In quest’intervista di Maria Colera Intxausti per Espai Fabrica,
la compagna Angela Davis affronta il peso del complesso industriale
carcerario nell’ambito delle società capitaliste, insieme al ruolo
dell’ideologia razzista e coloniale come fonte delle attuali
discriminazioni.
espaifabrica.cat Traduzione per Resistenze.org
Nel
saggio «Are prisons obsolete?» (2003, in italiano Aboliamo le prigioni?
2009), parli della carcerazione di massa della povera gente e dei
migranti illegali. Il capitalismo considera queste persone come
argomenti superflui da trattare, ma allo stesso modo le utilizza come
manodopera a basso costo e le trasforma in consumatori prigionieri
dell’eccedenza di produzione, quella stessa eccedenza che è all’origine
di una crisi economica che a sua volta genera povertà e migrazione,
chiudendo così il cerchio. Percepisci un parallelismo tra queste
politiche di reclusione e il processo iniziato durante la transizione
dal feudalesimo al capitalismo, dove milioni di persone sono state
espulse dalle terre che assicuravano a loro i mezzi di riproduzione e
che sono state costrette alla schiavitù salariata?
Ci
sono certamente dei parallelismi e delle similitudini tra le due
epoche, ma ciò che è più importante da notare è che ci sono differenze
considerevoli tra loro. Nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo,
così come Marx lo ha descritto, le enclosures (1.ndt) e altri processi
di espropriazione, privarono i popoli di queste terre che costituivano
il mezzo di sussistenza e allo stesso tempo generarono una classe di
persone a cui non restava altro che la propria forza lavoro. Queste
persone sono diventate allora la manodopera necessaria affinché il
capitalismo nascente moltiplicasse la sua ricchezza. Quelle persone
furono infatti liberate dai vincoli del feudalesimo, ma sono state
costrette a passare da una forma di oppressione ad un altra.
Se
è vero che spesso si rivela inutile fare una classificazione delle
varie forme di oppressione, si può comunque affermare che, malgrado la
dipendenza totale e assoluta del capitalismo dallo sfruttamento, il
fatto di lasciare alle spalle la schiavitù e il fatto di superarla come
avvenne nel feudalesimo, costituì un progresso certo. Almeno alcuni
lavoratori ebbero accesso al lavoro, sebbene questo fosse e continui ad
essere degradante.
D’altra
parte, il complesso industriale carcerario e globale è certamente più
proficuo. Tuttavia, la sua redditività risiede nelle tecnologie
destinate a relegare una grande massa di popolazione a vite marginali,
improduttive e cariche di violenza. La reclusione massiccia negli Stati
Uniti, in Australia, o anche in Europa di cittadini di colore o
immigrati, che si regge sulla persistenza di un razzismo e di una
xenofobia strutturali, è la prova del fallimento assoluto del
capitalismo globale a fare fronte alle necessità degli individui nel
mondo.
Si
potrebbe parallelamente considerare che rappresenta anche la prova più
convincente della necessità di progettare un sistema socio-economico
oltre il capitalismo. In questa speranza, il movimento abolizionista
contemporaneo, attraverso il suo appello a smantellare il complesso
industriale carcerario, si presenta come un movimento anticapitalista
che esige uguaglianza razziale, posti di lavoro con salari debitamente
remunerati, alloggi accessibili, assistenza sanitaria e istruzione
gratuita e una giustizia ambientale per tutti gli esseri viventi.
Tu
difendi la giustizia restaurativa, piuttosto che quella punitiva. Come
fare scomparire le diseguaglianze e l’ingiustizia derivate dal processo
d’accumulazione primitiva che è alla base del capitalismo? In altre
parole, quali sarebbero le forme di una giustizia restaurativa destinata
a riparare il “peccato originale” di accumulazione e di sfruttamento
dal quale derivano le disuguaglianze di redistribuzione nelle nostre
società?
E’
vero, ho spesso usato il termine “giustizia restaurativa” insieme ad
altri, come ad esempio “giustizia riparatrice” e anche “giustizia
trasformativa” come alternative alla giustizia punitiva o vendicativa.
In assoluto preferisco il termine “giustizia trasformativa”, poiché non
suppone l’esistenza di uno stato ideale che occorre restaurare.
