domenica 16 ottobre 2016

Angela Davis: “Ci occorre una struttura politica alternativa che non capitoli dinanzi alle imprese”.

Angela Davis: “Ci occorre una struttura politica alternativa che non capitoli dinanzi alle imprese”In quest’intervista di Maria Colera Intxausti per Espai Fabrica, la compagna Angela Davis affronta il peso del complesso industriale carcerario nell’ambito delle società capitaliste, insieme al ruolo dell’ideologia razzista e coloniale come fonte delle attuali discriminazioni.


espaifabrica.cat Traduzione per Resistenze.org 
 
Nel saggio «Are prisons obsolete?» (2003, in italiano Aboliamo le prigioni? 2009), parli della carcerazione di massa della povera gente e dei migranti illegali. Il capitalismo considera queste persone come argomenti superflui da trattare, ma allo stesso modo le utilizza come manodopera a basso costo e le trasforma in consumatori prigionieri dell’eccedenza di produzione, quella stessa eccedenza che è all’origine di una crisi economica che a sua volta genera povertà e migrazione, chiudendo così il cerchio. Percepisci un parallelismo tra queste politiche di reclusione e il processo iniziato durante la transizione dal feudalesimo al capitalismo, dove milioni di persone sono state espulse dalle terre che assicuravano a loro i mezzi di riproduzione e che sono state costrette alla schiavitù salariata?
  
Ci sono certamente dei parallelismi e delle similitudini tra le due epoche, ma ciò che è più importante da notare è che ci sono differenze considerevoli tra loro. Nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo, così come Marx lo ha descritto, le enclosures (1.ndt) e altri processi di espropriazione, privarono i popoli di queste terre che costituivano il mezzo di sussistenza e allo stesso tempo generarono una classe di persone a cui non restava altro che la propria forza lavoro. Queste persone sono diventate allora la manodopera necessaria affinché il capitalismo nascente moltiplicasse la sua ricchezza. Quelle persone furono infatti liberate dai vincoli del feudalesimo, ma sono state costrette a passare da una forma di oppressione ad un altra.
 Se è vero che spesso si rivela inutile fare una classificazione delle varie forme di oppressione, si può comunque affermare che, malgrado la dipendenza totale e assoluta del capitalismo dallo sfruttamento, il fatto di lasciare alle spalle la schiavitù e il fatto di superarla come avvenne nel feudalesimo, costituì un progresso certo. Almeno alcuni lavoratori ebbero accesso al lavoro, sebbene questo fosse e continui ad essere degradante.

 D’altra parte, il complesso industriale carcerario e globale è certamente più proficuo. Tuttavia, la sua redditività risiede nelle tecnologie destinate a relegare una grande massa di popolazione a vite marginali, improduttive e cariche di violenza. La reclusione massiccia negli Stati Uniti, in Australia, o anche in Europa di cittadini di colore o immigrati, che si regge sulla persistenza di un razzismo e di una xenofobia strutturali, è la prova del fallimento assoluto del capitalismo globale a fare fronte alle necessità degli individui nel mondo.
 Si potrebbe parallelamente considerare che rappresenta anche la prova più convincente della necessità di progettare un sistema socio-economico oltre il capitalismo. In questa speranza, il movimento abolizionista contemporaneo, attraverso il suo appello a smantellare il complesso industriale carcerario, si presenta come un movimento anticapitalista che esige uguaglianza razziale, posti di lavoro con salari debitamente remunerati, alloggi accessibili, assistenza sanitaria e istruzione gratuita e una giustizia ambientale per tutti gli esseri viventi.
 Tu difendi la giustizia restaurativa, piuttosto che quella punitiva. Come fare scomparire le diseguaglianze e l’ingiustizia derivate dal processo d’accumulazione primitiva che è alla base del capitalismo? In altre parole, quali sarebbero le forme di una giustizia restaurativa destinata a riparare il “peccato originale” di accumulazione e di sfruttamento dal quale derivano le disuguaglianze di redistribuzione nelle nostre società?
