Sono oramai anni che
lo scandalo dell'ENI in Nigeria affiora, senza mai sfondare, sulla
stampa internazionale e su quella nazionale.
micromega Giuliano Garavini
L'ultima volta, l'inchiesta
sulla "madre di tutte le tangenti" è apparsa in un numero speciale de l'Espresso che ha seguito la vicenda a partire dalle rivelazioni contenute nei Panama Papers. In soldoni, l'ENI ha pagato a politici nigeriani
con in prima fila l'ex ministro Dan Etete (ma rivoli di denaro sono
arrivati anche a dirigenti ai massimi livelli del "cane a sei zampe"),
una somma gigantesca pari ad oltre un miliardo di dollari per ottenere
una promettente concessione petrolifera offshore (OPL 245). L'Espresso
rivela, carte alla mano, che questo episodio non rappresenta che la
gigantesca punta di un iceberg, e porta ad esempio tangenti per decine
di milioni di euro pagate anche a politici algerini.
Questo
episodio di corruzione internazionale senza precedenti dovrebbe figurare
per settimane sulle prime pagine dei quotidiani nazionali. Tanto più
quando giornali e giornalisti si sono occupati per settimane delle
noccioline spese a sproposito dall'ex sindaco di Roma Marino. Che questo
(ancora) non succeda è in primo luogo indice del fatto che giornalisti e opinionisti italiani
non disdegnano consulenze pagate dal colosso petrolifero, ma
soprattutto del fatto che gli editori delle principali testate
giornalistiche temono per i mancati introiti pubblicitari, nonché per
possibili ricadute giudiziarie.
Dietro la passività dei
direttori dei quotidiani nazionali si annidano però convinzioni diffuse,
anche se spesso non apertamente palesate, nel popolo italiano. E' di
questo retroterra di argomentazioni sbagliate e fuorvianti che mi vorrei
occupare.
Il primo di questi pensieri diffusi è che il
corruttore, quello che consegna la bustarella, sia in qualche modo meno
colpevole del corrotto. Il politico o il funzionario che si lascia
corrompere è fatto oggetto degli strali dei giornalisti alla Sergio
Rizzo che attaccano puntualmente solo le amministrazioni pubbliche.
L'imprenditore che versa la mazzetta sarebbe invece costretto a queste
bassezze per tirare a campare.
Non è così. O almeno, non è
sempre così. Le grandi imprese, specie se multinazionali, hanno a loro
disposizioni fiumi di denaro per comprare paginoni sui giornali e su
ogni altro mezzi di comunicazione, per stipendiare un esercito di
lobbisti, per foraggiare giornalisti, opinionisti e accademici, quando
non per corrompere direttamente, come si è visto nel recente caso di TOTAL
a Tempa Rossa. Il problema è che di fronte a questa gigantesca massa di
denaro che influenza leggi e legislatori, alimentatasi con le
privatizzazione di quasi tutti i settori vitali dell'economia, dalla
finanza alle infrastrutture, vi è una politica strutturalmente debole.
La politica che fino agli anni '80 era padrona, è diventata ancella.
L'unico concreto modo per contenere questo strapotere del denaro è che
le grandi imprese vengano governate in modo più democratico e sottoposte
a processi più stringenti di scrutinio interno (incluso un peso
maggiore dei lavoratori nei processi decisionali e gestionali), e che
tutte le reti che costituiscono un monopolio naturale tornino in mano
totalmente pubblica, divenendo così più permeabili agli interessi della
collettività. La corruzione indica oggi molto più spesso la sfrontatezza
del potere economico piuttosto che la capacità di ricatto della
politica.
Il secondo pensiero diffuso, molto più insidioso, si
può sintetizzare così: in Africa gli affari si fanno con le mazzette e
se non ci stai sei fuori dal gioco. In questo c'è sicuramente del vero, e
infatti ENI è implicata nello scandalo in Nigeria insieme a Shell, che
ha pagato un piccola quota della mazzetta.
Bisogna però capire
meglio le ragioni per cui si corrompe e vanno attentamente valutate le
conseguenze della corruzione quando la posta in gioco è il controllo
sulle risorse naturali.