Per
rispondere alla tua domanda, amo sottolineare l’importanza della
memoria storica nel nostro contesto attuale, che ha bisogno di
un’analisi esplicitamente anticapitalista. “L’accumulazione originaria
del capitale” è uno dei passaggi più importanti del Capitale,
precisamente perché mette in luce l’espropriazione, l’ingiustizia e la
violenza che segnano gli inizi del capitalismo e rimane, nonostante le
apparenze, al centro del processo capitalista.
A
fine del ventesimo secolo, il complesso industriale carcerario comincia
a rivelare la misura in cui le società capitalistiche sono ancora
basate su ideologie coloniali e razziste quando si tratta di sviluppare
tecnologie di violenza. In questo modo continua la violenza secolare
della schiavitù e della colonizzazione.
Hai
parlato dei riflessi automatici con i quali si risponde al crimine e al
delitto cercando rifugio presso le istituzioni giuridiche e
poliziesche, anziché immaginare soluzioni che provengano dall’interno
della comunità. Nel caso della violenza sessuale, tu sostieni
l’auto-difesa, che ci porta al tema delle donne e la violenza. In “Are
prisons obsolete?” parli della “necessità di rimettere in questione il
preconcetto secondo il quale la sola relazione possibile tra le donne e
la violenza suppone che le donne siano le vittime” Cos’è secondo te
l’autodifesa femminista?
Ho
sempre scelto accuratamente il modo in cui usavo il termine “violenza”.
Come studiosa della teoria critica, ho sempre ricordato a me stessa che
gli strumenti concettuali che decido di prendere in prestito possono in
realtà contravvenire a quello che intendo esprimere. E’ per questo che
cerco di non associare “autodifesa” e “violenza contro l’aggressore”.
Del resto, la formazione in autodifesa che sostengo, si iscrive in un
contesto più ampio: si basa su un’analisi che collega la violenza
misogina ai sistemi della sovranità razziale, di genere e di classe, in
una strategia che pretende di purgare le nostre società da qualsiasi
forma di sfruttamento e di violenza.
In
“Women, Race and Class” (1983) decostruisci il mito dello stupratore
nero e spieghi che “fu un’invenzione chiaramente politica”. Una
propaganda elaborata al fine di giustificare e perpetuare i linciaggi,
un metodo di “contro-insurrezione” con lo scopo di evitare che i neri
prendessero possesso dei loro diritti. Abbiamo assistito allo
svolgimento di questo stesso mito, ancora oggi, a Colonia alla fine
dell’anno: in questo caso sono stati presi di mira gli uomini “di
aspetto arabo o nordafricano” in un nuovo esempio di “purple washing” o
l’uso di una presunta difesa delle donne per criminalizzare i
richiedenti asilo e i residenti illegali, in modo che passi il messaggio
“le nostre donne possono essere violentate solo da noi”. Come
interpreti l’utilizzo dei diritti delle donne (velo, stupratore nero,
oppressione delle donne afgane…) per impegnarsi in altre crociate?
Nel
libro “Arrested Justice: Black Women, Violence, and America’s Prison
Nation” (2012), Beth Richie rivela il pericolo di fidarsi della
tecnologia della violenza come soluzione ai problemi della violenza di
genere. La sua tesi è che è che il movimento anti-violenza predominante
negli Stati Uniti abbia operato una virata pericolosamente orientata
quando ha cominciato a sostenere la repressione della polizia e la
reclusione come strategie principali per la protezione “delle donne”
riguardo alla violenza maschile. Era facilmente prevedibile che questi
sforzi di protezione avrebbero focalizzato l’attenzione in particolare
sugli uomini delle comunità già sottoposti alla ipervigilanza della
polizia, gli stessi che contribuiscono in modo sproporzionato
all’aumento della popolazione penitenziaria.
In
realtà, la generalizzazione del concetto “donna” nascondeva tutta una
razzializzazione clandestina all’interno della categoria. In questo
modo, “le donne” diventavano in realtà “le donne bianche” o ancora più
specificatamente “le donne bianche benestanti”.
Il
caso di Colonia e il discorso sui violentatori arabi (che mira a
rafforzare ulteriormente le rappresentazioni colonialiste degli uomini
arabi come potenziali aggressori sessuali) ci ricorda l’importanza delle
teorie e delle pratiche femministe che si interrogano sulla
strumentalizzazione razzista “dei diritti delle donne” e mettono
l’accento sulla intersezionalità (2. ndt) delle lotte per la giustizia
sociale.