 E’ vero, ho spesso usato il termine “giustizia restaurativa” insieme ad altri, come ad esempio “giustizia riparatrice” e anche “giustizia trasformativa” come alternative alla giustizia punitiva o vendicativa. In assoluto preferisco il termine “giustizia trasformativa”, poiché non suppone l’esistenza di uno stato ideale che occorre restaurare.
 Per rispondere alla tua domanda, amo sottolineare l’importanza della memoria storica nel nostro contesto attuale, che ha bisogno di un’analisi esplicitamente anticapitalista. “L’accumulazione originaria del capitale” è uno dei passaggi più importanti del Capitale, precisamente perché mette in luce l’espropriazione, l’ingiustizia e la violenza che segnano gli inizi del capitalismo e rimane, nonostante le apparenze, al centro del processo capitalista.
 A fine del ventesimo secolo, il complesso industriale carcerario comincia a rivelare la misura in cui le società capitalistiche sono ancora basate su ideologie coloniali e razziste quando si tratta di sviluppare tecnologie di violenza. In questo modo continua la violenza secolare della schiavitù e della colonizzazione.
 Hai parlato dei riflessi automatici con i quali si risponde al crimine e al delitto cercando rifugio presso le istituzioni giuridiche e poliziesche, anziché immaginare soluzioni che provengano dall’interno della comunità. Nel caso della violenza sessuale, tu sostieni l’auto-difesa, che ci porta al tema delle donne e la violenza. In “Are prisons obsolete?” parli della “necessità di rimettere in questione il preconcetto secondo il quale la sola relazione possibile tra le donne e la violenza suppone che le donne siano le vittime” Cos’è secondo te l’autodifesa femminista?
 Ho sempre scelto accuratamente il modo in cui usavo il termine “violenza”. Come studiosa della teoria critica, ho sempre ricordato a me stessa che gli strumenti concettuali che decido di prendere in prestito possono in realtà contravvenire a quello che intendo esprimere. E’ per questo che cerco di non associare “autodifesa” e “violenza contro l’aggressore”. Del resto, la formazione in autodifesa che sostengo, si iscrive in un contesto più ampio: si basa su un’analisi che collega la violenza misogina ai sistemi della sovranità razziale, di genere e di classe, in una strategia che pretende di purgare le nostre società da qualsiasi forma di sfruttamento e di violenza.
 In “Women, Race and Class” (1983) decostruisci il mito dello stupratore nero e spieghi che “fu un’invenzione chiaramente politica”. Una propaganda elaborata al fine di giustificare e perpetuare i linciaggi, un metodo di “contro-insurrezione” con lo scopo di evitare che i neri prendessero possesso dei loro diritti. Abbiamo assistito allo svolgimento di questo stesso mito, ancora oggi, a Colonia alla fine dell’anno: in questo caso sono stati presi di mira gli uomini “di aspetto arabo o nordafricano” in un nuovo esempio di “purple washing” o l’uso di una presunta difesa delle donne per criminalizzare i richiedenti asilo e i residenti illegali, in modo che passi il messaggio “le nostre donne possono essere violentate solo da noi”. Come interpreti l’utilizzo dei diritti delle donne (velo, stupratore nero, oppressione delle donne afgane…) per impegnarsi in altre crociate?
 Nel libro “Arrested Justice: Black Women, Violence, and America’s Prison Nation” (2012), Beth Richie rivela il pericolo di fidarsi della tecnologia della violenza come soluzione ai problemi della violenza di genere. La sua tesi è che è che il movimento anti-violenza predominante negli Stati Uniti abbia operato una virata pericolosamente orientata quando ha cominciato a sostenere la repressione della polizia e la reclusione come strategie principali per la protezione “delle donne” riguardo alla violenza maschile. Era facilmente prevedibile che questi sforzi di protezione avrebbero focalizzato l’attenzione in particolare sugli uomini delle comunità già sottoposti alla ipervigilanza della polizia, gli stessi che contribuiscono in modo sproporzionato all’aumento della popolazione penitenziaria.
 In realtà, la generalizzazione del concetto “donna” nascondeva tutta una razzializzazione clandestina all’interno della categoria. In questo modo, “le donne” diventavano in realtà “le donne bianche” o ancora più specificatamente “le donne bianche benestanti”.
