Ascolta, guarda, legge, discute e, seppur esprimendo opinioni anche molto differenti, talvolta contrapposte, ha effettivamente un’idea della realtà. La propaganda di potere – qualche anno fa si sarebbe usata l’espressione “mezzi di disinformazione” – serve invece a plasmare la realtà reale su una realtà voluta (da alcuni). A volte però ci si spinge troppo in là e queste persone – la società civile? le gente? il popolo? insomma, noi – non possono né devono accettarlo.
Caso emblematico degli ultimi giorni: varie testate nazionali escono con titoli da prima pagina sui giovani italiani che “preferiscono” la mamma, sull’attaccamento a genitori e mura domestiche, snocciolando dati che danno il 67% degli under 35 ancora in casa. Anche e nonostante – ed è questo che sembra creare sconcerto – molti di loro abbiano un lavoro a tempo indeterminato.
Si tratterebbe quindi di un fenomeno culturale, la tradizione italica della famiglia, un attaccamento ossessivo che si scontra con l’attitudine dei giovani del Nord Europa (percentuali dal 3 al 4% in paesi come Danimarca e Svezia) e del Centro (10% in Francia, in calo, e intorno al 19 in Germania). Citando direttamente Repubblica, giornale tra i più attivi nella lotta a bamboccioni, fannulloni e mammoni vari, “la tendenza dei giovani italiani a non lasciare la casa dei genitori è ancora più evidente nella fascia tra i 25 e i 34 anni, ovvero quella nella quale si sono terminati gli studi e si dovrebbe cominciare a lavorare”. Calma, calma e sangue freddo.
I dati drammatici sulla (dis)occupazione, sull’aumento sintomatico dei contratti a tempo determinato a fronte di quelli indeterminati, lo stesso annullamento sostanziale del concetto di lavoro a tempo indeterminato con la riforma Fornero e la successiva introduzione del Jobs Act, l’utilizzo sfrenato del sistema dei voucher (notizia di questi giorni è che nella sola regione Emilia Romagna vengono pagati attraverso questo sistema quasi 120.000 persone!) oltre a essere l’ennesima sconfitta sul fronte del diritto del lavoro e un elemento di destabilizzazione economica, sociale e morale, rappresenta la realtà reale in cui nasce e si sviluppa questo 67% di mammoni.
L’ultimo rapporto Caritas – la quale sicuramente è ben più inserita nella società di ministri, bocconiani, agenti finanziari e giornalisti di regime – ci dice che “oggi accanto ad alcune situazioni che rimangono stabili, irrisolte e in molti casi aggravate, si evidenziano alcuni elementi inediti e in controtendenza” ovvero “negli ultimi anni sembrano aggravarsi le difficoltà di chi può contare su un’occupazione, i cosiddetti working poor, magari sotto occupati o a bassa remunerazione”.
Il rapporto va avanti, non possiamo qui citarlo per intero, ma è indubbiamente interessante notare due punti: innanzitutto che “nel corso del tempo anche aree del centro e del nord [Italia] hanno vissuto un vistoso peggioramento dei propri livelli di benessere: in soli otto anni anche in queste zone è raddoppiata la percentuale di poveri”; e poi che “oggi i dati Istat descrivono una povertà che potrebbe definirsi inversamente proporzionale all’età, con la prima che tende a diminuire all’aumentare di quest’ultima”, che tradotto in numeri vuol dire che oltre due milioni di under 35 (e oltre un milione di minori) attualmente sono da considerarsi poveri.
Dunque i giovani di oggi sarebbero la working poor generation? E noi che eravamo sicuri, tra gli appelli dei nostri rettori universitari e i titoli festosi delle testate nazionali, di essere la generazione Erasmus, quella che non è in fuga dal proprio paese ma pensa all’estero come “una scelta per coltivare ambizioni e nutrire curiosità”, usando in prestito le parole di Repubblica.
La realtà è che oggi, con una disoccupazione giovanile ormai stabilmente oltre il 50%, si è portati inesorabilmente a scegliere tra due opzioni: segui i 200.000 coetanei che solo nell’anno passato hanno scelto l’estero come prospettiva a medio/lungo termine, in quella che – oltre a curiosità personali varie – sembrerebbe essere un’imposizione nel mercato del lavoro europeo, oppure rimani qua a cercare un’occupazione sottopagata e instabile? Ti sottometti a quell’infernale meccanismo Comunitario (possiamo chiamarlo antipopolare?) attraverso il quale si creano opportunità da una parte (guarda caso, i paesi del centro-nord) e stagnazione nelle periferie dall’altra (toh! i terroni d’Europa..), e che ci porta quindi inesorabilmente a cercar lavoro altrove, oppure rimani qui a fare il NEET, giovane che non studia e non lavora?
Insomma, noi, giovani del Sud o dell’Est Europa, giovani di paesi che ancora non hanno saputo se possono essere ultimi tra i primi o primi tra gli ultimi, giovani che 1 su 1000 ce la fa e che meno di 1 su 2 può pensare a una casa propria (in affitto ovviamente…), giovani selezionati in percorsi scolastici classisti e, per i pochi che arrivano alla fine, vagliati in programmi universitari europei e indirizzati a mercati del lavoro “veri”, giovani che devono imparare a essere flessibili, disponibili e sgobbare di più e a testa sempre più bassa, vorremo continuare a leggere passivamente i manifesti della realtà voluta (da altri) o sapremo non accettare questa condizione imposta e lottare per migliorare la realtà reale?
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