Negli
ultimi decenni, abbiamo assistito a quello che Nancy Fraser definisce
come “disaccoppiamento delle cosiddette «politiche identitarie» dalle
politiche di classe”, che si è trasformata in una lotta per il
riconoscimento, piuttosto che per la redistribuzione, con lo spostamento
del soggetto collettivo, verso un soggetto individuale. D’altra parte
tu difendi le “comunità della lotta”, quando consideri che “le comunità
sono sempre dei progetti politici”. Qual è la tua opinione sulle
politiche identitarie? Quali sono le lotte e i progetti politici che
sarebbero al centro dell’egemonia neoliberista attuale?
Ciò
che mi sembra più problematico nelle politiche identitarie, è il modo
in cui le identità sono spesso naturalizzate più che essere considerate
come un prodotto della lotta politica, slegandole in questo modo dalle
lotte di classe e dalla lotta antirazzista.
Il
movimento “trans”, per esempio, ha assunto recentemente una dimensione
importante nella lotta per la giustizia. Tuttavia, vi è una differenza
fondamentale tra le rappresentazioni dominanti delle questioni “trans”,
che tipicamente enfatizzano l’identità individuale e i movimenti “trans”
intersezionali, che considerano la razza e la classe come elementi
fondamentali delle lotte condotte dalle persone “trans”. Anziché mettere
a fuoco il diritto della persona ad “essere” se stessa o se stesso,
questi movimenti “trans” affrontano la violenza strutturale (della
polizia, delle prigioni, del sistema sanitario, del sistema della casa,
della disoccupazione, ecc.) che le donne “trans” nere hanno maggiore
probabilità di subire, più di qualsiasi altro gruppo sociale. In altre
parole, questi movimenti lottano per trasformazioni radicali nelle
nostre società, in opposizione alla semplice assimilazione di un fatto
stabilito.
Proseguiamo
sul tema dell’identità: in base a ciò che dici sull’intersezionalità,
capisco che sei maggiormente favorevole a una confluenza di lotte
(Ferguson, Palestina), piuttosto che a una combinazione di identità
differenti, diverse e molteplici. Questo, in un contesto in cui una
grande parte dei difensori delle politiche intersezionali afferma e
naturalizza le identità, invece di metterle in discussione e ignora il
contesto materiale e storico che le circonda. Come concepisci
l’intersezionalità e in quali termini diventa, secondo te, produttiva
oggi?
Il
concetto di intersezionalità, così come la intendo, ha una genealogia
particolarmente interessante che risale almeno alla fine degli anni ’60,
inizio anni ’70. Poiché non posso entrare ora nei dettagli, farò
soltanto un accenno rilevante: la creazione dell’organizzazione Black
Women’s Alliance , in risposta alla volontà di impegnarsi in un
dibattito sulle questioni di genere nell’ambito del Comitato per il
coordinamento non-violento degli studenti (SNCC Student Nonviolent
Coordinating Committee), principale organizzazione della gioventù del
Movimento per la Libertà del Sud.
Black
Women’s Alliance (Alleanza delle Donne Nere) ha sostenuto che era
impossibile comprendere il razzismo in tutta la sua complessità senza
aggiungere un’analisi sul sessismo. È per difendere questa tesi che nel
1970 Fran Beale scrisse l’articolo, ampiamente diffuso, “Double
Jeopardy: To Be Black and Female” (Doppia Penalizzazione: essere nera e
femmina) (3.ndt)
Poco
dopo la pubblicazione dell’articolo, mentre si prendeva coscienza delle
lotte delle donne portoricane contro la sterilizzazione forzata, Black
Women’s Alliance si trasformò in Third World Women’s Alliance e pubblicò
un giornale chiamato Triple Jeopardy (Tripla penalizzazione), in
riferimento al razzismo, al sessismo e all’imperialismo. Questo articolo
ha reso necessaria una militanza sul campo per lottare simultaneamente
contro il razzismo, la misoginia e la guerra imperialista.