In Nigeria si è corrotto per
appropriarsi di un giacimento a condizioni capestro, e dunque per
versare allo Stato nigeriano assai meno del dovuto (a parte il fatto che
allo Stato nigeriano non è arrivato nemmeno un dollaro del miliardo
sborsato in tangenti). Il giacimento in questione avrebbe dovuto, a
norma di legge, rimanere per il 60% in mano nigeriana e solo per il 40%
in mano straniera. Pagando la madre di tutte le tangenti l'ENI si è
appropriata della totalità di OPL 245, sottraendo potenzialmente al
popolo nigeriano una quantità gigantesca di denaro. Se non fosse
intervenuto il nuovo Presidente nigeriano a bloccare il tutto, si
sarebbe privato un Paese in preda alla guerra civile e al terrorismo, in
cui nella maggior parte delle case non vi è elettricità e dove i
giovanissimi lavorano a mani nude nelle fogne (l'ho visto con i miei
occhi), di enormi proventi. La corruzione, in questo caso, contribuisce
solo a rafforzare un'elite corrotta e a tenere sotto scacco quelle
istituzioni locali, come la Banca centrale e il Parlamento, in cui rimangono vivi gli anticorpi contro il degrado morale e civile di un popolo.
Nel caso specifico di ENI vale la pena ricordare se è vero che anche il
mai troppo ricordato Enrico Mattei utilizzava ogni metodo, lecito e
meno lecito, per farsi strada in un Paese produttore a discapito delle
grandi multinazionali; è vero anche però che a quei Governi offriva
clausole molto più vantaggiose di quelle prevalenti al suo tempo (una
partecipazione al 50% nella proprietà del giacimento, che alla fine
degli anni '50 era considerata ancora un'eresia dalle Sette sorelle).
L'ENI opera oggi in Nigeria per sottrarre la maggior quantità di denaro
possibile alle casse dello Stato nigeriano, e lo fa in piena complicità
con le altre multinazionali.
Il terzo dannoso pensiero diffuso è quello cui ha dato espressione Feruccio de Bortoli in un recente editoriale sul Corriere della Sera.
De Bortoli sostiene che dovremmo abolire la tassa sulle transazioni
finanziarie, chiamata comunemente Tobin Tax, introdotta obtorto collo
dal Governo Monti nel 2012 come pegno per l'approvazione di tutta una
serie di provvedimenti che avrebbero contribuito ad incrementare la
miseria sociale. De Bortoli afferma che, seppure in teoria questa tassa
potrebbe essere giustificata, siccome gli italiani sono gli unici ad
applicarla in modo rigoroso, la Tobin Tax starebbe minando il progetto
di fare di Milano un hub finanziario europeo. Il ragionamento à la De Bortoli
si potrebbe replicare anche sui diritti del lavoro. Inutile avere
l'articolo 18 o orari di lavori più brevi se non li hanno anche gli
altri Paesi perché così facendo si mina la produttività e si perdono
posti di lavoro. E stesso si potrebbe dire delle norme sull'ambiente.
Inutile introdurre la carbon tax o scoraggiare l'uso delle
energie fossili visto che se le altre nazioni non applicano le stesse
politiche le emissioni nocive non si ridurranno, la temperatura del
Pianeta non scenderà, e come risultato saranno solo imprese e cittadini
italiani a pagarne le spese.
La logica di De Bortoli sottende
la convinzione che il mondo non possa che diventare un luogo sempre più
miserevole, e che dunque convenga adeguarsi alle pratiche peggiori per
non perdere il treno della competizione globale. Perché non corrompere
se lo fanno tutti?
Se si pensa che il mondo, invece che
peggiorare possa diventare un luogo più progredito e civile, e si è
disposti a battersi in questo senso, allora il primo che avrà allenato
il suo sistema finanziario alla Tobin Tax, il primo che avrà applicato
norme per migliorare la vita dei lavoratori e rendere il lavoro più
stabile, il primo che si sarà adattato ad utilizzare meno combustibili
fossili, il primo che avrà stroncato manager che fanno affari
corrompendo politici stranieri e si sarà guadagnato così la simpatia e
la stima dei popoli, sarà all'avanguardia e, perché no, sarà anche più
competitivo nell'economia mondiale.
(24 agosto 2016)
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venerdì 26 agosto 2016
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