Non sono esente da eccessi di passione, ma in politica il cuore dovrebbe lasciare la supremazia al cervello.
Nelle ore che hanno anticipato le votazioni e in quelle che le hanno seguite si è letto di tutto.
Ho visto compagni e compagne che aspettavano la riscossa.
Prima del voto….
Poi, arriva l’ennesima sconfitta e,
anche questa volta, non segue la presa d’atto della nostra marginalità
politica e sociale, accompagnata dall’analisi del perché ciò è accaduto.
Le elezioni non sono stadi dove si
partecipa da tifosi. L’analisi del voto non è un esercizio matematico,
ma obbligatoriamente è una elaborazione scientifica nel senso marxiano
del termine che, coniugando gli aspetti politici con quelli sociali, fa
emergere cause ed effetti, aiutandoci a trovare le soluzioni. Ogni voto
(o non voto), che lo si voglia o no, è il risultato di un percorso che
ha attraversato la mente di ogni singolo individuo.
Quel pensiero, che si concretizza con
la scelta elettorale, non si accende miracolosamente a dieci minuti del
voto. Quell’azione, cioè la croce sul simbolo o astensione che
sia, restituisce con un gesto anni di vita vissuta, di esperienze più o
meno collettive, di processi culturali, di passioni o frustrazioni.
Sono anni, forse decenni, che
cuciniamo la stessa minestra elettorale con gli stessi ingredienti che
non piacciono a nessuno e ogni volta pensiamo che il risultato cambi,
condannandoci in tal modo al supplizio di Sisifo.
Quindi che fare?
Innanzitutto, studiare per conoscere.
Cosa ha prodotto questa regressione
politica e culturale per la quale, a fianco di una totale passività
sociale, si produce una polarizzazione politica su tre opzioni che sui
fondamentali economici (pilastri di qualsiasi progetto politico) non
hanno sostanziali differenze?
PD o PdL oggi pari sono, come dimostrano le trasmigrazioni da un polo all’altro, modello Verdini.
Ma ancor di più come hanno dimostrato il governo Monti prima e quello Renzi poi.
Un discorso a parte meritano i 5
Stelle. Certamente, sino ad ora, va loro riconosciuto il merito di una
coerenza intransigente sui comportamenti etici.
Ma è questa la missione di un politico, essere onesto?
Questa società così marcia e corrotta
ha indotto milioni di persone a pensare che il fine della politica sia
l’onestà e non che questa dovrebbe essere la precondizione scontata per
far politica.
A nessuno verrebbe in mente di dire
che quel signore è un bravo poliziotto perché non ruba. È ovvio che un
tutore della legge non rubi, ma diciamo che è bravo solo se arresta i
ladri perché questo è lo scopo del suo lavoro. In politica ormai ci si
accontenta che un candidato non sia un ladro, rinunciando a chiedere:
ma, assodato che non sei un ladro, cosa proponi per il lavoro e i suoi
diritti, per l’economia, la sanità, l’istruzione, le pensioni, i
migranti e gli autoctoni?
Che modello democratico o autoritario hai in testa?
Nei 5 Stelle ci sono persone
degnissime e altre meno. Ma non è questo il problema. La realtà è che,
tolto il riconoscimento della loro diversità sui temi etici, non
rappresentano una alternativa al sistema e il sistema li riassorbirà
perché la corruzione non è una malattia che attacca un corpo sano. Ma il
sistema stesso è la malattia, essendo la logica conseguenza di una
società fondata sui disvalori dell’egoismo, dell’individualismo e
dell’”arricchitevi senza scrupoli” (in una parola sulle leggi del
mercato).
Quindi tornando al “che fare” occorre
comprendere che siamo stati sconfitti alle elezioni perché negli ultimi
30 anni siamo stati sconfitti sul principale terreno di gioco, quello
dello scontro tra capitale e lavoro.
Non è uno slogan da dotti professori.