È
con lo spirito di questi vecchi sforzi intellettuali organici che
tentavano di comprendere le categorie di razza, di genere e di classe
come elementi collegati, intrecciati, legati, che concepisco oggi i
concetti femministi di intersezionalità.
In
un ciclo di conferenze tenute di recente al CCCB (4.ndt), dal titolo
“La frontiera come centro. Zone di essere e non essere [migrazione e
colonialismo]“, la rappresentante del Partito degli Indigeni della
Repubblica di Houria Bouteldja, affermavano quanto segue: “Io non so chi
è bianco, ma la polizia francese lo sa perfettamente. Non si lascia
fuorviare mai al momento di decidere su chi far cadere discriminazione e
violenza”. Parallelamente, Itziar Ziga, femminista basca, in
un’intervista ad Argia, diceva di sé stessa “io sono una donna, perché
essendo tale ho subito violenza fisica, affettiva, economica e
simbolica… Affermo di essere una donna, ma non a causa di ciò che ho tra
le gambe”. Nei due casi, l’argomento si definisce politicamente con
l’oppressione e dunque, la lotta. In questo senso, che cosa è per te
essere donna e che cosa è essere nera?
Entrambe
le categorie sono state estese e diffuse al di là di quello che avrei
potuto immaginare prima nella mia vita. Quindi, se pretendessi di
aggrapparmi alle definizioni storiche, continuerei a sentirmi obbligata a
basarmi su definizioni politiche di genere e di razza in ogni caso, sia
dal punto di vista delle strutture di dominio e delle sue ideologie
associate, che dal punto di vista dei movimenti collettivi che cercano
di smantellare tali strutture e combattere queste ideologie.
Allo
stesso tempo, ho sempre insistito sulla priorità della pratica radicale
al di là dell’identità pura e semplice. Ciò che si fa per facilitare la
trasformazione radicale è più importante di ciò che l’immaginario ha di
sé e di ciò che si è. E, ovviamente, come ho già indicato, le categorie
di razza e di genere, come la sessualità e la classe, sono
significative soltanto in correlazioni più complesse.
In
relazione alla politica statunitense, hai sottolineato “la sfida di
complicare il discorso”, dato che “la semplificazione della retorica
politica facilita l’adozione di posizioni estremiste”. In questi ultimi
anni, in Europa, siamo stati testimoni della nascita pretestuosa della
“nuova politica” che si oppone “a quelli in cima” e il cui scopo è
quello di realizzare una “rivoluzione democratica” tramite la
“rivoluzione dei sorrisi”. Che cosa si intende per democrazia, in
quest’epoca di populismo depoliticizzante e lacune significative?
È
vero che noi che siamo a sinistra negli Stati Uniti (ma è il caso anche
di alcuni circoli conservatori) viviamo con stupore l’aumento in
potenza di Donald Trump e l’espansione della sua influenza. Questa
approfitta del fatto che settori chiave delle comunità della classe
operaia bianca sono attratti da questa retorica politica semplicistica,
estremista e di inclinazione fascista. Questo vale anche per
l’attrazione pericolosa verso personaggi e partiti di estrema destra in
Austria, Francia, Polonia e altrove in Europa, dove la combinazione di
una recessione economica e di una crisi dei profughi ha attivato il
populismo di estrema destra su un fondo di razzismo anti-nero e
anti-immigrato. Questa stessa combinazione è servita a riattivare
l’islamofobia, offrendo nuovi spettacoli al razzismo secolare.
Non
sarà possibile affrontare il populismo di estrema destra e creare un
dialogo su orizzonti democratici – approcci sostanziali e trasformatori
che muovono l’obiettivo politico dalla rappresentazione neoliberista
dell’individuo alle necessità e le aspirazioni delle comunità – se non
siamo capaci di strutturare potenti movimenti contro il razzismo e la
xenofobia in tutto il mondo.
Interrogata
a proposito della tua posizione riguardo alle elezioni presidenziali
negli Stati Uniti, hai recentemente evocato “che ci occorre un nuovo
partito”. Per quale ragione? A quale tipo di partito pensi? Come vecchia
candidata alla vicepresidenza del Partito Comunista degli Stati Uniti,
come questo nuovo partito dovrebbe somigliarvi e come differenziarsene?
Quanto al programma, consideri che i 10 punti del Partito delle Black
Panthers continuino a essere d’attualità? Quale sarebbe la base
elettorale di questo nuovo partito?
