L’intellettuale progressista non può limitarsi ad un mero esercizio di virtù tecnica, ad una semplice dimostrazione dell’eleganza del proprio stile o della precisione del proprio ragionamento. Deve sentire nel profondo del proprio animo la sofferenza di chi non ha voce. Deve provare pena per le pene altrui. Ecco perché l’impegno è in primo luogo un ‘sentimento’, che nasce dalla voglia di stare dalla parte degli oppressi.
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Rispondo alla sollecitazione dell’amico Flores d’Arcais cercando di raccogliere le idee ed esprimere quella che da sempre è stata l’idea mia e di Franca su cosa dovrebbe essere un intellettuale progressista. Una volta si diceva intellettuale organico alla classe operaia. Ma c’era in effetti molta confusione in giro su quel che si intendesse con questa definizione un po’ ampollosa.
Innanzi tutto delimitiamo il campo: un intellettuale progressista non è definito dal suo firmare petizioni. Che peraltro ormai vengono proposte in quantità tale che si rischia l’ingorgo. E non può essere soltanto definito in base alla disponibilità a recitare gratis o a presenziare a eventi. Anzi, questo terreno nasconde una trappola potenziale per il Movimento. A volte infatti i gruppi locali credono sia sufficiente la presenza di una persona nota per risolvere tutti i problemi. Questa fiducia nel potere carismatico della notorietà può causare il fallimento delle iniziative.
Mi ricordo che, anni fa, accettai di recitare gratuitamente all’interno di una manifestazione organizzata da un noto partito della sinistra. Lo scopo era raccogliere fondi per una buona causa. Ma visto che lo spettacolo era gratis non venne fatto nulla per pubblicizzarlo e la serata andò praticamente deserta, e quindi il mio apporto fu sprecato e la raccolta di fondi irrisoria. L’anno successivo lo stesso noto partito mi invitò nuovamente. Ma questa volta chiesi un pagamento considerevole per il mio lavoro. Il risultato fu un grande impegno organizzativo e un ottimo risultato sul piano della raccolta fondi.
Se un intellettuale sente la passione civile, non sopporta le ingiustizie e desidera vedere il mondo uscire da questa preistoria del rispetto per l’essere umano, può soddisfare il suo bisogno di incidere sulla realtà non solo firmando petizioni e donando il suo lavoro.
L’ambito naturale del suo impegno è proprio il suo mestiere. È quello che racconti e come lo racconti è il fulcro della tua azione politica.
Oggi si disprezza molto il termine ideologia. Ma l’ideologia è il nostro modo di concepire il mondo, di collegare fatti e interpretare quel che accade intorno a noi e la direzione che prendono gli eventi. La logica vuole che se desidero un mondo migliore io mi costruisca un’idea sul cambiamento che auspico e che io senta l’impulso prepotente di raccontare le storie delle persone che detengono il potere e di quelle che sono vittime di questo potere.
Non si tratta di prendere una posizione politica, di schierarsi come nel corso di una partita a pallone. Si tratta di sentire come proprie le pene di chi non ha voce, di sentire che la sofferenza degli altri non è lontana ma è tutt’uno con il nostro personale dolore.
La società che tollera la vessazione dei deboli prospera sulla separazione tra le persone, sulla competitività, sulla solitudine, che colpiscono tutti, e ci privano del piacere e della consolazione di essere parte di una comunità che collabora e nutre sogni collettivi. La cultura del sopruso e del dominio, della diffidenza e della paura ci lascia tremendamente soli di fronte al dolore. Questo concepirsi come unici, isolati, è un tratto disastroso della cultura borghese, che ha spezzato i vincoli sociali del mondo contadino senza offrirne altri.
Quindi quando io racconto della famiglia incatenata al telaio che si è portata in casa, abbagliata dal miraggio di un guadagno facile, quando racconto dell’anarchico suicidato o della ribellione agli schemi estetici dominanti dei costruttori del duomo di Modena, non sto facendo un esercizio teorico, non sto semplicemente mettendo la mia voce al servizio degli oppressi, sto esprimendo il mio personale dolore, il mio istintivo rifiuto verso un sistema che è concepito contro la naturalità dell’essere sociale, contro il bene collettivo e quindi contro il mio personale desiderio.
Manca tutto se alla scelta ideologica dell’intellettuale progressista difetta la coscienza di condividere i destini di un popolo, perché solo un popolo che lotta per liberarsi è capace di danzare assieme. Se manca questa spinta emotiva e desiderosa del nuovo e del meglio, abbiamo soltanto l’esercizio teorico dell’appartenenza politica. Abbiamo testi che parlano del nulla, giocano con gli stilemi, esercizi accademici cervellotici espressi da intellettuali che non vedono la crescita della coscienza civile e della cooperazione come modo per migliorare profondamente la qualità della propria vita.
Per me e per Franca l’esperienza di aver costruito insieme a molti le strutture dei nostri testi, attraverso incontri e dibattiti, è stata essenziale, per la ricchezza di idee e di sentimenti che ci ha offerto. Altrettanto straordinaria è stata la fortuna di aver potuto condividere lotte collettive con persone di grande valore e fantasia. Il sentirti parte di una collettività solidale è stato poi fonte di una determinazione e di una fiducia che altrimenti non avremmo mai trovato e che ci ha permesso di spingere la nostra mente oltre i confini dei pensieri autorizzati.
E questo stesso condividere umanità ci ha dato una forza enorme quando abbiamo dovuto affrontare i rovesci della vita e della lotta sociale. Per questo credo che esista solo questo modo di essere intellettuali progressisti, espressione e parte del movimento degli umili, che, da tempo ben si sa, erediteranno il mondo.
(14 ottobre 2016)
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