Chi controlla cosa - Prosegue la sfida del ‘mordi e fuggi’ talebano concentrato ora su Kabul. L’abbiamo detto: si tratta d’una sfida rivolta agli occupanti della Nato tutori del locale governo e all’Isis impiantato di recente in Afghanistan tramite gruppi di talib dissidenti. A ciascun avversario i clan maggioritari dei turbanti mostrano i muscoli, facendo intendere che presente e futuro del controllo del territorio è nelle loro mani. Così un nucleo guerrigliero s’è infilato nel tardo pomeriggio di ieri nell’Università americana sita a Darulaman Road, una delle arterie di scorrimento della capitale, a un paio di chilometri dall’Ambasciata Russa. Si tratta comunque del centro cittadino, sebbene distante ancora cinque-sei chilometri dalla “città proibita”, il settore super blindato dove sorgono il nuovo palazzo presidenziale e alcuni ministeri, il quartier generale dell’Isaf e le maggiori ambasciate, a cominciare da quella statunitense. Questa è un’area controllatissima, che in ogni caso ha già subìto attentati talebani tramite bombe e kamikaze. L’azione di ieri puntava a evidenziare i limiti del sistema di sicurezza afghano, propagandato con enfasi dal piano della Casa Bianca e dal Resolute Support del Pentagono, e colpire simbolicamente il luogo dove la presidenza Ghani forma la casta dei nuovi amministratori filo occidentali.
Ceto dirigente - Tutto ciò dal punto di vista talebano. Uomini della Cooperazione internazionale sostengono che anche vari giovani ricercatori non organici ai piani governativi frequentano il campus, ma le logiche di ciascuno sono diverse. Però non si può negare che Ghani abbia incrementato, rispetto al più tribale Karzai, l’impegno nel creare una nuova leva manageriale da inserire nel disegno d’una governance filo occidentale, contro cui si scaglia la rabbia talebana. L’azione di ieri è stata più dimostrativa che militare, i miliziani hanno compiuto un raid, senza soffermarsi a lungo in scontri a fuoco con le truppe dell’esercito sopraggiunte a difesa della struttura. Ciò nonostante le vittime sono state dodici, fra cui sette studenti. L’attacco segue un altro avvenimento accaduto in loco il 9 agosto scorso, quando due docenti di quell’Università, uno statunitense e un australiano, sono stati rapiti. Il sequestro non è stato rivendicato da nessuna fazione politica e potrebbe rientrare nella sempre più frequente attività criminale, diventata uno degli affari del disastrato Paese: sottrazioni a scopo d’estorsione ai quali si dedica la manovalanza d’impostori e signorotti della guerra al servizio di figure più importanti. Molte delle quali, sappiamo, sono direttamente coinvolte con l’attuale politica nei ruoli di parlamentare e ministro.
Industria del sequestro - L’industria del sequestro aveva nei mesi scorsi (9 giugno) fatto registrare quello di un’impiegata dell’Ong Aga Khan Foundation. Prima di lei, il 28 aprile s’era verificato a Jalalabad il ratto di Jane Wilson, una lavoratrice di un’Ong australiana. La Wilson è una sessantenne impegnata con l’associazione Zardosi che promuove lavoro d’artigianato. Sempre ad aprile cinque operatori di Save the Children erano stati crivellati di colpi dopo un sequestro nella provincia di Ghazni di cui si può pensare non fosse stato pagato il riscatto. Insomma alle difficoltà oggettive come in ogni territorio di guerra, s’aggiunge questo nuovo fronte che da due anni fa dire agli attivisti rivoluzionari locali che la presenza di stranieri impegnati nella solidarietà alla popolazione e nell’informazione è da evitare perché altamente rischiosa. Di questo genere d’industria si servono, dunque, la criminalità comune e politica di vecchio stampo e probabilmente anche gruppi di talebani, o almeno una parte di loro, che hanno aggiunto nuovi commerci al consolidato e lucroso business della droga. Uno s’aggancia allo sfruttamento del sottosuolo che da una decina d’anni a questa parte ha prodotto accordi fra l’establishment politico e aziende mondiali. Lo sfruttamento del sottosuolo coi minerali delle “terre rare” di cui si nutre l’hi teach mondiale aveva creato accordi fra multinazionali e governo.
Sfruttamento straniero - Nel 2007 Karzai aveva messo a disposizione della China Metallurgical Group un’enorme area a sud-est di Kabul, nella provincia di Logar, dove è stata scoperta una straordinaria vena di rame. L’azienda pagava 2,9 miliardi di dollari per trent’anni di sfruttamento. Nella zona, Mes Aynak, sorgevano templi buddisti, ricerche archeologiche iniziate nei primi anni Settanta avevano portato alla luce testimonianze risalenti all’età del bronzo e vestigia di successivi monasteri. Gli insediamenti furono abbandonati attorno all’VIII secolo dopo Cristo; ovviamente nessuno tutela questo patrimonio artistico che rischia d’essere travolto dagli scavi minerari ufficiali. Sui quali s’innesta l’affarismo di trafficanti di rame di frodo, criminali o talebani. Costoro in altri casi applicano il più sbrigativo sistema della tangente da richiedere alla ditta che fa scavi e trasporti sul territorio controllato dai turbanti d’ogni risma. Perciò la Cina ha avanzato a Ghani richiesta di protezione ed è di fatto preoccupata per un controllo del territorio non garantito dalle autorità. Ma l’interlocutore è inaffidabile: sono le stesse Istituzioni a vacillare se, com’è accaduto nei giorni scorsi, il premier Abdullah ha esplicitamente attaccato il presidente di gestione fallimentare nella conduzione di governo. Così la tregua-armata fra i due, imposta dagli Usa due anni fa per evitare conflitti fra schieramenti, può incrinarsi. I talebani lo sanno e proseguono scorribande dimostrative e operative.
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