venerdì 10 giugno 2016

Noi orfani di una rappresentanza politica: Che fare

clau
 
Non sono esente da eccessi di passione, ma in politica il cuore dovrebbe lasciare la supremazia al cervello.

Nelle ore che hanno anticipato le votazioni e in quelle che le hanno seguite si è letto di tutto.

Ho visto compagni e compagne che aspettavano la riscossa.

Prima del voto….

Poi, arriva l’ennesima sconfitta e, anche questa volta, non segue la presa d’atto della nostra marginalità politica e sociale, accompagnata dall’analisi del perché ciò è accaduto.

Le elezioni non sono stadi dove si partecipa da tifosi. L’analisi del voto non è un esercizio matematico, ma obbligatoriamente è una elaborazione scientifica nel senso marxiano del termine che, coniugando gli aspetti politici con quelli sociali, fa emergere cause ed effetti, aiutandoci a trovare le soluzioni. Ogni voto (o non voto), che lo si voglia o no, è il risultato di un percorso che ha attraversato la mente di ogni singolo individuo.
Quel pensiero, che si concretizza con la scelta elettorale, non si accende miracolosamente a dieci minuti del voto. Quell’azione, cioè la croce sul simbolo o astensione che sia, restituisce con un gesto anni di vita vissuta, di esperienze più o meno collettive, di processi culturali, di passioni o frustrazioni.
Sono anni, forse decenni, che cuciniamo la stessa minestra elettorale con gli stessi ingredienti che non piacciono a nessuno e ogni volta pensiamo che il risultato cambi, condannandoci in tal modo al supplizio di Sisifo.
Quindi che fare?
Innanzitutto, studiare per conoscere.
Cosa ha prodotto questa regressione politica e culturale per la quale, a fianco di una totale passività sociale, si produce una polarizzazione politica su tre opzioni che sui fondamentali economici (pilastri di qualsiasi progetto politico) non hanno sostanziali differenze?
PD o PdL oggi pari sono, come dimostrano le trasmigrazioni   da un polo all’altro, modello Verdini.
Ma ancor di più come hanno dimostrato il governo Monti prima e quello Renzi poi.
Un discorso a parte meritano i 5 Stelle.  Certamente, sino ad ora, va loro riconosciuto il merito di una coerenza intransigente sui comportamenti etici.
Ma è questa la missione di un politico, essere onesto?
Questa società così marcia e corrotta ha indotto milioni di persone a pensare che il fine della politica sia l’onestà e non che questa dovrebbe essere la precondizione scontata per far politica.
A nessuno verrebbe in mente di dire che quel signore è un bravo poliziotto perché non ruba.  È ovvio che un tutore della legge non rubi, ma diciamo che è bravo solo se arresta i ladri perché questo è lo scopo del suo lavoro. In politica ormai ci si accontenta che un candidato non sia un ladro, rinunciando a chiedere: ma, assodato che non sei un ladro, cosa proponi per il lavoro e i suoi diritti, per l’economia, la sanità, l’istruzione, le pensioni, i migranti e gli autoctoni?
Che modello democratico o autoritario hai in testa?
Nei 5 Stelle ci sono persone degnissime e altre meno.  Ma non è questo il problema. La realtà è che, tolto il riconoscimento della loro diversità sui temi etici, non rappresentano una alternativa al sistema e il sistema li riassorbirà perché la corruzione non è una malattia che attacca un corpo sano. Ma il sistema stesso è la malattia, essendo la logica conseguenza di una società fondata sui disvalori dell’egoismo, dell’individualismo e dell’”arricchitevi senza scrupoli” (in una parola sulle leggi del mercato).
Quindi tornando al “che fare” occorre comprendere che siamo stati sconfitti alle elezioni perché negli ultimi 30 anni siamo stati sconfitti sul principale terreno di gioco, quello dello scontro tra capitale e lavoro.
Non è uno slogan da dotti professori.
Se oggi prevale una cultura di destra che porta a votare a destra o alla passività qualunquista è perché i padroni, con una strategia decennale, sono riusciti:
  • Prima a frammentare il lavoro con esternalizzazioni, delocalizzazione e privatizzazioni che hanno rotto la filiera produttiva nel privato e l’unicità dei servizi nel pubblico.
  • Poi a rompere la solidarietà di classe tra i lavoratori ponendo tutti in una condizione precaria perché così ricattabile da dover rinunciare anche ad esigere i propri diritti
(Il Jobs act è solo l’ultimo anello di una catena iniziata con la cancellazione del collocamento obbligatorio).
Piano, piano, il luogo che per più di un secolo ha rappresentato l’incubatore della potenziale alternativa al sistema, cioè  il lavoro,  si è  trasformato in una prigione dove singoli individui sono stati costretti in una drammatica solitudine, costantemente in conflitto tra loro, dove  l’unica gratificazione concessa è  appropriarsi di ciò che appartiene a chi ti sta a lato, criminalizzandoti se cerchi di redistribuire la ricchezza di chi si colloca sopra di te nella scala gerarchica. Quella scala si sale solo per cooptazione. … per concessione del potente di turno.
Questa è la precarietà ormai endemica nel sistema che ha prodotto una vera e propria involuzione culturale di massa.
In questa condizione è più utopico credere ancora nel comunismo o che un Fassina o un Basilio Rizzo possano rappresentare la carta “vincente?”
In questa condizione è possibile credere ancora che il problema si risolva accogliendo il sempreverde richiamo del voto utile, del meno peggio, del fermare la destra…?
La logica della limitazione del danno non è mai stata la soluzione ma, al contrario, il senno del poi ci insegna che è risultata una delle cause che ha prodotto l’aggravarsi del danno. Se oggi l’unica alternativa al PD e a Berlusconi appaiono i 5 Stelle è proprio perché anziché proporre alternative si è, al momento della scelta, optato per il meno peggio, che poi tanto “meno” non era.