 Il caso di Colonia e il discorso sui violentatori arabi (che mira a rafforzare ulteriormente le rappresentazioni colonialiste degli uomini arabi come potenziali aggressori sessuali) ci ricorda l’importanza delle teorie e delle pratiche femministe che si interrogano sulla strumentalizzazione razzista “dei diritti delle donne” e mettono l’accento sulla intersezionalità (2. ndt) delle lotte per la giustizia sociale.
 Negli ultimi decenni, abbiamo assistito a quello che Nancy Fraser definisce come “disaccoppiamento delle cosiddette «politiche identitarie» dalle politiche di classe”, che si è trasformata in una lotta per il riconoscimento, piuttosto che per la redistribuzione, con lo spostamento del soggetto collettivo, verso un soggetto individuale. D’altra parte tu difendi le “comunità della lotta”, quando consideri che “le comunità sono sempre dei progetti politici”. Qual è la tua opinione sulle politiche identitarie? Quali sono le lotte e i progetti politici che sarebbero al centro dell’egemonia neoliberista attuale?
 Ciò che mi sembra più problematico nelle politiche identitarie, è il modo in cui le identità sono spesso naturalizzate più che essere considerate come un prodotto della lotta politica, slegandole in questo modo dalle lotte di classe e dalla lotta antirazzista.
 Il movimento “trans”, per esempio, ha assunto recentemente una dimensione importante nella lotta per la giustizia. Tuttavia, vi è una differenza fondamentale tra le rappresentazioni dominanti delle questioni “trans”, che tipicamente enfatizzano l’identità individuale e i movimenti “trans” intersezionali, che considerano la razza e la classe come elementi fondamentali delle lotte condotte dalle persone “trans”. Anziché mettere a fuoco il diritto della persona ad “essere” se stessa o se stesso, questi movimenti “trans” affrontano la violenza strutturale (della polizia, delle prigioni, del sistema sanitario, del sistema della casa, della disoccupazione, ecc.) che le donne “trans” nere hanno maggiore probabilità di subire, più di qualsiasi altro gruppo sociale. In altre parole, questi movimenti lottano per trasformazioni radicali nelle nostre società, in opposizione alla semplice assimilazione di un fatto stabilito.

Proseguiamo sul tema dell’identità: in base a ciò che dici sull’intersezionalità, capisco che sei maggiormente favorevole a una confluenza di lotte (Ferguson, Palestina), piuttosto che a una combinazione di identità differenti, diverse e molteplici. Questo, in un contesto in cui una grande parte dei difensori delle politiche intersezionali afferma e naturalizza le identità, invece di metterle in discussione e ignora il contesto materiale e storico che le circonda. Come concepisci l’intersezionalità e in quali termini diventa, secondo te, produttiva oggi?
 Il concetto di intersezionalità, così come la intendo, ha una genealogia particolarmente interessante che risale almeno alla fine degli anni ’60, inizio anni ’70. Poiché non posso entrare ora nei dettagli, farò soltanto un accenno rilevante: la creazione dell’organizzazione Black Women’s Alliance , in risposta alla volontà di impegnarsi in un dibattito sulle questioni di genere nell’ambito del Comitato per il coordinamento non-violento degli studenti (SNCC Student Nonviolent Coordinating Committee), principale organizzazione della gioventù del Movimento per la Libertà del Sud.
 Black Women’s Alliance (Alleanza delle Donne Nere) ha sostenuto che era impossibile comprendere il razzismo in tutta la sua complessità senza aggiungere un’analisi sul sessismo. È per difendere questa tesi che nel 1970 Fran Beale scrisse l’articolo, ampiamente diffuso, “Double Jeopardy: To Be Black and Female” (Doppia Penalizzazione: essere nera e femmina) (3.ndt)
 Poco dopo la pubblicazione dell’articolo, mentre si prendeva coscienza delle lotte delle donne portoricane contro la sterilizzazione forzata, Black Women’s Alliance si trasformò in Third World Women’s Alliance e pubblicò un giornale chiamato Triple Jeopardy (Tripla penalizzazione), in riferimento al razzismo, al sessismo e all’imperialismo. Questo articolo ha reso necessaria una militanza sul campo per lottare simultaneamente contro il razzismo, la misoginia e la guerra imperialista.
