Lavoratori pagati in buoni mensa. O in cambio di scontrini. O a due euro per ogni stanza d’albergo pulita. Oppure licenziati e poi ripresi a voucher. Cronache dal Paese della “flessibilità creativa”.
L'espresso di Brahim Maarad, Michele Sasso e Francesca Sironi - illustrazioni di Maurizio Ceccato
Si potrebbe chiamare “precariato acrobatico”. È l’ultima versione della flessibilità estrema in Italia, estate 2016. Quella delle forme più creative in cui ormai si declina il dumping nel mondo del lavoro: ore stipendiate in buoni pasto, ad esempio. O pagate solo attraverso il rimborso di scontrini. Oppure il cottimo a stanza d’albergo pulita (due euro l’una, in alcuni tre stelle della Riviera romagnola). Per non dire dell’estensione infinita dei voucher, nati per far emergere dal nero i lavori accessori e diventati invece un modo fisiologico per non dare più ai dipendenti alcun tipo di contratto, nemmeno quelli interinali. “L’Espresso” propone in queste pagine un viaggio nella realtà quotidiana del precariato acrobatico. Con un disclaimer, obbligatorio: quasi nessuno dei lavoratori che vivono così hanno accettato di esporsi con nome e cognome. Perché la flessibilità estrema porta con sé anche la ricattabilità. E il rischio di non avere - domani - nemmeno queste forme di occupazione.
AL POSTO DEI SOLDI
Pistoia, capitale della cultura 2017. Un’economia in ripresa, nonostante le difficoltà: industria manifatturiera su del 2,6 per cento nell’ultimo trimestre, saldo positivo tra aziende chiuse e nuove nate. Ma è in questa città benestante che Luana Del Bino, responsabile dell’ufficio vertenze della Cgil, ha ricevuto la prima denuncia di uno “stipendio” interamente dato in ticket restaurant, a un lavapiatti di un ristorante. All’inizio Del Bino non ci voleva credere: «Ogni anno affrontiamo tanti casi di rapporto di lavoro al nero, ma almeno in contanti. Questa modalità di pagamento non l’avevo mai sentita». Invece dopo la sua denuncia apparsa sul quotidiano “il Tirreno”, sono emerse altre segnalazioni simili, sempre in Toscana.
Si è ad esempio scoperto che una società di Viareggio ha proposto i carnet come salario per impieghi a tempo durante l’ultimo carnevale. E in provincia di Pisa quattro commesse part time si sono viste retribuire così gli straordinari. Poi è emerso un altro ristorante, questa volta sul lago di Como: un cuoco con contratto a tempo determinato per 40 ore a settimana, ne lavorava invece 50-60 di media. E anche per lui, questi straordinari venivano pagati ogni tanto con un blocchetto di ticket restaurant.
«È un fenomeno che stiamo scoprendo: imprenditori che cercano di convertire i soldi degli stipendi in “benefit”, così evitando di pagare contributi», dice Gualtiero Biondo, della Cisl lariana che ha ricevuto la denuncia. Biondo cita un caso che sta seguendo proprio in questi giorni: un’azienda metalmeccanica lombarda, con circa 150 dipendenti. L’amministrazione ha proposto loro di ridurre la retribuzione. Trasformando una parte di salario in “servizi” - visite dal dentista o giornate al nido per i figli, ad esempio - in cambio di una decurtazione dello stipendio. Insomma, al posto dei soldi dovuti per il lavoro.
SALARIO PER SCONTRINI
Roma, Biblioteca nazionale. Si incontrano all’ingresso, mentre danno informazioni o tesserini agli studenti. Li vedi all’ufficio prestiti, a distribuire i libri richiesti. O ancora, li puoi incrociare nei magazzini. Sono anche loro a tenere in piedi una delle principali strutture culturali pubbliche del Paese: quattro milioni e mezzo di volumi, per capirci. Il punto è che lo fanno, formalmente, da volontari. E da cinque anni. “Volontari a rimborso”, per la precisione: per essere pagati, devono raccogliere scontrini. Spese di benzina, ricariche telefoniche, panini al bar, conti per massimo trenta euro al supermarket.
Raccolgono scontrini e li portano ogni mese per ottenere un “rimborso” di massimo 400 euro a testa, ad eccezione di due “senior”, che stanno più ore, e possono quindi arrivare a 600. Niente contratti, né contributi, solo fogli da firmare per l’ingresso e l’uscita, stando ai turni in cui rientrano anche loro. Non vogliono parlare con nome e cognome, perché si sentono facilmente sostituibili, spiegano, dai ragazzi del servizio civile: il loro ultimo incubo. Quindi si tengono stretti questo posto. Sono in 25 in tutto, su circa 200 dipendenti della biblioteca. Prima erano impiegati attraverso una cooperativa, con contratto regolare.
