F.Q. Leonardo Martinelli
Blocco dei trasporti, scioperi a oltranza e manifestazioni di piazza. Da settimane i francesi hanno dichiarato guerra al Jobs act del governo Hollande: il premier Manuel Valls dopo il braccio di ferro ha detto di essere pronto a fare delle modifiche, ma le proteste nonostante questo non si fermano. Il motivo? I nipoti della rivoluzione del 1789 sanno che in Francia più volte la mobilitazione ha spinto chi stava al potere a rinunciare. Due casi fra tutti: la riforma delle pensioni di Juppé nel 1995 e quella dei contratti per gli under 26 nel 2006 di De Villepin: entrambi i provvedimenti furono ritirati dopo le proteste nelle strade.
La battaglia oggi si chiama legge El Khomri. A lamentarsi hanno iniziato i nuovi indignati con le “nuit debout” (letteralmente notti in piedi), poi a seguire in campo sono arrivati i sindacati. Non è la prima volta che i cittadini scendono in piazza per contestare un provvedimento economico, ma non era mai capitato che un esecutivo di sinistra si ritrovasse in Francia con la piazza in rivolta: almeno con un movimento dalle dimensioni simili a quello attuale. E soprattutto mai si era verificato un testa a testa tra un governo della gauche e la Cgt, equivalente della nostra Cgil: sinistra contro sinistra.
La Francia si trova ad affrontare la riforma del lavoro che in molti punti ricorda quella approvata dall’esecutivo italiano nei mesi scorsi. A fare il parallelismo con il caso dell’Italia sono gli stessi francesi: “Matteo Renzi è riuscito a giocare tutte le carte a suo favore per far passare la sua riforma del lavoro”, ha scritto il 30 maggio in un editoriale su Le Figaro Anne Cheyvialle. “Il capo del governo italiano ha lanciato il suo Jobs act all’inizio del mandato, al picco della popolarità. Tutto il contrario dell’esecutivo francese che ha iniziato la battaglia quando era al minimo dei sondaggi, sfiancato da quattro anni al potere. Altra grande differenza: Renzi ha curato il suo piano di comunicazione. Ha martellato senza tregua con il suo messaggio: il Jobs act è una necessità per uscire dalla crisi”.
1995, il “professorino” Juppé s’impunta (inutilmente) – Alain Juppé, sindaco di Bordeaux, è oggi il favorito per le primarie che dovranno scegliere il candidato della destra francese per le presidenziali del 2017 (mentre Nicolas Sarkozy perde sempre più colpi). Proprio Juppé, nel lontano 1995, appena eletto primo ministro, sotto la presidenza di Jacques Chirac, si trovò ad affrontare l’ira della piazza. Con una certa rigidità e presunzione, lui, ex allievo modello dell’Ena, si impuntò su un vasto e ambizioso progetto di riforma della previdenza e delle pensioni, in particolare dei funzionari dello Stato. La Francia si bloccò (treni e metropolitane comprese) per tre settimane. In piazza scesero fino a due milioni di manifestanti. Alla fine il premier dovette ritirare il suo progetto. “Ho imparato la dottrina della goccia d’acqua – ha detto recentemente Juppé -: non bisogna fra traboccare il vaso, volendo fare troppo”.
2006, De Villepin si piega ai giovani – Era ancora presidente Chirac. E la destra si trovava di nuovo al potere, stavolta con Dominique De Villepin come primo ministro. Con l’obiettivo di far ridurre la disoccupazione giovanile, propose il Cpe (Contrat première embauche). Si trattava di un contratto a durata indeterminata, previsto per i giovani con meno di 26 anni, che, però, permetteva al datore di lavoro di licenziare liberamente entro i primi due anni. La vicenda ricorda terribilmente quella attuale, della legge El Khomri, una sorta di Jobs Act in salsa francese, che punta alla riforma del mercato del lavoro e a favorire i licenziamenti. Come oggi Valls, anche allora De Villepin impose il suo provvedimento al Parlamento, senza un vero negoziato in precedenza con i movimenti studenteschi e sindacali, che scesero massicciamente in piazza. Come oggi Valls, anche il premier di allora utilizzò una procedura d’urgenza (detta del 49.3, dall’articolo della Costituzione, che permette l’adozione senza voto in aula) per far passare la legge all’Assemblea nazionale. Venne promulgata da Chirac, che, però, ne dovette sospendere subito l’applicazione. Alla fine sarà definitivamente abrogata.