Oggi votiamo Sala, Giachetti e Fassino, poi a ottobre diciamo no al referendum costituzionale perché è a rischio la democrazia?  E’ questa una alternativa credibile?
È così difficile comprendere che in periodo storico come questo, l’unico modo per avere un po’ più di potere è quello di costruire una opposizione sociale e politica degna di questo nome, che sappia ostacolare la degenerazione autoritaria e liberista proponendosi come alternativa non solo istituzionale ma innanzitutto culturale?
Le istituzioni sono luoghi importanti. Ma per avere un ruolo, e non fare solo testimonianza, occorre essere sostenuti da un conflitto sociale forte ed organizzato: entrare nelle istituzioni senza il supporto di una organizzazione capace di organizzare la lotta equivale a tramutarsi nel cane che abbaia alla luna.
Non ci sono scorciatoie: o l’alternativa riparte dai luoghi di lavoro o chi la propugna sarà condannato all’eterna marginalità.
 Per tornare, non dico a vincere, ma almeno a giocare la partita, è necessario che un sempre maggior numero di lavoratrici e lavoratori si riconosca nell’idea che il vero benessere risiede nelle conquiste collettive e non in qualche privilegio individuale.
Quando si conquista un diritto questo, proprio perché di tutti, è esigibile ed aggregante a prescindere dalla tua condizione individuale, perché quando tocchi uno tocchi tutti. Quando viene concessa a pochi una condizione di miglior favore è solo un privilegio che dura sino a che tu rinunci alla tua dignità di cittadino.
La dimensione collettiva è la base per qualsiasi nuovo modello di sviluppo economico e sociale.
Il nostro futuro si gioca sulla capacità di far uscire dalla solitudine il mondo del lavoro, per ridargli quel ruolo di locomotiva del cambiamento che nessun altro soggetto politico è in grado di assumere.
Prendiamo atto che siamo stati sconfitti, non alle elezioni, ma nella società.  Riorganizziamo le forze per partire per una lunga marcia.
Lo scopo è riattivare la spirale “coscienza, lotta, coscienza”
Prendiamo prima di tutti noi coscienza di ciò che accaduto. Mettiamo in campo tutte le forze che abbiamo per costruire in questo paese una opposizione sociale, assente ormai da quasi un ventennio.
Ogni coscienza che sapremo riaccendere saranno altre dieci persone che saranno coinvolte nella lotta e quindi con molta probabilità nuove maturazioni politiche.
La lotta è come la molla di un orologio, non è mai spontanea, vi è sempre chi la carica.
Il compito di una minoranza, e prendiamone atto che questo noi siamo nella società, è quello di dare la carica sapendo che, per arrivare all’ora giusta per il cambiamento, le lancette dovranno girare molte volte e il tempo non sarà breve.
Prendiamoci tutto il tempo necessario che le ripetute scadenze elettorali ci hanno insegnato non essere quello breve tra una elezione e un’altra.
Prendiamo atto: non era né il nome della lista, né il suo leader la causa della nostra sconfitta.
Se abbiamo la presunzione che la solidarietà, l’uguaglianza, la libertà siano i valori per un mondo migliore, se continuiamo a credere che in una società civile debba esserci la supremazia dello Stato sul profitto, se pensiamo che lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo sia un crimine, allora interroghiamoci su quali strumenti utilizzare per realizzare quella che oggi appare una utopia.
Io ne propongo uno: una organizzazione politica e sociale che dia rappresentanza al mondo del lavoro dipendente nella sua accezione ampia e complessa.
Un soggetto che nel contempo è sia politico che sindacale.
Per far tornare la politica nei luoghi di lavoro l’unico strumento possibile è dotarci di una organizzazione collettiva, di classe (perché vuole essere di parte), capace di ricostruire i rapporti di forza a noi favorevoli. E non penso ad un qualsiasi sindacato.
Sindacati aziendali, o corporativi, né tantomeno consociativi o mini associazioni autoreferenziali sono del tutto dannosi.
Parlo di una organizzazione che, nel tutelare gli interessi, sappia essere il luogo della maturazione culturale e politica non solo dei propri dirigenti ma di tutti i propri aderenti.
Quindi un soggetto anche fortemente politico, con una forte connotazione identitaria, ma non settaria e respingente. Capace di coniugare la mediazione della contrattazione con l’intransigenza sui propri valori.
Compito fondamentale di un sindacato non è quello di descrivere il malessere del mondo del lavoro. Quello i lavoratori e le lavoratrici lo conoscono benissimo.
Il vero compito di questa nuova organizzazione di rappresentanza del mondo del lavoro è quello di far comprendere le vere cause che generano il “malessere”. Coniugare causa ed effetto.
E’ ciò che precedentemente ho chiamato far prendere coscienza. Fare la diagnosi per curare la malattia.
Solo così il mondo del lavoro può tornare ad essere il portatore di un progetto di cambiamento.
Solo iniziando a cambiare le proprie condizioni materiali si può pensare di estendere il cambiamento all’intera società.
Tutto ciò senza mai scordare che la politica, come l’attività sindacale, è l’arte del saper coniugare “il generale al particolare”.
Il mitico “movimento dei lavoratori” inizia da colui che ti sta a fianco al lavoro.
Se il tuo compagno di lavoro non comprende più ciò che diciamo, forse è perché abbiamo smesso di parlare la stessa lingua o peggio abbiamo smesso di parlare nei luoghi di lavoro.
E quando si è afoni in azienda, in ufficio, nella scuola si è sicuramenti perdenti nella società
ça va sans dire.
Giugno 2016

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