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Intervista a Toni Negri sul concetto di povertà. Dalla biopolitica del povero ai nuovi spazi di organizzazione e conflitto
• Tratto dal focus di OperaViva sulla povertà
Francesco Raparelli – In un volume sul materialismo (Kairòs, Alma Venus, Multitudo, manifestolibri, 2000), scritto nei primi anni del tuo tormentato ritorno in Italia, hai dedicato pagine di grande importanza (e bellezza) al tema della povertà. Figura che si colloca tra la singolare, ed eterna, disposizione del comune e l’amore come potenza ontologica per eccellenza. Il povero cui ti riferisci, però, non ha nulla a che fare con l’oggetto della cristiana carità, costituito dalla pena, è, piuttosto, soggetto biopolitico. Puoi chiarire meglio questa definizione?
Toni Negri – Questa definizione va afferrata da due punti di vista. Il primo è quello in cui si assume che il povero è effettivamente nudità, utilizzando un termine corrente del linguaggio filosofico odierno. Ed è concretamentemiseria, ignoranza, malattia. Questa pesantezza corporea, intellettuale e morale della povertà è il punto che, innanzitutto, ci colpisce. Noi guardiamo il povero in questa occasione, con una tensione che non è – almeno per quanto mi riguarda – pietà, ma, piuttosto, curiosità. Interesse a comprendere il povero davanti a me e, insieme, a ricostruire la memoria del povero che sono stato. Che cos’è l’esser fuori, sul limite, sul margine? Non comporta una riflessione metafisica: il margine è completamente materiale. È appunto miseria corporea, malattia, ignoranza, incapacità di stare ai livelli di un sapere comune; è esclusione, per infiniti versi.
Cos’è dunque essere povero? Nel nostro tempo, per esempio, viene in mente immediatamente la povertà di chi attraversa con il gommone le acque del Mediterraneo, le tempeste; che arriva sfinito, bruciato dal sole, malato. E che è ignorante, sia perché non conosce la lingua del paese che raggiunge, sia perché è fuori dai circuiti culturali del paese cui si avvicina. Tutto ciò implica una estrema tensione fisica. Corporea prima di essere morale, intellettuale. Ed è su questa tensione, su questo momento di generica richiesta di vita, di ricchezza, di salario (non si sa ancora se lo conoscano come tale), su questa ricerca di un benessere elementare, minimo… qui si scatena una forza costruttiva assolutamente decisiva. È questo «luogo» che dobbiamo cercare per comprendere cos’è la povertà.
La povertà è una riduzione alla nudità, ma, a partire da questa riduzione – e senza distinguersene – è una tensione di vita, un desiderio, una richiesta di conoscenza, un’apertura agli altri. Non si tratta solamente di un paradosso logico, quando si parla di povertà, spingendo il concetto al limite per poi recuperarne la potenza. Anche se è pure questo, quasi una groppo nel nostro intelletto, si tratta, essenzialmente, di un approfondimento nel bios. Non è il ritrovamento di un concetto, ma il ritrovamento di una forza. La povertà è, da questo punto di vista, tanto miseria assoluta quanto una forza.
Ricordiamo che questo paradosso suscita una comune risonanza con (e il ritorno a) la nostra tradizione: la scoperta che, quando si arriva alla nudità, non ci si trova di fronte a un’inerzia, ma si è sempre di fronte a un momento creativo. Nella nostra cultura materialista: da Democrito a Epicuro, da Lucrezio a Bruno, da Spinoza a Nietzsche, da Leopardi a Deleuze, da Hölderlin a Dino Campana – mi è capitato già di scriverlo. In particolare mi tornano alla mente sempre due immagini. La rosa di Pascal che resiste: può essere spazzata dal vento, chinata, spezzata, però resta, è lì. O la ginestra leopardiana che è, appunto, segno di attività, mai semplicemente un resto.