2010, sulle pensioni Sarkozy s’impone – L’ex presidente, negli ultimi tempi, lo ripete come una litania: “Quando mi paragono, mi rassicuro”. Nel senso che nel 2010 Sarkozy e il suo primo ministro di allora François Fillon si trovarono ad affrontare proteste simili a quelle attuali sul loro progetto di riforma delle pensioni. E questo, in effetti, alla fine passò: meno ambizioso rispetto alla proposta iniziale, comunque con la sua novità principale, l’innalzamento dell’età pensionabile dai 60 ai 62 anni. Di recente Sarkozy ha detto di aver centrato l’obiettivo “senza ricorrere al 49.3 e senza disordini, né violenze”. Vero il primo punto: alla fine il Parlamento approvò il provvedimento regolarmente, votandolo a maggioranza assoluta. Sul resto l’ex presidente ha la memoria corta. Ci furono otto giorni di mobilitazione nazionale. E il 12 ottobre 2010 scesero in piazza a protestare addirittura un milione e 200mila persone. Si registrarono anche i blocchi produttivi ed esterni, con i picchetti, delle raffinerie e dei depositi di carburate, simili a quelli di oggi. E alla fine di quel periodo turbolento e di scontri in piazza, il bilancio fu di 2.254 manifestanti fermati dalle forze dell’ordine. E di 72 poliziotti feriti. Ma Sarkozy, in effetti, l’ebbe vinta. Sarà lo stesso per il tandem Hollande-Valls?
Loi Travail, il ribaltamento delle gerarchie del lavoro: perché la Francia si ribella.
Marta Fana
Dopo Roma e Madrid ora Parigi. La riforma capovolge i
rapporti di forza con le imprese, apre ai licenziamenti economici e
indebolisce i contratti nazionali.
Lo scontro sulla Loi El Khomri o Loi Travail, tra il governo francese e l’opposizione sociale nel Paese, sembra inasprirsi con il passare delle settimane. La nuova legge si colloca nel solco delle cosiddette “riforme strutturali”, caposaldo dell’agenda europea, tese a eliminare le “rigidità” del mercato del lavoro – la contrattazione collettiva, i vincoli al licenziamento e alla compressione dei salari – accusata di ostacolare la competitività delle imprese e con essa la ripresa dell’economia e dell’occupazione
DI COSA PARLIAMO? - L’articolo 2 della legge ribalta la gerarchia delle norme che regolano i tempi di lavoro, i congedi e gli straordinari, sancendo il primato degli accordi stipulati a livello aziendale su quelli di categoria, espressione della contrattazione collettiva finora giuridicamente superiore ai primi. È l’articolo più discusso e contestato, perché andrebbe a modificare i rapporti di forza tra lavoratori e imprese, a favore delle seconde.
Il ribaltamento è confermato in una nota della commissione Affari sociali del Senato del 17 maggio, secondo cui la Loi Travail garantirebbe il “primato dell’accordo aziendale su quello di categoria anche nel caso in cui questo preveda condizioni peggiorative per il lavoratori”. Un esempio riguarda le retribuzioni degli straordinari, che secondo la riforma potrebbero essere pagati con una maggiorazione del 10% sulla paga oraria di base piuttosto che almeno il 25% previsto dall’attuale normativa.
Lo stesso vale per la durata dell’orario lavorativo settimanale, il cui limite legale delle 35 ore potrà essere aggirato da un accordo di impresa senza il parere del sindacato di categoria necessario nell’attuale normativa. E questo fino a una media di 46 ore settimanali (ad oggi fissata in 44 ore) per un massimo di dodici settimane. Il limite massimo giornaliero passa poi dalle dieci alle dodici ore nei casi di riorganizzazione aziendale.
