sabato 4 giugno 2016

“Nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro…”.

Con queste parole nel 1967 Muhammed Alì rifiutò di partire per la guerra in Vietnam.
 

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In realtà non avrebbe fatto nessuna guerra. Il governo USA e le federazione pugilistica gli avevano proposto un servizio militare dorato. Avrebbe girato per le caserme e gli accampamenti a firmare autografi ai soldati che poi sarebbero andati a combattere i partigiani vietnamiti e dopo pochi mesi sarebbe stato rimpatriato con tutti gli onori, nel frattempo avrebbe continuato a detenere il titolo di campione del mondo dei pesi massimi.
Ma Muhammed Ali era di altra tempra rispetto ai personaggi dello spettacolo e dello sport usati come sostegno alle truppe americane in guerra in tutti gli angoli del mondo. Egli non era solo il più grande combattente sul ring di tutti i tempi, ma era un grandissimo combattente per la libertà, i diritti civili, la pace. Anche il cambio del nome da quello anagrafico di Cassius Clay era stato da lui motivato non solo con la conversione all’Islam, ma con il rifiuto del nome che veniva dalla schiavitú.
Per questo suo rifiuto della guerra Muhammad Alì fu condannato a cinque anni di carcere e poi destituito dal titolo e sospeso dalla federazione pugilistica USA. Per i suoi principi e valori perse tutto, ma con la sua tempra di combattente e il suo coraggio tutto riconquistò.


Ottenne alla fine da un giudice il riconoscimento del suo diritto alla obiezione di coscienza e poi fu reintegrato nella boxe. Nel 1974 in Congo riconquistò il titolo mondiale in un epico combattimento con Foreman.
Grazie Muhammed Ali, che la terra ti sia leggera.

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