Per qualificare meglio questa figura della povertà biopolitica non basta dire ciò che ho detto fin qui. Cos’è questa tensione? È una tensione puramente richiedente o è costitutiva? Evidentemente il rapporto tra richiedere e costituire è sempre molto equivoco. Però è un rapporto che può essere in qualche maniera semplificato quando lo si assume nella corporeità, nella vita fisica: è il bisogno che si trasforma in desiderio, come base dell’agire. Da questo punto di vista è chiaro che non si tratta semplicemente di un bisogno che chiede, ma di un desiderio che produce. Sempre se si prende l’esempio del migrante, il povero per eccellenza oggi, ci troviamo di fronte a una richiesta che è di produzione, perché la condizione nella quale il migrante si trova – l’aver freddo, l’aver fame, essere nell’ignoranza, davanti all’ignoto, dentro all’ignoto – si rivela subito con quella pesantezza e durezza di umanità che il migrante ha dentro di sé: è la sua esperienza di vita (passata) ed è la sua intelligenza (passata); è il suo grado scolastico, se questo c’è stato; è la saggezza di vita di un uomo che è passato attraverso il deserto – sono determinazioni che chiedono di resuscitare. Se si vuole, c’è qualcosa di cristologico in tutto ciò, in questo passaggio dal bisogno al desiderio, dalla negatività alla potenza.
A questo proposito occorre tornare alle grandi narrazioni della nascita della modernità, all’«accumulazione originaria», come Marx l’ha descritta. Qui avviene la trasformazione dell’individuo naturale che vive nella comunità originaria, e che è assoggettato, schiavizzato, ridotto a nudità, esentato dai rapporti produttivi nei quali viveva. Ecco: ridotto alla povertà estrema il proletario chiede lavoro, il bisogno chiede. Allora la nudità viene messa in produzione; la trasformazione del povero in proletario è così data. Il povero, nella forma antica, non esiste più, è il proletario che assume su di sé l’intera pesantezza della condizione umana, nella sua nudità. Questo povero che, introdotto in un nuovo mondo di ricchezza, viene ridotto a una nuova povertà. È la povertà del mettersi sul mercato.
Questo essere proletario si scopre come miseria assoluta nel mercato, dice Marx nei Grundrisse. Miseria assoluta che può diventare ricchezza, nudità che ha già una implicita, costitutiva possibilità di essere altro. Siamo a un grado più alto, se si vuole, nella considerazione della povertà. Non c’è più la dialettica chiedere-produrre, c’è semplicemente il fatto di essere lì e di essere preso dentro al meccanismo produttivo.
Sempre in Kairos, Alma Venus, Multitudo distinguevo varie figure della povertà. C’è la povertà dello schiavo, nell’età antica. C’è la povertà del proletario, e questa è miseria assoluta, ma è già incardinata dentro un sistema di produzione. In questo povero, nel proletario, c’è già una potenza qualificata. Andando avanti, ci troviamo di fronte a una potenza che non è semplicemente qualificata, ma è addirittura appropriante. E a quel punto la sofferenza di essere poveri, probabilmente, diventa ancora più grande, perché più alta è la capacità di arricchimento.
Torniamo al saggio materialista e soffermiamoci su una tua affermazione radicale quanto feconda: «se non sei povero, non puoi filosofare». Poco più in là approfondisci, equiparando la povertà contemporanea alla «dotta ignoranza» umanistica (e cusaniana): possiamo dire dunque che la povertà, nella scena in cui linguaggio e cervello sono diventati i principali strumenti produttivi, è la matrice stessa, o la condizione, del pensiero critico?
Tornerei all’approfondimento della biopolitica del povero. È chiaro che, come sempre, è una biopolitica storica. Senza storia, non c’è biopolitica – malgrado i tentativi di fare biopolitica senza storia, assai frequenti nell’orizzonte filosofico nel quale viviamo. Tornerei a questa determinazione storica, togliendo di mezzo ogni caratteristica teleologica, determinista o causalista del dire «storia». Assumendo la storia, piuttosto, in termini puramente fattuali.
È fuori dubbio che l’essere povero dentro un ordinamento schiavista è cosa assai diversa dall’esserlo dentro un ordinamento industriale; ed essere poveri dentro un regime d’industria è una cosa diversa dall’esserlo in un regime postindustriale. In quest’ultimo le qualità biopolitiche, non semplicemente biotiche, legate alla vita, ma anche quelle legate al politico, sono state profondamente trasformate. L’essenza umana stessa è diventata un prodotto del lavoro e quindi immanenza nel mondo del lavoro, fatto di relazioni sociali produttive e linguaggio. È chiaro che, in questa condizione, si è poveri principalmente nella relazione con gli altri. La povertà diventa isolamento e alienazione. Sicché nella società contemporanea, la povertà (miseria, ignoranza, malattia) diventa sempre più interiore, risentita nel cervello, nel linguaggio, nella comunicazione. Perché? Perché il modo di produzione (quindi il mondo prodotto) nel quale viviamo è essenzialmente immateriale, cognitivo, relazionale, affettivo. La povertà dunque si ridefinisce rispetto a questo nuovo contesto e rappresenta un fenomeno assai più profondo di quanto avveniva nell’età industriale. Dentro una società postindustriale, caratterizzata in termini di linguaggio e comunicazione, essere poveri significa esserlo non semplicemente perché manca la partecipazione alla società, ma perché si è esclusi dalla società. Non è un dato negativo ma affermativo. Non capita di essere esclusi ma lo si subisce da un atto relazionale specifico. È un’esclusione che deriva dal comando, dalla volontà di mettere fuori, dall’impossibilitazione ad agire. Dunque una povertà che si determina sul terreno della possibilità di vivere e di non vivere.