La
politica elettorale statunitense è da numerosi anni ostaggio del
sistema bipartitico. Che sia il Partito Democratico o il Partito
Repubblicano, tutti e due sono totalmente collegati al capitalismo. Ci
occorre una struttura politica alternativa che non capitoli dinanzi alle
imprese, ma che al contrario rappresenti in primo luogo le necessità
dei lavoratori, dei poveri e delle differenti razze.
Ciò
è evidente da molti cicli elettorali e quando molti anni fa ho preso
parte direttamente alla politica elettorale come candidata alla
vicepresidenza dal Partito Comunista, l’ho fatto per rendere visibile
questa necessità di dichiararsi indipendenti dal sistema bipartitico.
Riguardo
alla risposta ottenuta da Bernie Sanders, è diventato chiaro che un
numero considerevole di persone desidera un’alternativa al capitalismo.
Sempre più persone stanno pensando seriamente alla necessità di un
partito che rappresenti la classe operaia, i movimenti antirazzisti,
femministi e LGBTQ, le rivendicazioni contro la guerra e la giustizia
ambientale.
Per
quanto riguarda il Black Panther Party, è chiaro che il suo programma
in 10 punti è profondamente radicato nelle condizioni storiche della
metà del XX secolo e tuttavia ogni punto rimane ancora così molto legato
alle lotte radicali contemporanee.
Le
Black Panthers furono pioniere con la loro politica di “womanism”
(5.ndt) che metteva allo stesso livello la lotta di classe e la lotta
razziale. Sosteneva il diritto all’aborto, organizzava l’assistenza ai
bambini nel corso delle riunioni e sosteneva il modello tradizionale
africano della famiglia allargata in opposizione alla famiglia borghese e
nucleare. Inoltre il giornale del partito era diretto da donne e il 70%
dei militanti erano donne. A parte il fatto che molti degli uomini
erano in prigione o erano stati assassinati, come si sono potuti
raggiungere questi risultati? Quali lezioni potrebbero trarre i
movimenti di liberazione e specialmente le femministe, dall’esperienza
del Partito delle Black Panthers?
In
realtà, non dovremmo essere eccessivamente sorpresi di apprendere che
la maggioranza dei militanti delle Black Panthers fossero donne, nello
stesso modo in cui non è sorprendente che le donne abbiano svolto un
ruolo fondamentale nell’ambito del Movimento per la Libertà del Sud
degli Stati Uniti. Ciò che è veramente sorprendente è che mezzo secolo
dopo noi continuiamo ad essere prigionieri delle visioni storicamente
obsolete di una direzione carismatica maschile.
Storicamente,
i paradigmi associati alla leadership femminile – da Ella Baker (6.ndt)
a Erika Huggins (7.ndt) – tendono a mettere l’accento sulla leadership
collettiva al di là dell’individuale. La gioventù dei movimenti radicali
attuali sta cercando di dare priorità alla leadership delle donne, alla
leadership queer e a quella delle collettività
Siccome
sei stata studente di Marcuse, vorrei farti una domanda, che egli
stesso poneva nel suo libro “An Essay on Liberation” [Un saggio sulla
liberazione]: “come può [l'individuo] soddisfare le sue necessità, senza
tuttavia [ ...] riprodurre, attraverso le sue aspirazioni e le sue
soddisfazioni, la sua dipendenza da un sistema di sfruttamento che,
quando soddisfa le sue necessità, perpetua la sua schiavitù?”. In altri
termini, come possiamo liberarci dalla mercificazione dei nostri
sentimenti?
Oggi,
non sono più sicura che sia possibile evitare completamente le
conseguenze del desiderio mercantile poiché questo è diventato la natura
del desiderio contemporaneo; il capitalismo ha invaso così in larga
misura la nostra vita interiore che troviamo estremamente difficile
separarcene. Tuttavia, credo ancora alla tradizione filosofica di
Marcuse quando affermo che dovremmo cercare di sviluppare una
consapevolezza critica dei modi in cui, in parte, siamo coinvolti nella
riproduzione del capitalismo stesso, attraverso la mercificazione dei
nostri sentimenti. E’ attraverso questo tipo di riflessioni negative che
possiamo cominciare a immaginare le possibilità di liberazione.
