globalproject Fabio Mengali24 / 10 / 2016
Il dibattito sul referendum costituzionale del 4 dicembre ha
preso avvio da diverse settimane con tanto di articoli illustrativi, di
approfondimento, editoriali e l’immancabile puntatona da talk-show con lo
scozzo tra i massimi (?) rappresentati delle due opzioni, il Sì o il No.
Proprio il corpo a corpo tra Renzi e Zagrebelsky ha indotto il solerte Scalfari
ad iniziare, ma potremmo dire benissimo viziare, una sorta di confronto
intellettuale sulle implicazioni della revisione della nostra Carta e sul
merito dei principi generali che la muovono: democrazia, uguaglianza, decisionalità, ecc. Vorrei intervenire su
questo dibattito, a distanza di giorni, approfittando dell’occasione per mettere
le mani avanti e fare una premessa, sia di metodo che di contenuto.Senza alcun attaccamento alle quote di rappresentanza per categoria (anche perché non di categorie stiamo parlando), trovo abbastanza odioso che i massimi esperti ed esponenti del dibattito costituzionale siano completamente estranei alla popolazione giovane, precaria, in perenne mobilità e/o inoccupata che del referendum costituzionale vedrà maggiormente l’impatto e ne dovrà, nell’infausto caso di vittoria del Sì, subire le conseguenze. Sia chiaro, questa non è una reazione “giovanilista”: è un esercizio di realtà, una presa di parola da parte e su quei cittadini del Belpaese che fino in fondo non hanno mai potuto godere dei diritti di cittadinanza, molte dei quali sanciti proprio dalla Costituzione. Si tratta di vedere come le trasformazioni del mondo del lavoro, delle aspettative e dei bisogni/desideri dei giovani degli ultimi anni abbiano cambiato totalmente le forme di vite (singolari e collettive) delle generazioni della precarietà; soltanto a partire da qui si può prendere una posizione vera, cioè che parla alla realtà, e si può inquadrare meglio la portata della riforma.
Proverò a scendere nel dettaglio di alcune questioni del referendum costituzionale con più interventi, trattando un argomento alla volta. Il punto di vista che viene espresso è assolutamente parziale e può benissimo essere integrato da altri interventi.
Bicameralismo perfetto e conflitto
L’obiettivo principale della riforma è il bicameralismo perfetto che pone sullo stesso livello decisionale per la produzione legislativa il Senato e la Camera. Ammiccando al consenso populista di taglio ai costi della politica, Renzi ha inserito tra i punti della revisione la diminuzione del numero dei senatori (da 315 a 100) e l’eliminazione della loro retribuzione. I futuri membri del Senato, difatti, saranno prelevati sia dai Consigli regionali (74 seggi) su base proporzionale rispetto alla composizione delle forze politiche e al numero degli elettori, sia dagli amministratori locali (21, un sindaco per Regione). I rimanenti 5 seggi verranno affidati con scadenza settennale ai senatori eletti dal Presidente della Repubblica.
Il Senato parteciperà con le stesse funzioni di adesso alla discussione e alla votazione delle leggi bicamerali, cioè quelle che riguardano la revisione costituzionale, i referendum, l’autonomia delle Regioni, i trattati europei e gli ordinamenti dei Comuni. Tutte le altre leggi ordinarie proposte come progetti di legge saranno discusse e approvate dalla Camera; in seconda battuta, il Senato dovrà decidere entro trenta giorni se vuole proporre delle modifiche al testo, rimandandolo alla Camera. A questo punto la Camera può decidere con la maggioranza relativa se approvare le modifiche oppure no. I casi particolari di questa procedura corrispondono alle leggi di bilancio, per le quali il Senato è obbligato a fare la revisione, e alle leggi con “clausola di supremazia”. Per quest’ultime, laddove la Camera abbia redatto una legge che non è competenza esclusiva dello Stato, il Senato può approvare le sue modifiche a maggioranza assoluta, costringendo la Camera a rigettarle soltanto con votazione assoluta.
Tra le altre modifiche istituzionali, il meccanismo della fiducia dell’esecutivo sarà nelle mani della sola Camera (ovviamente) e la trasformazione in DDL dei decreti-legge ottiene più margini temporali (fino a 90 giorni, mentre attualmente al massimo sono 60), anche se il governo può diminuirli a 70 giorni, qualora il decreto in questione sia essenziale ai fini dell’attuazione del suo programma.