Che cosa significa, allora, che se non si è poveri, non si filosofa? Significa che se non si è dentro la relazione, una relazione comunicativa, se non si è immersi in questo flusso di realtà cognitiva, dentro questo insieme di partecipazione e di esclusione, di sofferenze e di gioia che il vivere in comune determina, non si può filosofare, non si può comprendere.
Qui va aggiunto un altro elemento, che nella tematica della povertà è sempre stato presente: l’amore. Nel francescanesimo, prevalentemente, ma anche nella civiltà islamica (e certo anche in altre culture che non conosciamo) emergono fenomeni analoghi e si dà l’approfondimento della compassione per l’altro in amore per l’altro. Sembra qui che si riscopra una condizione dell’origine dell’umanità dove il patire insieme la miseria del vivere naturale, invece di risolversi in odio di tutti contro tutti, si trasforma in passione comune di sopravvivenza e di civiltà. Che nel comune vi sia amore, molti filosofi lo riconoscono. Che questo amore che ha attraversato il comune costituisca il nome stesso di filosofia, pochi filosofi sembrano riconoscerlo. Se non si è poveri, non si può assumere sopra di sé il carico dell’infelicità del mondo. Se non si ritrova nella povertà il senso del comune, non si possono progettare forme di vita nuove e positive. Se non si recupera la tensione che c’è nel povero a superare la propria miseria, la propria ignoranza, la propria malattia, la propria nudità, non si può dunque filosofare. Sempre che per filosofare s’intenda il vivere bene, il vivere liberi, l’amore.
Per riassumere: quando si dice che se non sei povero, non puoi filosofare, si dice in primo luogo che filosofare è attività che si comincia dentro il biopolitico povero. In secondo luogo, che dentro questo modo della povertà comune, può sorgere la tensione a costruire, oltre la povertà ciò in cui consiste la filosofia.
Non c’è povertà senza «resistenza contro la repressione del desiderio di vivere». In questo senso il povero non è semplice prodotto della violenza, non è mai, semplicemente, nuda vita disposta dal potere sovrano inteso come eccezione permanente. Non ti pare che, su questi terreni, ci sia una distanza importante tra la tua ricognizione ontologica e i primi lavori di Foucault (penso alla prima parte di Storia della follia) o il ciclo Homo sacer di Giorgio Agamben?
Tutto il pensiero della seconda metà del secolo scorso, al termine del «secolo breve», è stato essenzialmente dominato, dal punto di vista antropologico, dall’esperienza della guerra: Hiroshima e Auschwitz. Altrettanto, da una profonda assimilazione dell’esperienza della fine della razionalità della storia. È la fine dell’Aufklärung, il suo tramonto. Non semplicemente la guerra, la crisi della ragione, ma l’esperienza della causa di tutto ciò: la totalizzazione del possesso capitalistico del mondo. Quest’ultima viene vissuta come trionfo del dispotismo, alienazione, e quindi come povertà dell’animo. La Scuola di Francoforte, da questo punto di vista, è assolutamente fondamentale nella costruzione del pensiero della «fine del secolo». Adorno e Horkheimer in particolare.
Il problema era ed è: come resistere e come, eventualmente, rovesciare questa realtà? Ti riferisci in maniera unitaria a Foucault e Agamben. Io invece rilevo una grande differenza, anche nel primo Foucault, rispetto a ciò che sarà poi Agamben; e comunque, anche al di là dei confronti, rispetto alla tematica da te posta. Tu insisti che nel primo Foucault, quello che va da Storia della follia a Sorvegliare e punire, c’è una chiusura. A mio avviso, invece, c’è sempre fuori: la follia resta un irriducibile punto di discontinuità rispetto allo schema cartesiano. Il discorso ‘non c’è più fuori’ è rotto, in maniera fantasmatica se vuoi, dalla presenza della follia. In questo primo Foucault c’è un po’ di Bataille, forse un residuo di psicoanalisi, ma è profondamente diverso da Agamben.