Durante
la tua visita nei Paesi Baschi abbiamo discusso sull’importanza
dell’arte e della letteratura come sfere che permettono di estendere i
limiti dell’intelligibile, di smontare i paradigmi del senso comune
egemonico, di affrontare la camicia di forza della probabilità, di
mettere a terra il monopolio della realtà e tradurre, dare, formare e
mettere in pratica le nostre nozioni politiche. Come si concretizza
tutto questo?
Ora
(e specialmente ora) che la possibilità di liberazione sembra essere
messa in disparte da queste stesse lotte politiche che pretendono di
mostrarci la via verso futuri migliori, possiamo approfittare di ciò che
Marcuse definiva “la dimensione estetica” e Robin Kelley “sogni di
libertà” o “immaginazione radicale”.
Ciò
che l’onnipotenza capitalista ha completamente soffocato, è la nostra
capacità collettiva di immaginare una vita che non sia sotto il giogo
della merce. È per questo che abbiamo bisogno dell’arte, della
letteratura, della musica e di altre pratiche culturali allo scopo di
istruire la nostra immaginazione in modo che si affranchi delle
costrizioni della privatizzazione.
Durante
questa visita a Bilbao, è stato organizzato un concerto in tuo omaggio
durante il quale hai citato una canzone molto bella di Nina Simone dal
titolo “I Wish I Knew How It Would Be To Be Fre” (amerei sapere ciò che è
sentirsi libera) e che dice: “I wish I could break all the chains
holdin’ me, I wish I could say all the things that I should say, say ‘em
loud, say ‘em clear for the whole ’round world to hear” [Vorrei poter
rompere le catene che mi trattengono, vorrei poter dire tutto quello che
ho da dire, dire tutto ad alta voce, perché tutti lo intendano]. Che
cosa significa essere liberi per te e quali sono le catene che si devono
rompere?
Ho
evocato questa canzone di Nina Simone, non per lasciare intendere che
mezzo secolo dopo ho finalmente una risposta definitiva alla domanda
sottostante all’aspirazione di sapere ciò che è sentirsi liberi, ma
piuttosto perché continuassimo a determinarci per questo desiderio di
chiamare e di sperimentare la libertà.
Negli
Stati Uniti, quest’obiettivo è al giorno d’oggi molto difficile da
raggiungere rispetto alla metà del XX secolo. Infatti, sembra che, più
ci si avvicina a ciò che si era inizialmente immaginato come “libertà”,
più ci rendiamo conto che si tratta di qualcosa di ben più complicato,
di ben più vasto…
NdT:
1)
enclosures: termine che fa riferimento alle recinzioni dei terreni
comuni (demaniali) erette in Inghilterra tra il XVII e il XXI secolo a
favore dei proprietari terrieri della borghesia mercantile
2)
concetto di intersezionalità, da Il significato della supremazia bianca
oggi. Racconto della conferenza di Angela Davis -16 marzo, 2016 –
militant-blog: “In questo periodo, negli Usa, c’è una nuova attenzione
all’opposizione all’incarcerazione di massa nei movimenti antirazzisti,
soprattutto tra i giovani neri, tra le donne nere e le queer nere. Allo
stesso modo, sempre più spesso si chiedono cambiamenti nel sistema
dell’istruzione: all’Università del Missouri, gli studenti hanno
ottenuto le dimissioni del preside che non aveva voluto condannare
pubblicamente alcuni episodi di razzismo nel campus. Questi movimenti
riconoscono la necessità di una intersezione delle lotte. Emblematica è
l’assenza, in questi movimenti, della tradizionale leadership nera
carismatica, riconosciuta e maschile, in nome di una leadership
collettiva e prevalentemente femminile: il movimento BLM, ad esempio, è
stato fondato da tre donne nere, Patrisse Cullors, Opal Tometi e Alicia
Garza. Non si tratta di un movimento leaderless (senza leader), ma di un
movimento leader-full (pieno di leader): si è così assistito alla
valorizzazione di donne nere, queer, ecc. non per motivi identitari, ma
perché ciò aiuta a superare la cornice assimilazionista. In questi
movimenti, il femminismo assume un valore molto importante: esiste,
infatti, uno stretto legame tra la lotta anticapitalista, la lotta
antirazzista e la lotta contro la violenza di genere e per l’uguaglianza
di genere. Il concetto di intersezione, sulla cui elaborazione ha
contribuito il femminismo, ha un valore molto importante: Davis fa
riferimento alla necessità di una intersezione delle lotte, in cui
quella contro la violenza di genere si unisca a quella contro la
violenza dello Stato, contro gli abusi della polizia e contro i corpi
delle donne. Tutti i nuovi movimenti antirazzisti riconoscono
l’importanza del femminismo anticapitalista e antirazzista, come
riconoscono il legame dell razzismo con lo sviluppo del capitalismo e
con l’attacco al lavoro. È significativo che mentre negli anni ’70,
quando solo 200mila persone erano imprigionate, un lavoratore su tre era
membro di un sindacato, mentre oggi – che ci sono 2,5 milioni di
detenuti e 7 milioni sotto libertà vigilata – solo 1 su 10 lo è. La
cornice dell’intersezione fa comprendere che la lotta contro il razzismo
e per la giustizia negli Usa è la stessa lotta per la giustizia in
Palestina: secondo Davis, la lotta per la Palestina ha oggi lo stesso
valore di quella contro il razzismo in Sud Africa.”
