collettivo militant
Dio benedica il referendum, verrebbe da pensare. Non ci fosse, il tiepido autunno, che vedrà il prossimo fine settimana uno dei principali momenti di conflitto politico e sociale, sarebbe ancora più freddo. Eppure l’ennesimo crollo economico della nostra economia lascia il paese sempre più rassegnato e sempre meno combattivo. Al contrario, siamo in presenza del vero fallimento del renzismo come volto presentabile del liberismo europeista, più di Costituzione, migranti o Unione europea. Sta fallendo l’ennesima soluzione costruita in laboratorio, l’ennesimo “volto nuovo della politica”, l’innovatore, il rottamatore, il “liberista dal volto umano”. Il fallimento di Renzi non porterà alla precoce dipartita solo lui e la sua schiera di yesman finanziari.
E’ un intero apparato ideologico che rischia di tracollare. I dati di ieri sullo stato di salute dell’economia italiana in termini di occupazione e disoccupazione, in questo senso, smascherano decenni di retoriche liberiste sul mercato del lavoro italiano. La principale riforma del governo Renzi, il cosiddetto Jobs Act, traduceva in pratica i fondamenti dell’economia politica liberista, basati su una serie di atti di fede, tra i quali: meno garanzie contrattuali producono più mobilità lavorativa e quindi più dinamismo di mercato; libertà di licenziare favorisce l’aumento dell’occupazione; la moderazione salariale consente alle aziende di investire e assumere più facilmente; un mercato del lavoro più “dinamico” porta a un incremento della crescita economica. E così via, secondo la neolingua euro-renziana. Eppure il Jobs Act ha effettivamente concretizzato tutto ciò: ha abolito l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, consentendo alle imprese di licenziare i propri lavoratori senza giustificato motivo; ha eliminato di fatto il contratto a tempo indeterminato, sostituendolo con contratti “a tutele crescenti” che regolarizzano una serie di tipologie contrattuali sui generis e precarizzanti; ha garantito la pacificazione salariale attraverso i voucher lavorativi. Dovremmo come minimo correre a ritmi cinesi, e invece non solo siamo inchiodati al palo con l’economia più depressa d’Europa, ma le profezie liberiste conducono esattamente dove logica vorrebbe: meno garanzie contrattuali si traducono in più licenziamenti, e basta; il mercato “dinamico”, dove dovrebbe essere più facile assumere e licenziare, si traduce in meno assunzioni, punto; l’abolizione dell’articolo 18 si traduce nientemeno che in maggiore facilità di licenziare; la pacificazione salariale, semplicemente, porta a dei lavoratori pagati meno.
Nel concreto: in questi due anni i licenziamenti sono aumentati del 31%; il tasso di disoccupazione è fermo all’11,4%; le assunzioni sono calate dell’8,5%; -400.000 contratti a tempo indeterminato di nuovo tipo (cioè a “tutele crescenti”); -35,4% di trasformazione dei contratti di nuovo tipo in contratti stabili a tempo indeterminato; +35,9% complessivo di pagamenti in voucher da parte delle aziende. Le politiche liberiste deprimono il mercato del lavoro e l’economia generale. Basteranno i dati di fatto a smentire decenni di costruzioni ideologiche fondate sul mito dell’”economia politica”? C’è da dubitarne.
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