E’ vero, la riforma accorcerà sicuramente i tempi della promulgazione delle leggi. Il fatto è che non lo farà per il superamento di ostacoli burocratici o per la spedizione nell’intergalassia cosmica degli emendamenti (e dei politici) a puro scopo liberticida, come abbiamo visto per le recenti discussioni sulla Cirinnà e sulla legalizzazione della cannabis. La velocità si guadagna in un solo modo: accentrando i poteri. Meno persone che discutono su di una legge, meno membri da convincere, molto più spazio al governo per approvare un decreto, giustificato dallo stato di emergenza permanente, e convertirlo in legge facilitando ulteriormente il passaggio parlamentare. Un Parlamento tutto spostato su una Camera in cui vigerà una maggioranza eletta con pochissimi voti. Non possiamo dar torto a tutti quei costituzionalisti che hanno visto un collegamento diretto tra legge elettorale, che elargisce un Superenalotto come premio di maggioranza, e riforma costituzionale.
Ora, chi scrive non è in nessun modo un appassionato del dibattito e della discussione parlamentare. Troppi personaggi che quotidianamente sviliscono il concetto di politica abitano il Parlamento e, di per sé, la delega in bianco che prevede il concetto di rappresentanza, previsto proprio dalla nostra Costituzione, è responsabile di quella distanza tra rappresentati e rappresentanti che espropria la cittadinanza del diritto di decisione (vedi gli articoli 67-68 della Carta sul vincolo di mandato). La democrazia, dunque, non la intendo semplicemente come una procedura formale perimetrata dalle istituzioni vigenti, ma la ritengo un’attività di superamento dei limiti – in seno all’uguale diritto di parola, di decisione o alla libertà – che riscrive sempre i suoi spazi. Tutto ciò lo si è visto in passato, forse potremmo dire in un’altra fase, nei momenti in cui i movimenti sociali riuscivano a spostare verso le loro rivendicazioni i dibattiti, le leggi e le decisioni che altrimenti in Parlamento avrebbero avuto tutt’altro sbocco. Una procedura non esattamente prevista dalla nostra attuale Carta costituzionale, la quale infatti recita «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Non prevista, certo, eppure in una qualche misura possibile all’interno del quadro formale e materiale che negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta veniva descritto dalla Costituzione. Un bell’articolo di Luca Nivarra su Euronomade rende bene la dinamica dei processi sociali all’interno del contesto della prima Repubblica: sono le aspettative generate da alcuni dei principi universali sanciti costituzionalmente ad essere usati come leva per innescare mobilitazione sociale; così come è una neonata idea di democrazia, formatasi in antitesi alla dittatura fascista, priva di un contenuto particolare e determinato a lasciare margine (extragiuridico) di iniziativa, scontro e conflitto.
In un certo senso, l’assetto istituzionale del bicameralismo perfetto ha creato le condizioni di possibilità per una tale dinamica. Il tempo della legiferazione e del dibattimento, infatti, pur nelle sue contraddizioni, permette di instaurare una temporalità dell’opposizione sociale e dell’iniziativa di movimento. Diamo scanso agli equivoci: la potenza dei movimenti sta nella loro capacità di costruzione sociale al di là dei tempi dettati dall’attività legislativa e dai poteri economici e politici. La loro autonomia è ciò che li associa ad una progettualità che non si ferma all’atto di destituzione o negazione di una decisione, ma che guarda oltre il già dato verso una possibilità alternativa futura. Seppure il tempo dei movimenti non sia necessariamente vincolato a quello parlamentare (sia mai!), è dentro e contro la dimensione temporale scandita dal potere legislativo che l’autorganizzazione sociale e politica ha potuto mettere il peso del suo contropotere. La dilatazione del tempo legislativo per fare discussioni e approvare le leggi può dunque essere facilmente riempita dal tempo delle strade, delle piazze, dei movimenti con un’efficacia maggiore.
