Nella desolante apatia dell’agosto italiano – ravvivata solo da qualche sussulto sportivo proveniente da Rio – non so se ci siamo sufficientemente resi conto di aver assistito immobili ad immagini e testimonianze di un mondo che assume in maniera sempre più consistente l’aspetto di una polveriera; e a un vero e proprio colpo di mano da parte del Governo italiano - furbescamente silenzioso, complice il solleone, ma implacabile - rispetto agli spazi di libertà e di democrazia.
micromega m.boscaino insegnanteSono facce della stessa tragedia: la nostra mutazione politico-antropologica. A nessuno di questi fenomeni infatti sembriamo riuscire a reagire in maniera significativa (ammesso che il desiderio di reagire esista ancora): tutto viene macinato nel tritacarne della logica del pollice alzato-pollice verso, quel like che rischia di essere la tomba della condizione privilegiata della cittadinanza consapevole: la partecipazione.
La notizia di un bambino kamikaze, tra i 12 e 14 anni, che – inconsapevole – ha seminato morte (si parla di almeno 60 vittime) durante un matrimonio nel sud della Turchia (quello stesso Paese che sta subendo le devastanti conseguenze della reazione al golpe da operetta della metà di luglio), al confine della Siria, segue quella della morte di Alì, fratellino di 10 anni di Omran, icona attonita delle stragi di Aleppo. Aleppo sta morendo insieme alle sue bambine (con o senza burkini) e ai suoi bambini. Ma sono davvero bambini per noi? O quelle immagini sono un flash di momentaneo sgravio di una coscienza segnata dal primato di un individualismo irreversibile?
Come la tetra teoria delle vittime del Mediterraneo, il sacrario delle disuguaglianze e dell’ingiustizia a sistema, con buona pace del sindaco di Capalbio e di quella che (forse) un tempo fu l’intellighenzia italiana; e che ora è solo un manipolo di patetici snob, il più delle volte prontamente saltati sul carro del nuovo (e speriamo provvisorio) vincitore. Mentre noi ci rosoliamo al sole, passeggiamo in montagna, postiamo i nostri meritati riposi, quella guerra che l’Italia ripudia o dovrebbe ripudiare infuria. La notizia della concreta complicità del nostro Paese nella produzione e fornitura di armi e di documenti top secret che attestano la presenza di alcuni commando delle nostre forze speciali in Libia non ci sembra degna di rilievo. Prevale il silenzio assordante della comunità internazionale e del nostro Paese sulla cessazione dei diritti civili nello Yemen, in Turchia, del flagello della repubblica di Donetzsk, di cui non sappiamo quasi nulla. Perché la regia di una (dis)informazione sapiente e programmatica consente persino la selezione di circostanze, immagini, vittime per cui possiamo/dobbiamo impietosirci o no. Pensate a quanto accade in Nigeria. Pensate che la mamma di Giulio Regeni sa che suo figlio – quello per cui, come disse Renzi, “l’Italia si fermerà solo davanti alla verità” – da oltre 6 mesi non c’è più. E di quella morte non si sa nulla.
Questa inerzia colpevole incoraggia l’altro aspetto della tragedia. Le epurazioni in Rai, la rimozione di una serie di personaggi scomodi per la cavalcata solitaria e possibilmente trionfale verso il referendum per la vittoria del sì, auspicata dal Governo (che potrebbe trasformare seriamente questo Paese in un regime soft; non solo per il cambiamento della Carta; quanto per l’uso che il comitato d’affari cui siamo stati consegnati da Napolitano potrebbe fare della vittoria) non hanno scoraggiato i nuovi condottieri delle reti vestali del Pensiero Unico della sedicente televisione pubblica ad impartire ordini intransigenti: vogliono vincere; e non gli basta vincere facile, ma con garbo. Sono sgarbati, arroganti, esplicitamente manipolatori. Continuano a gridare: Via i partiti dalla Rai! E, coerentemente, sostituiscono ai partiti il partito (unico): quello di cui il presidente del Consiglio è anche segretario.
