Ecco: la prima, vera, proposta che non sia solo un no alle riforme di Renzi, ma anche un sì a una riforma alternativa ha i baffi di Massimo D’Alema, pubblico nemico del renzismo. Messa nero su bianco e presentata nel corso di un incontro organizzato dalla Fondazione ItalianiEuropei e Magna Carta di Gaetano Quagliariello, ex ministro per le riforme del governo Letta. Un disegno di legge in tre punti: riduzione del numero dei parlamentari, elezione diretta dei senatori e istituzione di una Commissione di Conciliazione tra Camera e Senato, sul modello americano. Più che di testimonianza, di mossa politica si tratta, perché – spiegano fonti informate – entro una settimana “il ddl raccoglierà un centinaio di firme”.
Parterre trasversale in sala, perché, dice Quaglieriello, “quando si parla di Costituzione, la normalità è che collabori chi la pensa diversamente”. Parecchia Forza Italia applaude, da Paolo Romani a Maurizio Gasparri ad Altero Matteoli: “Certo che – dice Lucio Malan – la Bicamerale era la nona sinfonia di Beethoven rispetto alla musica di Renzi”. Lui, dal palco, suona la musica ascoltata in un silenzio quasi religioso: “Chiariamo che non esiste uno schieramento politico del no, mentre esiste un blocco politico del sì, il partito della Nazione, che coincide con parte della maggioranza di governo, coeso, minaccioso, sostenuto anche da poteri forti, e da parte del sistema dell’informazione che lancia insulti che non dovrebbero appartenere al confronto cui siamo chiamati, alimentando un clima di paura e intimidazione da far sentire in colpa chi è per il No come se portasse il paese verso il baratro”.
Massimo Mucchetti, che non ha perso l’immediatezza del giornalista di razza, dà la chiave: “Significa che il 5 dicembre, nel caso vincesse il no, non sarebbe la fine del mondo, ma si apre un confronto in Parlamento su alcuni punti. Lo ha capito il Financial Times, lo capiranno gli italiani. Non finisce il mondo né la legislatura”. Prosegue infatti D’Alema, con tono quasi pedagogico: “Non credo che la vittoria del no possa avere effetti catastrofici, in termini di crisi politica, cosa che non si può dire in caso di vittoria del sì che potrebbe spingere a elezioni anticipate sulla scia del plebiscito. E, in caso di vittoria del no, sarebbe un obbligo la revisione della legge elettorale. Un obbligo, non la concessione di un sovrano, diciamo”.
Si intravede, neanche tanto nascosto, l’abbozzo – attorno ai tre punti “limitati”, “chirurgici”, “che si approvano in sei mesi” – se non il programma di un nuovo governo di scopo, quantomeno la trama di una maggioranza per il 2018. Un disegno per disinnescare il plebiscito. Orfini, allievo che ha rinnegato il maestro, da tempo lo ha spiegato a Renzi: “Per la prima volta da tempo, al netto del rancore, Massimo ha un disegno. Un governo che arrivi al 2018 e cambi la legge elettorale, nel frattempo si fa il congresso… è ovvio che il candidato loro è Letta”. Sia come sia, la notizia è che si appalesa un terzo punto di vista, tra il sì di Renzi e il no di stampo grillino, che in fondo al premier piace. Ed è un “no per le riforme”: “Nello statuto del mio partito – dice D’Alema c’è scritto: mettere fine alla stagione delle riforme fatte a maggioranza. Ecco, difendo i valori fondamentali del mio partito che chi dirige ha dimenticato”.
Interessante il parterre di Forza Italia, dopo che Confalonieri ha detto al Corriere, di fatto, che vota sì. Arriva Maurizio Gasparri, per dirsi pronto al confronto. Poi, con Romani, si allontana proprio per parlare del Biscione, sdraiato sulle ragioni del governo. Lui, dal palco, non rinuncia al gusto della sferzata: “Chi accusa il fronte del No al referendum di tirare la volata a M5s dovrebbe ricordare che è stato il Pd a consegnare la capitale del paese a Grillo con operazioni che resteranno scritte nei manuali della politica, per spiegare come non si fa la politica. Un minimo di riflessione autocritica, prima di rilanciare accuse”. Diciamo. Esce Cirino Pomicino: “Qua se vince il sì debbo andare in clandestinità”.
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