Per comprendere appieno la portata della legge in termini di rapporti di forza tra lavoratori e imprese basta guardare alle disposizioni relative alla “conservazione o sviluppo dell’occupazione” in seno all’impresa. In questi casi l’azienda, indipendentemente dalle condizioni economiche in cui si trova, può proporre ai lavoratori una modifica del tempo di lavoro e delle retribuzioni, in deroga all’accordo di categoria, fatta eccezione per il valore complessivo del salario mensile. Una novità dirompente. Di fatto, l’impresa potrà mantenere il salario mensile intatto aumentando però l’orario di lavoro e riducendo il compenso orario. Il lavoratore che rifiuta l’accordo è allora licenziabile per ragioni “serie e reali”, ma non per ragioni economiche, e potrà consolarsi con un programma di ricollocamento presso il centro per l’impiego.
Inoltre, l’ultima versione della Loi Travail, recependo gli emendamenti della commissione Affari sociali, stabilisce i casi in cui è possibile giustificare i licenziamenti economici, definendoli in base alla riduzione del volume di affari o commesse per un determinato periodo. In particolare, le imprese con meno di 11 dipendenti potranno invocare la questione economica per i licenziamenti nel caso in cui il volume d’affari si riduca durante un intero trimestre, mentre per le imprese con più di 300 dipendenti il calo dovrà riguardare quattro trimestri consecutivi. Nel momento in cui le imprese soddisfano tali requisiti, il giudice non potrà più intervenire nelle dispute, neppure se il calo coinvolge solo l’impresa e non anche l’intero settore.
Un’ulteriore modifica al ribasso per i lavoratori riguarda i risarcimenti in caso di licenziamento illegittimo. La Loi Travail, infatti, introduce un tetto massimo al risarcimento che va da un minimo di 3 mensilità per un’anzianità inferiore ai due anni, fino a un massimo di 15 mensilità per i lavoratori con oltre 20 anni di anzianità. Finora, la legge non prevedeva alcun tetto massimo ma soltanto un plafond minimo di risarcimento.
Alla luce dei punti salienti della riforma del lavoro francese appare chiaro il perché di una mobilitazione così massiccia per boicottarla. Per l’opposizione politica, sindacale e sociale, dietro alla retorica della modernità, l’impianto della legge nasconde l’obiettivo ultimo delle riforme strutturali del mercato del lavoro: il regresso sociale.
Con la Francia si conclude, dopo le riforme in Spagna, Portogallo, Grecia e Italia, la richiesta europea di scaricare sul costo del lavoro i processi di aggiustamento dei singoli Paesi al fine di garantire piena agibilità alle imprese, spesso de-responsabilizzandole per i mancati investimenti. Il caso francese è però emblematico, e solo nelle sue linee di fondo la riforma può essere accomunata al jobs act italiano. Il mercato del lavoro francese è molto più rigido del nostro e ha vissuto una rivendicazione politica radicalmente diversa nel corso degli ultimi decenni. Basti pensare che la legge sulle 35 ore fu introdotta come antidoto alla disoccupazione (“lavorare meno, lavorare tutti”), a cavallo degli anni Duemila, quando in Italia, per far fronte agli stessi obiettivi, venivano via via introdotti il “Pacchetto Treu”, la “Legge Sacconi” (2001) e la “Legge Biagi”.
Non solo. Nei decenni scorsi, la Francia è rimasta sostanzialmente immune alla retorica del lavoro autonomo che in Italia ha portato alla deriva dell’occupazione parasubordinata e delle finte partite Iva. Queste forme di precariato tutte italiane hanno avuto l’effetto, non sgradito alle imprese, di disinnescare la capacità di azione collettiva dei lavoratori. Non è un caso che l’opposizione alla Loi Travail si muova compatta mentre quella al Jobs Act non è riuscita a intercettare, all’interno di un’opposizione comune, le diverse forme di precariato.
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