La pensata è stata geniale, quanto ad impatto mediatico: un summit a Ventotene. Mentre si ingiuria e si silenzia L’Anpi, si inneggia al manifesto di Ventotene e si propone l’incontro con Merkel ed Hollande in continuità con quel documento tanto importante per l’Europa che si sarebbe voluta costruire. Mentre si offende una parte fondamentale della memoria collettiva e delle radici repubblicane e antifasciste del Paese, impedendo all’Anpi spazi di intervento, a cominciare dalle feste un tempo dell’Unità, oggi del Sì, si onorano – ad uso degli occhi compiacenti e complici delle telecamere – Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, ideatori di un’Europa in grado di rimettere in moto «il processo storico contro la diseguaglianza e i privilegi sociali». Un omaggio solo di maniera, considerata la distanza siderale che divide quel progetto dalla attuazione della sedicente Europa Unita. Lui è quello che nel periodo in cui si sentiva imbattibile aveva affermato: se perdo il referendum vado a casa, noi non siamo la casta. Oggi, confidando sulla nostra disattenzione e sulla complicità della nostra inerzia (quella stessa che consente a molti di assecondare la devastazione della scuola pubblica, la dismissione dello stato sociale, la violazione della dignità del lavoro, le rimozioni in Rai, la profanazione di spazi, soggetti ed oggetti della nostra storia passata e della nostra identità politica) afferma ora invece che, comunque vada, si voterà non prima del 2018, arrogandosi peraltro una competenza del Presidente della Repubblica. Per quanto tempo abbiamo intenzione di farci trattare ancora come inerti burattini?
In questo disperante scenario, dove siamo noi e dove ci collochiamo è ancora difficile comprendere. Educatori, ci chiamano. Ma quel che è certo è che troppo spesso siamo venuti meno a quella funzione che uno stato democratico affida agli insegnanti della propria scuola: cittadinanza, pensiero critico, riflessione, impegno per chi un giorno dovrà scegliere con la consapevolezza che un sì o un no non sono palette per la valutazione di un concorrente, ma opzioni responsabili e consapevoli con conseguenze concrete nella difesa dell’interesse generale e nelle condizioni di esistenza di tutti e di ciascuno. Invertire quello che sembra il corso ineluttabile della storia è a maggior ragione un nostro obbligo civile e democratico. La difesa della scuola pubblica, al pari di quella della Costituzione, si configura perciò come l’antidoto alla inerzia, come anticorpo all’omologazione a ciò che il dominio incontrastato dell’economia ha pervicacemente stabilito debba essere il nostro futuro: un futuro che non è più quello di una volta. Perché non prevede lo spazio della progettualità, dell’idealità, della difesa dei principi, della solidarietà che è radice della pacifica convivenza, della passione e dell’indignazione, che consentono di concepire piani arditi, denunce, ribellione, rivoluzioni; ma solo il mesto scollamento dell’io dal noi, sperando di cavarsela.
Non facciamoci scippare la nostra storia migliore. Non rinunciamo a riappropriarci di un’identità collettiva che muova dai principi della Carta: in essi troveremo – virtuosamente coniugati – l’uguaglianza, il diritto alla salute e all’istruzione, la solidarietà, il ripudio della guerra, la libertà di pensiero, la sovranità del popolo e il primato del lavoro. Votare NO al referendum significa anche ribadire con forza quei principi, riconoscere bambini in tutti i bambini vittime, non rassegnarci ai depistaggi per la morte di Giulio e di tantissimi come lui, esigere un’informazione e non una manipolazione pubblica, difendere la dignità dei lavoratori e il diritto di ciascuno a ricevere cure adeguate, ascoltare il grido di dolore che proviene da chi ha avuto la sventura di nascere dalla parte sbagliata del mondo. Aborrire, sanzionare, con gli argomenti maestosi che la cultura e il libero pensiero ci offrono, la logica del like, il tweet irridente, velocità, modernismo e gli altri funambolici miti di cartapesta di questo tempo; ecco cosa possiamo fare come insegnanti. E come cittadini.
Ma questo sarà possibile solo a patto che il NO alla de-forma della Costituzione prevalga, in attesa che il 4 ottobre la Corte Costituzionale si pronunci sull’Italicum, garantendo ai cittadini quella sovranità che gli spetta, architrave della nostra Repubblica.
Marina Boscaino
(23 agosto 2016)
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