Se oggi prevale una cultura di destra
che porta a votare a destra o alla passività qualunquista è perché i
padroni, con una strategia decennale, sono riusciti:
-
Prima a frammentare il lavoro con esternalizzazioni, delocalizzazione e privatizzazioni che hanno rotto la filiera produttiva nel privato e l’unicità dei servizi nel pubblico.
-
Poi a rompere la solidarietà di classe tra i lavoratori ponendo tutti in una condizione precaria perché così ricattabile da dover rinunciare anche ad esigere i propri diritti
(Il Jobs act è solo l’ultimo anello di una catena iniziata con la cancellazione del collocamento obbligatorio).
Piano, piano, il luogo che per più di
un secolo ha rappresentato l’incubatore della potenziale alternativa al
sistema, cioè il lavoro, si è trasformato in una prigione dove
singoli individui sono stati costretti in una drammatica solitudine,
costantemente in conflitto tra loro, dove l’unica gratificazione
concessa è appropriarsi di ciò che appartiene a chi ti sta a lato,
criminalizzandoti se cerchi di redistribuire la ricchezza di chi si
colloca sopra di te nella scala gerarchica. Quella scala si sale solo
per cooptazione. … per concessione del potente di turno.
Questa è la precarietà ormai endemica nel sistema che ha prodotto una vera e propria involuzione culturale di massa.
In questa condizione è più utopico
credere ancora nel comunismo o che un Fassina o un Basilio Rizzo possano
rappresentare la carta “vincente?”
In questa condizione è possibile
credere ancora che il problema si risolva accogliendo il sempreverde
richiamo del voto utile, del meno peggio, del fermare la destra…?
La logica della limitazione del danno
non è mai stata la soluzione ma, al contrario, il senno del poi ci
insegna che è risultata una delle cause che ha prodotto l’aggravarsi del
danno. Se oggi l’unica alternativa al PD e a Berlusconi appaiono i 5
Stelle è proprio perché anziché proporre alternative si è, al momento
della scelta, optato per il meno peggio, che poi tanto “meno” non era.
Oggi votiamo Sala, Giachetti e
Fassino, poi a ottobre diciamo no al referendum costituzionale perché è a
rischio la democrazia? E’ questa una alternativa credibile?
È così difficile comprendere che in
periodo storico come questo, l’unico modo per avere un po’ più di potere
è quello di costruire una opposizione sociale e politica degna di
questo nome, che sappia ostacolare la degenerazione autoritaria e
liberista proponendosi come alternativa non solo istituzionale ma
innanzitutto culturale?
Le istituzioni sono luoghi
importanti. Ma per avere un ruolo, e non fare solo testimonianza,
occorre essere sostenuti da un conflitto sociale forte ed organizzato:
entrare nelle istituzioni senza il supporto di una organizzazione capace
di organizzare la lotta equivale a tramutarsi nel cane che abbaia alla
luna.
Non ci sono scorciatoie: o l’alternativa riparte dai luoghi di lavoro o chi la propugna sarà condannato all’eterna marginalità.
Per tornare, non dico a vincere, ma
almeno a giocare la partita, è necessario che un sempre maggior numero
di lavoratrici e lavoratori si riconosca nell’idea che il vero benessere
risiede nelle conquiste collettive e non in qualche privilegio
individuale.
Quando si conquista un diritto
questo, proprio perché di tutti, è esigibile ed aggregante a prescindere
dalla tua condizione individuale, perché quando tocchi uno tocchi
tutti. Quando viene concessa a pochi una condizione di miglior favore
è solo un privilegio che dura sino a che tu rinunci alla tua dignità di
cittadino.
La dimensione collettiva è la base per qualsiasi nuovo modello di sviluppo economico e sociale.
Il nostro futuro si gioca sulla
capacità di far uscire dalla solitudine il mondo del lavoro, per
ridargli quel ruolo di locomotiva del cambiamento che nessun altro
soggetto politico è in grado di assumere.
