venerdì 26 agosto 2016

Dopo

Irpinia, la rabbia 36 anni dopo. Dite di no, quando arriveranno sciacalli pronti ad usufruire degli aiuti statali alla ricostruzione per impiantare stabilimenti in mezzo al verde dell'Appennino: da noi è accaduto, fate che non accada anche alla vostra terra.

cristina cucciniello
Io la botta non la ricordo. Avevo un anno, non ricordo il momento della scossa di terremoto, nel tardo pomeriggio del 23 novembre 1980. Era domenica, passate le sette; mio padre ricorda la tranquillità del dopo-campionato davanti alla tv: a quell'epoca, le partite di serie A venivano trasmesse in chiaro e - come ora - subito dopo partiva la tiritera dei commenti.
Se torno indietro con la memoria, ho la vaga immagine di mia madre che mi appoggia sul sedile posteriore della nostra automobile. E poi Dario (un volontario, amico dei miei) che mi porta a cavalluccio sulle spalle, nei capannoni della Caritas vicino alla nostra ex-casa. Arrivarono da tutto il mondo tanti di quei giocattoli, per noi bambini sopravvissuti al terremoto, che io ancora ricordo il mio stupore per la quantità; allora i miei erano due ventenni non particolarmente benestanti, in una città rasa al suolo, che davano una mano a smistare gli aiuti umanitari: così tanti peluche, in un colpo solo, non li avevo mai visti. A un anno non capisci la tragedia e capita pure l'impossibile, l'assurda gioia di avere in regalo un peluche enorme.

I cazzi amari arrivano dopo, molto dopo. Il dolore, la rabbia sorda, arriva dopo. Anche per gli adulti, intendiamoci: nei primi momenti c'è la disperazione, lo stupore, la disgrazia della perdita dei propri cari e dei propri averi. Ma la rabbia arriva a mente fredda, ti accompagna nel corso degli anni, non va mai via. Non gliela voglio augurare, ma sarà così anche per la popolazione di Amatrice ed è stato così anche per gli aquilani.
Io, dopo 36 anni, sono ancora incazzata. Perché la tragedia che ci ha colpito non è consistita solo nei 90 secondi della scossa, ma negli anni successivi: lo scempio del mio territorio, la violenza del ricostruire interi paesi a valle, rispetto agli insediamenti originari, la colata di cemento che ha preso il posto dei materiali tradizionali, l'improvvida decisione di voler profittare della ricostruzione per imporci una industrializzazione forzata che non era e non è nelle corde di un'area collinare e montana, priva di adeguate vie di collegamento. Ne discutevo giorni fa con un amico per metà irpino: chi ha in corpo una goccia di sangue irpino, chi è lupo almeno in parte, davanti a quel cemento soffre.
Avellino oggi è una città di bruttezza devastante. Non ha filo logico, non ha congruenza, non ha eleganza. Alterna costruzioni finto ottocentesche a obbrobri ricoperti da vetro e marmo. Strade pavimentate a lastroni lasciano il posto a piazze cementificate. E "buchi", palazzi ancora non ricostruiti, perfino nel corso principale. Ed ecomostri, volgari ville a colori sgargianti che punteggiano le colline intorno alla città - ne vedo una dalla casa dei miei defunti nonni, un pugno nell'occhio fucsia in mezzo al verde.
Questa bruttezza mi perseguita, fin da bambina: a 14 anni sono entrata, per la prima volta, in una scuola di mattoni, dopo aver frequentato elementari e medie in orridi cubi di lastroni prefabbricati, che - peraltro - nascondevano fibre di vetroresina e tracce di amianto; a 11 anni sono entrata in una casa "vera", dopo 8 anni in una casetta di legno. A 18 ho lasciato una città per la quale - tuttora - non provo nulla, se non rabbia: solo qui a Roma posso alzare gli occhi e venire sommersa dalla bellezza. Roma, perfino nei suoi angoli più beceri e volgari, toglie il fiato. Roma ha una sua logica, ha una pianta circolare, che - come una cipolla - mostra l'espansione della città nei secoli, con stili architettonici diversi. Ma, ad Avellino, io non ho una storia da osservare, non ho un quartiere del quale posso dire di essere parte: a Pianodardine, subito accanto al Rione Ferrovia, dove mio padre è nato e dove faceva il bagno nel fiume, oggi si susseguono capannoni industriali in parte abbandonati e si muore per mesotelioma e leucemia (vi dice niente il nome Isochimica? Uno dei molti, preziosi regali che una classe politica scellerata ha voluto fare alla nostra comunità). Per provare un minimo di senso di appartenenza, devo andare sui monti, in mezzo ai nostri boschi. Solo nel verde posso vedere la bellezza dell'Irpinia.
Perché racconto questa storia? Perché sia di monito, perché aiuti a comprendere che non sarà solo in queste ore che le comunità di abitanti delle zone colpite dal terremoto del 24 agosto 2016 avranno bisogno di supporto, solidarietà, attenzione. Vivranno anni in cui dovranno combattere per preservare quel poco di storia e legami col territorio che il sisma ha lasciato in piedi. Vivranno la tentazione di andar via (come ho fatto io). Vedranno l'arrivo di chi vorrà speculare sul dramma: da noi è accaduto, è storia.
Dite di no: è quel che sento di dire a quelle persone. Dite di no quando qualcuno arriverà e vi proporrà "dai, giacché ci siamo costruiamo qui la mega-fabbrica e la mega-tangenziale". Dite di no, quando vi proporranno le new town. Dite di no, quando arriveranno sciacalli pronti ad usufruire degli aiuti statali alla ricostruzione per impiantare stabilimenti in mezzo al verde dell'Appennino: da noi è accaduto, fate che non accada anche alla vostra terra.

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