Ecco, la riforma costituzionale, oltre a trasporre ancor di più il potere nelle mani dell’esecutivo e in una Camera praticamente senza opposizioni, mina la dinamica sopra descritta. E’ un attacco diretto all’organizzazione delle realtà di movimento e della cittadinanza, dei soggetti colpiti in prima persona dai provvedimenti legislativi che, a riforma approvata, avranno meno disponibilità temporale per intervenire nella deliberazione istituzionale e spostarne gli esiti, esercitando la spinta della democrazia dal basso. Non è nemmeno così tanto una novità, se pensiamo che il silenziamento del dissenso è stata prerogativa dell’arte di governo renziano. Ancor di più, se pensiamo che la governance europea neoliberale predilige la velocità della decisione sovrana negli Stati membri per evitare che ci siano intralci all’attuazione della sua “religione”. Renzi e il PD ci parlano di un perfezionamento della democrazia perché la maggioranza potrà vedere attuato il programma che ha votato senza incorrere nella “dittatura delle minoranze”, con una rapidità che non farà più stare l’Italia al posto del “fanalino di coda” dell’Europa.
Chi ha detto che la democrazia debba avere tempi rapidi? Certo, alcune situazioni richiedono una presa di decisione tempestiva e veloce se di fronte ad un’emergenza – parola abusata negli ultimi anni dopo la proclamazione dello stato di eccezione permanente a causa della crisi. L’attività democratica, però, abbisogna di tempi lunghi e non lineari: lo sanno bene coloro che si impegnano quotidianamente, nelle realtà di base, per costruirla. E, dobbiamo dirlo, lo sapevano bene anche i greci, con buona pace di Scalfari. Ritorneremo più avanti su questo aspetto.
Democrazia non è una parola che ha un unico senso. Noi siamo abituati ad associarla alla rappresentanza, perché è la forma nella quale viviamo, ma non è assolutamente in questo contesto che si esaurisce il concetto di democrazia. La connessione tra democrazia, rappresentanza e/o decisionismo è una costruzione contingente che domina l’Occidente all’incirca da due secoli. Siamo proprio sicuri che continui a funzionare?
La crisi della rappresentanza come forma di democrazia è sia oggettiva che soggettiva. Nel primo senso, le trasformazioni globali hanno imposto la forma della governance come modalità di decisione nella quale intervengono istituti finanziari, il mercato e le istituzioni sovranazionali. Nel secondo senso, soprattutto dopo il ciclo dei movimenti europei e mondiali del 2008-2011, ci riferiamo ad un aumento dell’astensione e ad una mancanza di consenso nei confronti dei partiti tradizionali. Evidentemente la delega non funziona più perché quasi sempre è stata usata contro chi rivendicava la formazione pubblica accessibile a tutti, l’affermazione e la gestione orizzontale dei beni comuni, il rifinanziamento del welfare e della messa in sicurezza dei territori contro le grandi opere, un reddito garantito e diritti sul lavoro. La presa di parola collettiva, e la sua manifestazione fisica nelle piazze e nei blocchi della circolazione e della produzione, si è reimposta in maniera forte durante quel ciclo di mobilitazione a partire da un grande dato di fatto: la sfiducia nei confronti di un ceto politico e del suo apparato ideologico che non ha i mezzi e la legittimità di parlare a nome della generazione dei precari e degli sfruttati. Una nuova mentalità è stata forgiata tramite un tale rifiuto, una cultura politica che ancor più di prima non accetta passivamente la delega. La decentralizzazione della decisione politica, il fatto che il potere di scegliere sul futuro di una comunità fosse distribuito verso il basso e non affidato ciecamente ad un “alto” , è l’elemento cardine che ha caratterizzato questi movimenti. Una delle conseguenze più mediatiche di questo cambiamento si può vedere – sebbene diversamente - nel successo dei populismi che, sia a livello comunicativo che di contenuto, propongono a vario modo una discontinuità con le caste politiche.
Fanno dunque ridere i richiami all’epoca della DC e del PCI, al pentapartito, alla “grande” classe dirigente che per quarant’anni ha diretto l’Italia, come se fosse un paradigma che dimostra due cose: la rappresentanza è buona in sé e compone un’evitabile oligarchia. Qui entriamo nel merito del dibattito pubblico che si sarebbe aperto su uno dei nostri maggiori quotidiani, Repubblica, ad opera di Eugenio Scalfari. Il fondatore del giornale si è forse dimenticato che proprio quei gruppi dirigenti furono già messi in crisi quando la Costituzione aveva più o meno vent’anni, dai movimenti sociali che si battevano contro qualsiasi visione oligarchica. Furono messi in crisi perché colpevoli dello sfruttamento, delle stragi di Stato e della corruzione, come poi la storia ha ampiamente dimostrato. Si è dimenticato che gli esempi da lui adotti non richiamino nulla nell’immaginario storico delle nuove generazioni. Si è dimenticato che proprio queste generazione si sono appropriate di strumenti e di spazi della politica prima inediti e delegati completamenti alla classe dirigente, anche perché vivono condizioni di lavoro (per forma, tempi e dimensioni) che hanno rotto l’equazione classe lavoratrice= produzione/classe dirigente=governo fondato sulla divisione del lavoro e dei saperi.