In Agamben il problema è negato, c’è l’accettazione della e la fuga dalla totalizzazione capitalista. Una fuga che man mano diventa disappropriazione. Non c’è resistenza, se resistenza vuol dire che a questo mondo si può trovare alternativa. Direi che in Agamben, nella sua disappropriazione, c’è qualche cosa di ancora più problematico di quanto, già assai negativo, rintracciamo in Heidegger. Perché in quest’ultimo – mi sia consentita l’affermazione, magari poco corretta dal punto di vista filologico – c’è ancora la storia. È una storia del declino della nostra civiltà, rappresentata in maniera oscena dalla giudeitàem che corrompe il mondo. C’è un fantasma di storia, che è un destino, un tramonto; ma comunque è ancora un atteggiamento ontico legato all’Essere. In Agamben la fuga diventa puramente morale, o estetica o addirittura gestuale. La disappropriazione prende il nome di povertà. Figura concettualmente inconsistente, la povertà diviene una determinazione futile, perde quei resti di umanità che, alla povertà, deve essere in ogni caso concessa. Non è casuale che la disappropriazione, in Agamben, vada oltre l’umano: si volge nello spazio all’animalità, o si rappresenta in un amore completamente erotizzato. Fino a portare – negli ultimi scritti – all’esaltazione del gesto privo di qualsiasi contenuto. Cioè la povertà si configura come unosvuotamento.
Ancora Giorgio Agamben. Nel suo volume dedicato alla povertà e alla regole monastiche (Altissima povertà, Neri Pozza, 2011), Agamben vede nell’usus pauper francescano non solo la rinuncia alla proprietà, ma anche, più in generale, la forma vitae, l’espressione etica, di una abdicatio iuris che si fa disattivazione, potenza destituente. Anche per te la povertà è espressiva, ma semmai, nella resistenza e nella composizione amorosa, è potenza costituente e democratica. Puoi approfondire l’alternativa?
La disappropriazione agambeniana giunge fino a teorizzazione l’abdicatio iuris e uno svuotamento dell’usus pauper. Obietto che l’usus pauper non è semplicemente una forma di vita negativa, è, piuttosto, una forma di vita equilibrata nei confronti della Natura, nel rapporto tra sé e gli altri. Non ha nulla a che fare con quella disappropriazione agambeniana che diventa man mano una desistenza, una abdicatio iuris et historiae. Il francescanesimo è un fatto storico, l’ultima o forse una delle ultime rappresentazioni religiose della lotta contro la ricchezza, contro l’istituzione ecclesiastica. È il rifiuto politico della proprietà. E questo rifiuto è interpretazione degli Atti degli Apostoli, dove la moltitudine che crede, deve avere un sol cuore e una sola anima; e nessuno può affermare che le cose che possiede siano sue, ma tutte le cose stanno in comune.
L’attacco alla proprietà condotto dal francescanesimo è elemento decisivo ed è, storicamente, bloccato, assorbito e usurpato dalla Chiesa (che lo trasforma in un elemento mistico – come fa Agamben); è stato un’affermazione rivoluzionaria che la Chiesa coglie mistificandola. Ma è un’affermazione rivoluzionaria fino in fondo! L’attacco alla proprietà costituisce una forma di vita collettiva; l’ultima esperienza che si presenti secondo codici religiosi alla nascita della Modernità.
Non possiamo dimenticare questa radice francescana, matrice di un comportamento ribelle, che nella ribellione pone la gioia e nella gioia un principio di comunità. La relazione tra resistenza, gioia e comunità la vado ricostruendo – ormai da anni – nella linea che da Francesco ci porta a Machiavelli, da Machiavelli a Spinoza e poi su fino a Marx. È un concetto potente di povertà che bisogna, in qualche modo, ricomporre e affermare! La critica ad Agamben, allora, non avviene qui più sul terreno ontologico, ma, fondamentalmente, su quello etico-politico. Attraverso la critica di alcune conseguenze politiche che il suo pensiero sollecita: per esempio il discorso sulla ribellione senza fine, ritmata dal puro desiderio di ribellarsi. Ma questo possono farlo solo quelli che non sono poveri, che non hanno la necessità di porre in questione il vivere – e che non conoscono la materialità del rapporto bisogno-desiderio. Da questo punto di vista il discorso della disappropriazione, della semplice nudità, diventa sempre più vuoto.