 È con lo spirito di questi vecchi sforzi intellettuali organici che tentavano di comprendere le categorie di razza, di genere e di classe come elementi collegati, intrecciati, legati, che concepisco oggi i concetti femministi di intersezionalità.
 In un ciclo di conferenze tenute di recente al CCCB (4.ndt), dal titolo “La frontiera come centro. Zone di essere e non essere [migrazione e colonialismo]“, la rappresentante del Partito degli Indigeni della Repubblica di Houria Bouteldja, affermavano quanto segue: “Io non so chi è bianco, ma la polizia francese lo sa perfettamente. Non si lascia fuorviare mai al momento di decidere su chi far cadere discriminazione e violenza”. Parallelamente, Itziar Ziga, femminista basca, in un’intervista ad Argia, diceva di sé stessa “io sono una donna, perché essendo tale ho subito violenza fisica, affettiva, economica e simbolica… Affermo di essere una donna, ma non a causa di ciò che ho tra le gambe”. Nei due casi, l’argomento si definisce politicamente con l’oppressione e dunque, la lotta. In questo senso, che cosa è per te essere donna e che cosa è essere nera?
 Entrambe le categorie sono state estese e diffuse al di là di quello che avrei potuto immaginare prima nella mia vita. Quindi, se pretendessi di aggrapparmi alle definizioni storiche, continuerei a sentirmi obbligata a basarmi su definizioni politiche di genere e di razza in ogni caso, sia dal punto di vista delle strutture di dominio e delle sue ideologie associate, che dal punto di vista dei movimenti collettivi che cercano di smantellare tali strutture e combattere queste ideologie.
angela davis1 Allo stesso tempo, ho sempre insistito sulla priorità della pratica radicale al di là dell’identità pura e semplice. Ciò che si fa per facilitare la trasformazione radicale è più importante di ciò che l’immaginario ha di sé e di ciò che si è. E, ovviamente, come ho già indicato, le categorie di razza e di genere, come la sessualità e la classe, sono significative soltanto in correlazioni più complesse.

 In relazione alla politica statunitense, hai sottolineato “la sfida di complicare il discorso”, dato che “la semplificazione della retorica politica facilita l’adozione di posizioni estremiste”. In questi ultimi anni, in Europa, siamo stati testimoni della nascita pretestuosa della “nuova politica” che si oppone “a quelli in cima” e il cui scopo è quello di realizzare una “rivoluzione democratica” tramite la “rivoluzione dei sorrisi”. Che cosa si intende per democrazia, in quest’epoca di populismo depoliticizzante e lacune significative?
 È vero che noi che siamo a sinistra negli Stati Uniti (ma è il caso anche di alcuni circoli conservatori) viviamo con stupore l’aumento in potenza di Donald Trump e l’espansione della sua influenza. Questa approfitta del fatto che settori chiave delle comunità della classe operaia bianca sono attratti da questa retorica politica semplicistica, estremista e di inclinazione fascista. Questo vale anche per l’attrazione pericolosa verso personaggi e partiti di estrema destra in Austria, Francia, Polonia e altrove in Europa, dove la combinazione di una recessione economica e di una crisi dei profughi ha attivato il populismo di estrema destra su un fondo di razzismo anti-nero e anti-immigrato. Questa stessa combinazione è servita a riattivare l’islamofobia, offrendo nuovi spettacoli al razzismo secolare.
 Non sarà possibile affrontare il populismo di estrema destra e creare un dialogo su orizzonti democratici – approcci sostanziali e trasformatori che muovono l’obiettivo politico dalla rappresentazione neoliberista dell’individuo alle necessità e le aspirazioni delle comunità – se non siamo capaci di strutturare potenti movimenti contro il razzismo e la xenofobia in tutto il mondo.