3) Centre de Cultura Contemporània de Barcelona
4)
Womanism (definizione tratta da VociGlobali.it ): è il termine coniato
dalla scrittrice afro-americana Alice Walker, autrice del celebre “Il
colore viola” da cui è stato tratto un famoso film, per affermare l’idea
e la necessità di un cambiamento di mentalità che tenesse conto delle
difficoltà e delle esperienze specifiche delle donne nere e delle
minoranze. “Womanist is to feminist as purple is to lavender” (Womanist
sta al femminismo come il viola sta alla lavanda), diceva, mettendo
insieme in questo concetto e nel nuovo termine coniato, femminilità,
negritudine e razzismo. Il femminismo, infatti, in Africa e nella
comunità femminile afro-americana è stato sempre associato alla cultura
occidentale, alla donna bianca che spesso – prima di essere femminista –
era razzista proprio come gli altri. Una womanist ama le donne, la loro
cultura, ma ama anche gli uomini e fare bambini, combatte il razzismo,
odia i separatismi. È questo desiderio di esprimere la propria
dimensione unica e diversa, che nel tempo ha fatto nascere movimenti
femminili africani in grado di portare il proprio personale contributo
alla cosiddetta emancipazione. Un’emancipazione di genere ma quasi mai
avulsa dall’emancipazione politica del post-colonialismo, da cui
nasceva, già negli anni Settanta, il post-colonialismo femminista,
laddove appunto il femminismo sembrava focalizzarsi solo sulle
problematiche e le esperienze delle donne occidentali. Un’emancipazione
che rivendicava anche la conservazione di propri valori e della cultura
indigena, riconoscendosi nell’Africana womanism. E, ancora, il Black
feminism legato al ruolo delle donne nel movimento dell’indipendenza,
del nazionalismo nero, della liberazione gay. Ma anche il forte
contributo dato dai movimenti sociali ed ecologisti.
5) Ella Baker, breve profilo da wikipedia.org
6)
Ericka Huggins – Tratto dal sito omonimo erickahuggins.com :
“Attualmente è professoressa di Sociologia e Studi Afro Americani alla
Peralta Community College District. Il desiderio di Ericka di servire
l’umanità ha avuto inizio nel 1963, quando ha partecipato alla Marcia su
Washington per il lavoro e la libertà. Lì, ha iniziato a muoversi fino
alla prima linea nel movimento globale dei diritti umani. Nel 1968,
all’età di 18 anni, è diventata un leader nel capitolo di Los Angeles
del Black Panther Party con il marito John Huggins. Tre settimane dopo
la nascita della loro figlia, John Huggins è stato ucciso. Nel maggio
del 1969, Ericka e il compagno leader del Partito Bobby Seale sono stati
presi di mira e arrestati con l’accusa di cospirazione. Restò in
carcere in attesa del processo due anni.”
Articolo originale: http://espaifabrica.cat/index.php/lesquerra-avui/item/1039-sempre-he-insistit-en-la-prioritat-de-la-pr%C3%A0ctica-radical-per-sobre-de-la-identitat-pura-i-simple
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
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