendo i salari e i diritti dei lavoratori. Sulla base di questa lettura, non sorprende che Confindustria sostenga pienamente le ragioni del SI. E tuttavia, questa strategia – se risulta inefficace, come c’è da aspettarsi, per l’aumento degli investimenti - rischia di generare ulteriore compressione della domanda interna e l’ulteriore intensificarsi della recessione.

NOTE
[1] Sul punto, si rinvia, fra gli altri, a G. Forges Davanzati, La finanza sovranazionale e la controriforma costituzionale, Micromega on-line, 27 settembre 2016.
[2] Centro studi Confindustria, La risalita modesta e i rischi di instabilità, Scenari Economici, giugno 2016, n.26.

(25 ottobre 2016)

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