 Interrogata a proposito della tua posizione riguardo alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, hai recentemente evocato “che ci occorre un nuovo partito”. Per quale ragione? A quale tipo di partito pensi? Come vecchia candidata alla vicepresidenza del Partito Comunista degli Stati Uniti, come questo nuovo partito dovrebbe somigliarvi e come differenziarsene? Quanto al programma, consideri che i 10 punti del Partito delle Black Panthers continuino a essere d’attualità? Quale sarebbe la base elettorale di questo nuovo partito?
 La politica elettorale statunitense è da numerosi anni ostaggio del sistema bipartitico. Che sia il Partito Democratico o il Partito Repubblicano, tutti e due sono totalmente collegati al capitalismo. Ci occorre una struttura politica alternativa che non capitoli dinanzi alle imprese, ma che al contrario rappresenti in primo luogo le necessità dei lavoratori, dei poveri e delle differenti razze.
 Ciò è evidente da molti cicli elettorali e quando molti anni fa ho preso parte direttamente alla politica elettorale come candidata alla vicepresidenza dal Partito Comunista, l’ho fatto per rendere visibile questa necessità di dichiararsi indipendenti dal sistema bipartitico.
 Riguardo alla risposta ottenuta da Bernie Sanders, è diventato chiaro che un numero considerevole di persone desidera un’alternativa al capitalismo. Sempre più persone stanno pensando seriamente alla necessità di un partito che rappresenti la classe operaia, i movimenti antirazzisti, femministi e LGBTQ, le rivendicazioni contro la guerra e la giustizia ambientale.
 Per quanto riguarda il Black Panther Party, è chiaro che il suo programma in 10 punti è profondamente radicato nelle condizioni storiche della metà del XX secolo e tuttavia ogni punto rimane ancora così molto legato alle lotte radicali contemporanee.
 Le Black Panthers furono pioniere con la loro politica di “womanism” (5.ndt) che metteva allo stesso livello la lotta di classe e la lotta razziale. Sosteneva il diritto all’aborto, organizzava l’assistenza ai bambini nel corso delle riunioni e sosteneva il modello tradizionale africano della famiglia allargata in opposizione alla famiglia borghese e nucleare. Inoltre il giornale del partito era diretto da donne e il 70% dei militanti erano donne. A parte il fatto che molti degli uomini erano in prigione o erano stati assassinati, come si sono potuti raggiungere questi risultati? Quali lezioni potrebbero trarre i movimenti di liberazione e specialmente le femministe, dall’esperienza del Partito delle Black Panthers?
 In realtà, non dovremmo essere eccessivamente sorpresi di apprendere che la maggioranza dei militanti delle Black Panthers fossero donne, nello stesso modo in cui non è sorprendente che le donne abbiano svolto un ruolo fondamentale nell’ambito del Movimento per la Libertà del Sud degli Stati Uniti. Ciò che è veramente sorprendente è che mezzo secolo dopo noi continuiamo ad essere prigionieri delle visioni storicamente obsolete di una direzione carismatica maschile.
 Storicamente, i paradigmi associati alla leadership femminile – da Ella Baker (6.ndt) a Erika Huggins (7.ndt) – tendono a mettere l’accento sulla leadership collettiva al di là dell’individuale. La gioventù dei movimenti radicali attuali sta cercando di dare priorità alla leadership delle donne, alla leadership queer e a quella delle collettività
 Siccome sei stata studente di Marcuse, vorrei farti una domanda, che egli stesso poneva nel suo libro “An Essay on Liberation” [Un saggio sulla liberazione]: “come può [l'individuo] soddisfare le sue necessità, senza tuttavia [ ...] riprodurre, attraverso le sue aspirazioni e le sue soddisfazioni, la sua dipendenza da un sistema di sfruttamento che, quando soddisfa le sue necessità, perpetua la sua schiavitù?”. In altri termini, come possiamo liberarci dalla mercificazione dei nostri sentimenti?
 Oggi, non sono più sicura che sia possibile evitare completamente le conseguenze del desiderio mercantile poiché questo è diventato la natura del desiderio contemporaneo; il capitalismo ha invaso così in larga misura la nostra vita interiore che troviamo estremamente difficile separarcene. Tuttavia, credo ancora alla tradizione filosofica di Marcuse quando affermo che dovremmo cercare di sviluppare una consapevolezza critica dei modi in cui, in parte, siamo coinvolti nella riproduzione del capitalismo stesso, attraverso la mercificazione dei nostri sentimenti. E’ attraverso questo tipo di riflessioni negative che possiamo cominciare a immaginare le possibilità di liberazione.