Poi l’azienda è stata sostituita da un’associazione di volontariato. Ma loro sono rimasti lì. Stesso impiego di prima, nuova casacca e nuova modalità di pagamento. Adesso dicono che per l’estate il rimborso rischia perfino di diminuire: l’anno scorso infatti nei mesi più caldi hanno ricevuto 100 euro in meno. Era il “contributo all’aria condizionata”, il privilegio di stare al fresco al lavoro. La speranza è che quest’anno i loro datori siano più umani e accettino gli scontrini fino alla cifra intera. «Quando abbiamo chiesto conto della situazione all’ufficio del personale ci hanno detto che non essendo i volontari parte dell’organico, non ne sono responsabili», dice Norberto Benemeglio del sindacato atipici della Cgil: «Insomma sono dei fantasmi, non esistono».
INTERINALI RETROCESSI
Massa, ipermercato Carrefour aperto 7 giorni su 7. Sara - nome di fantasia - quando arriva indossa una gonna blu al ginocchio e ha le unghie laccate. «Avere le mani curate e vestiti neri o blu è richiesto», spiega. Lei fa la cassiera e rappresenta l’ultima deriva dell’uso ordinario di forme straordinarie di pagamento: i voucher . Dal 16 luglio alla Carrefour di Massa i cassieri sono divisi in tre: interni, interinali e voucheristi. I primi sono i “privilegiati”, a tempo indeterminato; i secondi sono precari ma con una prospettiva di salario lunga qualche mese; i terzi sono assunti a ora, senza ferie, malattia, maternità, liquidazione, niente; e licenziabili non dall’oggi al domani ma proprio dal mattino al pomeriggio.
Questi ultimi non sono dei nuovi assunti, peraltro, ma dei retrocessi: prima erano interinali. Finito l’ultimo contratto, sono passati a voucher. Sara mostra l’ultima busta paga della Manpower, l’agenzia attraverso la quale veniva di solito collocata nel supermercato: in una settimana di giugno, ad esempio, ha lavorato 18 ore. Stipendio: 199 euro netti, più Tfr, contributi, malattia e infortuni. Per lavorare le stesse ore, in voucher, ne prenderà 135: cioè 64 in meno. Il 2 giugno scorso era festa e Sara è stata pagata un po’ di più: otto ore, 125 euro. Se alla prossima festa della repubblica sarà ancora lì, ne prenderà 60.Sara naturalmente non è l’unica. Altri lavoratori dell’ipermercato stanno passando dall’interinale al voucher . «Ci hanno convocato ai primi di luglio, in una ventina, tutti interinali», racconta la cassiera: «Ci hanno spiegato che eravamo a scadenza e ci hanno offerto quindi di allungare la nostra permanenza grazie ai buoni. Abbiamo accettato in pochi. Per alcuni non conviene nemmeno dire sì, dovendo arrivare da lontano con la macchina. Io per ora provo».
Già: Sara era “a scadenza” perché vicina al limite dei 200 contratti attivati attraverso l’agenzia sullo stesso luogo di lavoro. Essendo “richiesta” spesso di giorno in giorno (e ogni richiesta vale un contratto), ha fatto presto ad accumularne 200. E quando non è di turno al Carrefour? «Faccio i mestieri a casa di alcune signore della zona», risponde. E anche lì è pagata a voucher, che in fondo sono stati inventati proprio per questo? Macché: «In nero. I voucher non li avevo mai sentiti nominare prima che me ne parlassero al Carrefour».
INCUBO IN ALBERGO
Se i mestieri casalinghi sono in nero, quelli nei grandi alberghi non luccicano. Almeno non sempre. Perché l’altra frontiera del precariato estivo sta proprio lì: in stanza. Nei grandi alberghi della riviera romagnola, vista mare. Donne delle pulizie pagate per ogni camera rifatta. Due euro a stanza. Stagionali che hanno contratti di trenta ore la settimana, ma che di ore ne fanno più di dodici al giorno. In alcuni casi anche sedici. Senza turno di riposo. E a fine mese prendono 1.200 euro, di cui metà - appunto - in nero.
Le testimonianze sono così tante che risulta difficile non pensare ormai a una prassi consolidata. Di episodi da raccontare ne ha diversi Minodora Puni, 46enne rumena, che dal 2012 ha rifatto centinaia di stanze negli hotel tra Rimini e Riccione. «La prima volta che ho cominciato a lavorare in Italia sono stata assunta tramite un’agenzia internazionale direttamente in Romania. Circa 700 euro al mese, quindici ore al giorno per trenta giorni. Mi avrebbero dovuta pagare in valuta rumena». Usa il condizionale perché non ha ricevuto nemmeno quei 700 euro. Lasciata l’agenzia, ha lavorato per una cooperativa (italiana).