Ma c’è di più: dentro la povertà, quando la si intenda come espressione di tensione biopolitica, si può costruire comune. L’usus pauper, senza dubbio, è una fondamentale allusione al comune. In tale prospettiva anche l’abdicatio iuris può diventare significativa: può permettere di rilanciare il progetto comunista dell’estinzione dello Stato e del diritto, proponendolo come costruzione che si fa dal basso. Quest’ultimo mi pare un nodo sul quale insistere. E farlo proprio oggi, perché ci troviamo in una società nella quale il lavoro è diventato precario, dove la povertà è diffusa, e nella quale la proprietà non può più essere considerata motore di produzione della ricchezza ma è piuttosto distruzione della ricchezza comune. Se non si è poveri, non si può filosofare; se non si è poveri e non si distrugge la proprietà, non si può far politica, politica attiva che serva agli altri uomini.
In Comune (Rizzoli, 2010), il volume da te scritto assieme a Michael Hardt, assemblate la nozione di povertà con quella di moltitudine. Nella definizione di moltitudine dei poveri, esclusa dal popolo e dunque dalla Repubblica della proprietà, tratteggiate la genealogia altermoderna o antimoderna – su cui molto hai insistito fin qui – che da Machiavelli, passando per Spinoza, giunge fino a Marx. Puoi qualificare ulteriormente, oltre la genealogia, l’attualità della definizione?
Nell’attuale situazione la povertà si presenta nel segno del vivere lavorando, della precarizzazione, dell’esclusione variamente articolata nel ciclo della vita. Chiaro è che superare questa situazione implica l’affermazione di forme di vita costituenti, che riescano cioè a produrre e a istituire elementi di ricchezza per tutti. La povertà è, fino in fondo, principio costruttivo; e però sappiamo quanto essa pesi e quanto impedisca di muoversi.
Finora abbiamo sviluppato un discorso che si è mosso sul terreno teorico, politico-ontologico. Vale la pena introdurne, seppur brevemente, uno radicalmente politico. Ciò significa aprire immediatamente il discorso al presente e al futuro, all’a-venire. Cosa significa, oggi, questa moltitudine di poveri che sta davanti ai nostri occhi? Come si fa a introdurre, dentro questa moltitudine, con noi stessi, la speranza di una trasformazione?
Ci sono alcune difficoltà ricorrenti delle quali occorre sbarazzarsi. La prima, e più importante, è l’abbandono della lotta, della resistenza. Che può essere un lasciarsi andare ad affermazioni di identità e a comunità perverse. È quello che sta accadendo un po’ dappertutto: spinte verso orizzonti di destra, che derivano direttamente dall’esser poveri; tentativi di riconquistare sicurezza; trasformazioni, banalizzazioni, perversioni della stessa idea del comune. Si ritrovano, in questo luogo, istanze religiose, così come tratti eticamente perversi, di tipo fascista. Lo sviluppo dell’interdipendenza alla quale l’idea di povertà immediatamente porta viene qui tradotta in prospettive auto-castranti, da un lato, e ferocemente aggressive, dall’altro.
Ciò che più colpisce – come d’altronde colpisce tutti, perché è un fenomeno spaventoso – è la trasformazione della miseria, dell’alienazione, dell’espropriazione, dell’espulsione, in volontà di martirio. Una forma di vita che corrisponde, purtroppo, alla negazione della potenza della povertà, al suo essere in tensione con il mondo.
Di converso, credo che oggi, nella contemporaneità, la povertà ci possa permettere – oltre al rifiuto dell’identità, e dunque di concetti come quelli di nazione, di razza, di famiglia, ecc. – di concepire un’immanenza della potenza nel rapporto fra uomini. E di pensare veramente – alla maniera francescana, ovvero in modo costruttivo, trasformando l’idea di povertà in dispositivo pratico – di modo che la povertà non sia privazione, ma uno stato di tensione e di pienezza, che ci permette di lottare contro tutte le cause della povertà. La pretesa di ricchezza si pone appunto, come resistenza, conflitto, rifiuto, lotta. È su questo terreno che la solidarietà attiva con i poveri (migranti, underclass, esclusi) va organizzata. È probabilmente questa la forma della lotta di classe oggi, è sicuramente la forma della lotta contro il fascismo.
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