L’oligarchia è ciò contro cui i movimenti che avevano un’idea di democrazia radicale si sono sempre mossi, perché evidenziava i limiti della forma di democrazia finora raggiunta. La permanenza oligarchica, ovvero il privilegio, nella rappresentanza moderna è sempre stata denunciata e contrastata visti gli effetti di diseguaglianza politica, sociale ed economica che porta con sé. La selezione dei candidati che avviene all’interno dei comitati centrali, la linea dettata dal partito, eccetera, sono modalità così distanti dalla realtà che già alcuni partiti, e nemmeno progressisti, le hanno riviste negli ultimi anni.
Scalfari osa scrivere una cosa del genere perché nella sua concezione, come in quella di tutti coloro che stanno animando il dibattito sulla riforma costituzionale, tutti questi cambiamenti non sono importanti. Una parte consistente del Paese non deve essere tenuta in conto all’interno di questo dibattito. Addirittura, si arriva a dire che la democrazia diretta possa essere esercitata soltanto tramite referendum popolari su alcune questioni, come se la storia ed il pensiero politico non offrissero diverse concezioni plausibili di democrazia oltre la rappresentanza moderna.
Del resto, le parole del giornalista sono coerenti con quanto ritiene il PD e la goveranance europea: alla crisi della rappresentanza si risponde rendendo più autoritari, centralizzati e inoppugnabili gli aspetti stessi della rappresentanza. Nonostante il bicameralismo perfetto e questa democrazia rappresentativa siano da tempo ed a più livelli criticate, la visione che sostiene la riforma costituzionale rafforza indecentemente i loro elementi più critici. Un ripensamento della democrazia rappresentativa in tutt’altro senso, vista la sua inefficacia, contraddirebbe la costituzione materiale dell’Europa e dei suoi Stati membri. Sappiamo bene che le istituzioni finanziarie e politiche delle oligarchie europee (queste davvero non elette nella maggior parte dei casi) preferiscono giocare con il rafforzamento delle sovranità statuali, da anni svuotate di potere. Ovvero, l’esatto contrario della legittima, radicale, storica domanda di democrazia reale che ha attraversato continenti interi, rivendicando lo spostamento del baricentro della decisione verso il basso.
Per avvalorare la propria tesi i politici e gli analisti spesso fanno riferimento a quanto detto da pensatori autorevoli, con qualche pizzico di spocchia per sciorinare conoscenza storica (in teoria dell’argomentazione si chiama argumentum ab auctoritate). Citiamo, giusto perché non sono stati scomodati, Platone e Machiavelli. Il primo non ha mai parlato di oligarchia perché nella sua definizione è una costituzione che privilegia i ricchi e il governo non può dividere la città sulla base delle facoltà economiche. Se è vero che l’ateniese affida il governo nelle mani dei pochi filosofi, allo stesso tempo questi filosofi non si impongono sul popolo e non è del tutto vero che facciano tutte le scelte per il demos senza tenerne di conto. Per governare c’è bisogno del consenso (omodoxìa) del popolo, altrimenti si corre costantemente il rischio che questo metta in questione l’assetto stesso della città con la sua discordia (diaforà). Il secondo, invece, non ha scritto solo Il Principe e soprattutto non l’ha fatto con l’unica intenzione di dire che il governo è affidato ad uno solo: ricordiamoci che nei Discorsi, l’autore fiorentino afferma chiaramente che «i molti sono sempre più savi del principe». Entrambi, in modi e con intenzioni diverse, hanno descritto una visione della democrazia che non è riducibile alla nozione banale e semplice del governo dei pochi illuminati.
Da qui io dico che voteremo NO al referendum. E che scenderemo in piazza, assieme a tanti altri, perché crediamo che sia uno dei presupposti imprescindibile per costruire un’altra visione della democrazia, fuori dall’autoritarismo, dalle oligarchie e dalla rappresentanza.
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