 Durante la tua visita nei Paesi Baschi abbiamo discusso sull’importanza dell’arte e della letteratura come sfere che permettono di estendere i limiti dell’intelligibile, di smontare i paradigmi del senso comune egemonico, di affrontare la camicia di forza della probabilità, di mettere a terra il monopolio della realtà e tradurre, dare, formare e mettere in pratica le nostre nozioni politiche. Come si concretizza tutto questo?
 Ora (e specialmente ora) che la possibilità di liberazione sembra essere messa in disparte da queste stesse lotte politiche che pretendono di mostrarci la via verso futuri migliori, possiamo approfittare di ciò che Marcuse definiva “la dimensione estetica” e Robin Kelley “sogni di libertà” o “immaginazione radicale”.
 Ciò che l’onnipotenza capitalista ha completamente soffocato, è la nostra capacità collettiva di immaginare una vita che non sia sotto il giogo della merce. È per questo che abbiamo bisogno dell’arte, della letteratura, della musica e di altre pratiche culturali allo scopo di istruire la nostra immaginazione in modo che si affranchi delle costrizioni della privatizzazione.
 Durante questa visita a Bilbao, è stato organizzato un concerto in tuo omaggio durante il quale hai citato una canzone molto bella di Nina Simone dal titolo “I Wish I Knew How It Would Be To Be Fre” (amerei sapere ciò che è sentirsi libera) e che dice: “I wish I could break all the chains holdin’ me, I wish I could say all the things that I should say, say ‘em loud, say ‘em clear for the whole ’round world to hear” [Vorrei poter rompere le catene che mi trattengono, vorrei poter dire tutto quello che ho da dire, dire tutto ad alta voce, perché tutti lo intendano]. Che cosa significa essere liberi per te e quali sono le catene che si devono rompere?
 Ho evocato questa canzone di Nina Simone, non per lasciare intendere che mezzo secolo dopo ho finalmente una risposta definitiva alla domanda sottostante all’aspirazione di sapere ciò che è sentirsi liberi, ma piuttosto perché continuassimo a determinarci per questo desiderio di chiamare e di sperimentare la libertà.
 Negli Stati Uniti, quest’obiettivo è al giorno d’oggi molto difficile da raggiungere rispetto alla metà del XX secolo. Infatti, sembra che, più ci si avvicina a ciò che si era inizialmente immaginato come “libertà”, più ci rendiamo conto che si tratta di qualcosa di ben più complicato, di ben più vasto…

NdT:
1) enclosures: termine che fa riferimento alle recinzioni dei terreni comuni (demaniali) erette in Inghilterra tra il XVII e il XXI secolo a favore dei proprietari terrieri della borghesia mercantile
2) concetto di intersezionalità, da Il significato della supremazia bianca oggi. Racconto della conferenza di Angela Davis -16 marzo, 2016 – militant-blog: “In questo periodo, negli Usa, c’è una nuova attenzione all’opposizione all’incarcerazione di massa nei movimenti antirazzisti, soprattutto tra i giovani neri, tra le donne nere e le queer nere. Allo stesso modo, sempre più spesso si chiedono cambiamenti nel sistema dell’istruzione: all’Università del Missouri, gli studenti hanno ottenuto le dimissioni del preside che non aveva voluto condannare pubblicamente alcuni episodi di razzismo nel campus. Questi movimenti riconoscono la necessità di una intersezione delle lotte. Emblematica è l’assenza, in questi movimenti, della tradizionale leadership nera carismatica, riconosciuta e maschile, in nome di una leadership collettiva e prevalentemente femminile: il movimento BLM, ad esempio, è stato fondato da tre donne nere, Patrisse Cullors, Opal Tometi e Alicia Garza. Non si tratta di un movimento leaderless (senza leader), ma di un movimento leader-full (pieno di leader): si è così assistito alla valorizzazione di donne nere, queer, ecc. non per motivi identitari, ma perché ciò aiuta a superare la cornice assimilazionista. In questi movimenti, il femminismo assume un valore molto importante: esiste, infatti, uno stretto legame tra