Non è andata meglio, nonostante avesse prestato servizio in un albergo a quattro stelle a Marina centro, il cuore turistico di Rimini. «Mi è stato affidato un piano, diciassette camere in tutto. Dovevo rifarne tre all’ora per avere i sei euro e cinquanta. Assunta con un contratto a chiamata, da marzo a novembre. Sette ore al giorno per un totale massimo di ottocento al mese. Per riuscire a fare in tempo spesso tornavo a casa con il panino che mi ero portata dietro per il pranzo».Eppure quelle camere che puliva per due ore arrivavano a costare trecento euro a notte. Ha pensato quindi di lasciare e affidarsi alla gestione familiare di un piccolo albergo, trenta camere in tutto. Un altro inferno: «Lavoravo mediamente dodici ore al giorno, facevo sia le camere sia la cucina. Ed eravamo costretti a mangiare gli avanzi dei clienti perché per il personale non hanno mai cucinato nulla». Conclude Minodora: «Tutti lavorano praticamente in queste condizioni, chi rifiuta sta a casa. Non sono casi eccezionali, è la normalità. Si accetta perché non si ha scelta».
ONLUS CON LA GABELLA
L’estate pesa anche su Alessandro. Durante l’anno scolastico è un docente precario di 30 anni. Da giugno si trasforma in animatore di un centro estivo. Qui migliaia di minorenni vengono seguiti dalle 8 del mattino alle 6 del pomeriggio, un sostituto del tempo pieno della scuola per chi non può seguire i propri figli. Fino a dieci anni fa la gestione passava attraverso i bandi comunali. Non c’era però una formula univoca: alcuni facevano pagare alle famiglie oppure il municipio copriva la maggior parte del costo.
Fino all’arrivo della spending review: quando quasi tutti gli enti locali hanno virato verso l’affido diretto dei centri estivi. Così Alessandro adesso ha per datori di lavoro delle onlus, società sportive o parrocchie, che incassano contributi pubblici ma pagano i propri collaboratori poco, incassando la gabella. E in nero: «Prendo 700 euro al mese», racconta Alessandro: «Totalmente in nero, anche se lavoriamo fino a dieci ore al giorno con la responsabilità di decine bambini, che spesso accompagniamo anche in piscina o in gita».
FATTORINI NO-STOP
Mario ha cinquant’anni, è italiano e macina decine di chilometri: fino a sessanta a notte, da una parte all’altra di Roma. «Mi è capitato di non avere abbastanza soldi e andare in giro lo stesso senza assicurazione», confessa. Mario è uno di quelle migliaia di spedizionieri-lampo richiesti dal boom di startup nel settore della ristorazione. Pizza, sushi, panini e cocktail a domicilio.
L’innovazione è nel servizio: basta un clic per completare la richiesta. Ma sul lavoro i rischi di chi attraversa la città per portare i piatti sono rimasti gli stessi. Mario prende le pizze e le porta all’indirizzo segnato. A cottimo: più viaggia, più incassa. Il suo incubo sono le buche. E dopo le tre di notte c’è da tenere a bada il sonno. Perché di giorno Mario ha un altro lavoro - sempre in nero, sempre saltuario, sempre a cottimo. Quando è fortunato e riesce a fare il bis, incassa 80 euro. Per un giorno intero, no-stop.
LA BEFFA DEL CAPITALE UMANO
Z. C. era anche lui uno stacanovista del volante. Ma impegnato in viaggi più lunghi. Troppo lunghi. Autista originario della Bulgaria per una grossa società di trasporti e logistica con depositi dall’Abruzzo alla Lombardia, consegnava materie prime per gelaterie, pizzerie e ristoranti. Con carico e scarico compreso nel viaggio, la parte più faticosa. Un giorno, mentre è impegnato in una consegna, si accascia in cabina. Infarto fulminante. A soli 45 anni muore.
La famiglia si rivolge a un legale e viene ricostruito il suo mestiere da incubo: per il primo anno di lavoro vengono registrate 865 ore di straordinario “ufficiale” in busta paga. E poi per gli anni successivi si oscilla da un minimo di 255 ore ad un picco di 868, il che significa 72 giornate di extra-lavoro all’anno. In soli otto anni di super-lavoro si arriva a quota 4.148 ore. Mentre l’Inps fissa a 48 la quota massima settimanale a bordo di furgoni e camion si arriva tranquillamente a 70-75.
La società di trasporti, citata in causa per i turni massacranti che potrebbero aver portato alla morte di Z. C., ha una diversa visione dei fatti: «Gli straordinari sono di fatto periodi di riposo o attesa tra un carico e l’altro». Ma l’avvocato di famiglia ha raccolto tante testimonianze, tutte uguali: il personale era sottodimensionato e gli orari reali erano dalle 6 del mattino alle 9 di sera. «La prova del decesso non è facile», sottolinea il legale: «E in questi casi di palese sfruttamento la conciliazione è beffarda: il cosiddetto “capitale umano”, per calcolare il risarcimento, si è ridotto ad un quinto di quello inizialmente richiesto. Ma non c’erano altre strade possibili. E i familiari hanno accettato».
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