Prendiamo atto che siamo stati
sconfitti, non alle elezioni, ma nella società. Riorganizziamo le forze
per partire per una lunga marcia.
Lo scopo è riattivare la spirale “coscienza, lotta, coscienza”
Prendiamo prima di tutti noi
coscienza di ciò che accaduto. Mettiamo in campo tutte le forze che
abbiamo per costruire in questo paese una opposizione sociale, assente
ormai da quasi un ventennio.
Ogni coscienza che sapremo
riaccendere saranno altre dieci persone che saranno coinvolte nella
lotta e quindi con molta probabilità nuove maturazioni politiche.
La lotta è come la molla di un orologio, non è mai spontanea, vi è sempre chi la carica.
Il compito di una minoranza, e
prendiamone atto che questo noi siamo nella società, è quello di dare la
carica sapendo che, per arrivare all’ora giusta per il cambiamento, le
lancette dovranno girare molte volte e il tempo non sarà breve.
Prendiamoci tutto il tempo necessario
che le ripetute scadenze elettorali ci hanno insegnato non essere
quello breve tra una elezione e un’altra.
Prendiamo atto: non era né il nome della lista, né il suo leader la causa della nostra sconfitta.
Se abbiamo la presunzione che la
solidarietà, l’uguaglianza, la libertà siano i valori per un mondo
migliore, se continuiamo a credere che in una società civile debba
esserci la supremazia dello Stato sul profitto, se pensiamo che lo
sfruttamento dell’uomo sull’uomo sia un crimine, allora interroghiamoci
su quali strumenti utilizzare per realizzare quella che oggi appare una
utopia.
Io ne propongo uno: una
organizzazione politica e sociale che dia rappresentanza al mondo del
lavoro dipendente nella sua accezione ampia e complessa.
Un soggetto che nel contempo è sia politico che sindacale.
Per far tornare la politica nei
luoghi di lavoro l’unico strumento possibile è dotarci di una
organizzazione collettiva, di classe (perché vuole essere di parte),
capace di ricostruire i rapporti di forza a noi favorevoli. E non penso
ad un qualsiasi sindacato.
Sindacati aziendali, o corporativi, né tantomeno consociativi o mini associazioni autoreferenziali sono del tutto dannosi.
Parlo di una organizzazione che, nel
tutelare gli interessi, sappia essere il luogo della maturazione
culturale e politica non solo dei propri dirigenti ma di tutti i propri
aderenti.
Quindi un soggetto anche fortemente
politico, con una forte connotazione identitaria, ma non settaria e
respingente. Capace di coniugare la mediazione della contrattazione con
l’intransigenza sui propri valori.
Compito fondamentale di un sindacato
non è quello di descrivere il malessere del mondo del lavoro. Quello i
lavoratori e le lavoratrici lo conoscono benissimo.
Il vero compito di questa nuova
organizzazione di rappresentanza del mondo del lavoro è quello di far
comprendere le vere cause che generano il “malessere”. Coniugare causa
ed effetto.
E’ ciò che precedentemente ho chiamato far prendere coscienza. Fare la diagnosi per curare la malattia.
Solo così il mondo del lavoro può tornare ad essere il portatore di un progetto di cambiamento.
Solo iniziando a cambiare le proprie condizioni materiali si può pensare di estendere il cambiamento all’intera società.
Tutto ciò senza mai scordare che la
politica, come l’attività sindacale, è l’arte del saper coniugare “il
generale al particolare”.
Il mitico “movimento dei lavoratori” inizia da colui che ti sta a fianco al lavoro.
Se il tuo compagno di lavoro non
comprende più ciò che diciamo, forse è perché abbiamo smesso di parlare
la stessa lingua o peggio abbiamo smesso di parlare nei luoghi di
lavoro.
E quando si è afoni in azienda, in ufficio, nella scuola si è sicuramenti perdenti nella società
ça va sans dire.
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