la lotta anticapitalista, la lotta antirazzista e la lotta contro la violenza di genere e per l’uguaglianza di genere. Il concetto di intersezione, sulla cui elaborazione ha contribuito il femminismo, ha un valore molto importante: Davis fa riferimento alla necessità di una intersezione delle lotte, in cui quella contro la violenza di genere si unisca a quella contro la violenza dello Stato, contro gli abusi della polizia e contro i corpi delle donne. Tutti i nuovi movimenti antirazzisti riconoscono l’importanza del femminismo anticapitalista e antirazzista, come riconoscono il legame dell razzismo con lo sviluppo del capitalismo e con l’attacco al lavoro. È significativo che mentre negli anni ’70, quando solo 200mila persone erano imprigionate, un lavoratore su tre era membro di un sindacato, mentre oggi – che ci sono 2,5 milioni di detenuti e 7 milioni sotto libertà vigilata – solo 1 su 10 lo è. La cornice dell’intersezione fa comprendere che la lotta contro il razzismo e per la giustizia negli Usa è la stessa lotta per la giustizia in Palestina: secondo Davis, la lotta per la Palestina ha oggi lo stesso valore di quella contro il razzismo in Sud Africa.”
3) Centre de Cultura Contemporània de Barcelona
4) Womanism (definizione tratta da VociGlobali.it ): è il termine coniato dalla scrittrice afro-americana Alice Walker, autrice del celebre “Il colore viola” da cui è stato tratto un famoso film, per affermare l’idea e la necessità di un cambiamento di mentalità che tenesse conto delle difficoltà e delle esperienze specifiche delle donne nere e delle minoranze. “Womanist is to feminist as purple is to lavender” (Womanist sta al femminismo come il viola sta alla lavanda), diceva, mettendo insieme in questo concetto e nel nuovo termine coniato, femminilità, negritudine e razzismo. Il femminismo, infatti, in Africa e nella comunità femminile afro-americana è stato sempre associato alla cultura occidentale, alla donna bianca che spesso – prima di essere femminista – era razzista proprio come gli altri. Una womanist ama le donne, la loro cultura, ma ama anche gli uomini e fare bambini, combatte il razzismo, odia i separatismi. È questo desiderio di esprimere la propria dimensione unica e diversa, che nel tempo ha fatto nascere movimenti femminili africani in grado di portare il proprio personale contributo alla cosiddetta emancipazione. Un’emancipazione di genere ma quasi mai avulsa dall’emancipazione politica del post-colonialismo, da cui nasceva, già negli anni Settanta, il post-colonialismo femminista, laddove appunto il femminismo sembrava focalizzarsi solo sulle problematiche e le esperienze delle donne occidentali. Un’emancipazione che rivendicava anche la conservazione di propri valori e della cultura indigena, riconoscendosi nell’Africana womanism. E, ancora, il Black feminism legato al ruolo delle donne nel movimento dell’indipendenza, del nazionalismo nero, della liberazione gay. Ma anche il forte contributo dato dai movimenti sociali ed ecologisti.
5) Ella Baker, breve profilo da wikipedia.org
6) Ericka Huggins – Tratto dal sito omonimo erickahuggins.com : “Attualmente è professoressa di Sociologia e Studi Afro Americani alla Peralta Community College District. Il desiderio di Ericka di servire l’umanità ha avuto inizio nel 1963, quando ha partecipato alla Marcia su Washington per il lavoro e la libertà. Lì, ha iniziato a muoversi fino alla prima linea nel movimento globale dei diritti umani. Nel 1968, all’età di 18 anni, è diventata un leader nel capitolo di Los Angeles del Black Panther Party con il marito John Huggins. Tre settimane dopo la nascita della loro figlia, John Huggins è stato ucciso. Nel maggio del 1969, Ericka e il compagno leader del Partito Bobby Seale sono stati presi di mira e arrestati con l’accusa di cospirazione. Restò in carcere in attesa del processo due anni.”
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

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