In questa intervista a Slavoj Žižek,
per la prima volta tradotta in italiano, il filosofo sloveno precisa
ancor meglio le sue critiche allo Speculative Realism, dopo averle già svolte nel suo ultimo libro, "Meno che niente". Il punto debole dello Speculative Realism sta nel non comprendere che non solo vi è necessità della contingenza, ma anche contingenza della necessità.
Slavoj Žižek: Ci sono due modi per rispondere alle domande. Posso proporre una breve chiarificazione alla questione specifica sollevata dalla domanda, o affrontare le difficili questioni filosofiche che essa chiama in causa. Cercherò di combinare le due cose.
Ben Wodard: Il realismo Speculativo può essere visto come una risposta non solo alle inadeguatezze della decostruzione e della fenomenologia, ma anche all’uso improprio del termine ‘materialismo’ stesso. In che modo la sua definizione di materialismo riesce a non essere idealismo mascherato? Come considera il termine “realismo” oltre le sue limitazioni positiviste?
SZ: Chi è materialista oggi? Molti orientamenti si dichiarano materialisti: materialismo scientifico (darwinismo, scienze del cervello), materialismo ‘discorsivo’ (ideologia come risultato di pratiche discorsive materiali); ciò che Alain Badiou chiama ‘materialismo democratico’ (l’edonismo spontaneo ed egualitario)… Alcuni di questi materialismi si escludono a vicenda: per i materialisti ‘discorsivi’, è il materialismo scientifico che, nel suo diretto asserire la realtà esterna in maniera presumibilmente ‘naif’, è ‘idealista’ nel senso che non prende in considerazione il ruolo della pratica simbolica ‘materiale’ nel costituire quello che ci sembra essere la realtà; per il materialismo scientifico, il materialismo ‘discorsivo’ è una deriva oscurantista da non prendere sul serio. Sarei tentato di dire che il materialismo discorsivo e il materialismo scientifico sono, nel loro stesso antagonismo, due facce della stessa medaglia, una che sostiene la culturalizzazione radicale (tutto, comprese la nostra conoscenza della natura, è una formazione discorsiva contingente), e l’altra una naturalizzazione radicale (tutto, inclusa la nostra cultura, può essere spiegato in termini di evoluzione biologica naturale).
Il mio punto di partenza è la tesi di Lenin, secondo la quale ogni grande scoperta scientifica cambia la definizione stessa di materialismo. L’ultima grande svolta è stata la fisica quantistica, che ci obbliga a rivoltarci contro Lenin stesso per congedare la definizione di una ‘realtà esterna totalmente esistente’ (‘fully existing external reality’) come premessa di base del materialismo — al contrario, la sua premessa è il ‘non-Tutto’ della realtà (‘non-All’ of reality), la sua incompletezza ontologica. (Ricordiamoci qui l’impasse di Lenin quando, in Materialismo e Empiriocriticismo, propone come minima definizione filosofica di materialismo l’asserzione di una realtà oggettiva che esiste indipendentemente dalla mente umana, senza ulteriori specificazioni: in questo senso, Platone stesso sarebbe un materialista!). Allo stesso tempo, non ha nulla a che fare con una determinazione positiva del contenuto, come ad esempio ‘materia’ contro ‘spirito’, con la sostanzializzazione della Materia nel solo Assoluto (la critica hegeliana qui è completamente giustificata: la ‘materia’ nella sua astrazione è pura Gedankending). Pertanto, non si dovrebbe temere la ‘dissoluzione della materia nel campo delle energie’, largamente denunciata dalla fisica moderna: un vero materialista dovrebbe abbracciarla in pieno. Il materialismo non ha niente a che fare con l’asserzione della densità inerte della materia; è, al contrario, una posizione che accetta il Vuoto definitivo della realtà – la conseguenza della sua centrale tesi sulla molteplicità primordiale è che non c’è realtà ‘sostanziale’, e che la sola ‘sostanza’ della molteplicità è il Vuoto. Questo è il motivo per cui l’opposto del vero materialismo non è tanto un conseguente idealismo ma, piuttosto, il volgare ‘materialismo’ idealista di certi come David Chalmers, il quale propone di spiegare il ‘difficile problema della coscienza’ postulando l’‘auto-consapevolezza’ come un’addizionale, fondamentale forza della natura, insieme alla gravità, al magnetismo, etc. – come, letteralmente, la sua ‘quintessenza’ (la quinta essenza). La tentazione di ‘vedere’ il pensiero come una componente addizionale della realtà naturale/materiale è la volgarità finale.
È a questo punto che, per specificare il significato del materialismo, si dovrebbe applicare le formule lacaniana della sessuazione: c’è una differenza fondamentale tra l’affermazione ‘tutto è materia’ (che si basa sulla sua eccezione costitutiva—nel caso di Lenin che, in Materialismo e Empiriocriticismo, cade in questa trappola, la stessa posizione di enunciazione del soggetto la cui mente ‘riflette’ la materia) e l’asserzione ‘non c’è niente che non sia materia’ (che, insieme all’altro suo lato, ‘non-Tutto è materia’, apre le porte alla spiegazione di fenomeni immateriali). Ciò vuol dire che un materialismo veramente radicale è per definizione non-riduzionista: lungi dal dichiarare che ‘tutto è materia’, esso conferisce ai fenomeni ‘immateriali’ un non-essere specifico e positivo.
Quando, nella sua tesi contro la riduttiva spiegazione della coscienza, Chalmers scrive che ‘anche se conoscessimo la fisica dell’universo fin nel suo dettaglio più profondo—configurazione, causazione ed evoluzione tra tutti i campi e le particelle nella varietà spaziotemporale—queste informazioni non ci condurrebbero a postulare l’esistenza dell’esperienza cosciente’,[2] commette il solito errore kantiano: una tale conoscenza totale è strettamente insensata, epistemologicamente e ontologicamente. È l’altro volto della volgare nozione determinista di Nikolai Bukharin, articolata nel marxismo, quando scrive che, dovessimo venire a conoscere tutta la realtà fisica, dovremmo anche essere capaci di predire esattamente l’insorgere di una rivoluzione. Questa linea di ragionamento—la coscienza come eccesso, surplus, aldilà della totalità fisica—è fuorviante, perché deve evocare un’iperbole senza significato: quando immaginiamo l’Intero della realtà, non c’è più nessuno spazio per la coscienza (e per la soggettività). Il che ci lascia con due possibilità: o la soggettività è un’illusione, oppure la realtà è in se stessa (non solo epistemologicamente) non-Tutto (not-All).
Pertanto, assumendo un punto di vista radicalmente materialista, si dovrebbero considerare senza paura le conseguenze del rigettare la ‘realtà oggettiva’: la realtà si dissolve in frammenti ‘soggettivi’, ma questi frammenti stessi ricadono in un Essere anonimo, perdendo così la propria consistenza soggettiva. Fred Jameson ha messo in luce il paradosso del rifiuto postmoderno di un Sé coerente—il cui risultato finale è che finiamo col perdere il suo contrario; in altre parole, la realtà oggettiva stessa, che si trasforma in una serie di costruzioni soggettive e contingenti. Un vero materialista dovrebbe fare il contrario, cioè, rifiutare di accettare una ‘realtà oggettiva’ per minare alla base la soggettività coerente. Quest’apertura ontologica della molteplicità del meno-uno (‘one-less’) ci permette anche di affrontare in maniera nuova la seconda antinomia di Kant della ragion pura, la cui tesi è: ‘Ogni sostanza composta nel mondo consta di parti semplici, e non esiste in nessun luogo se non il semplice, o ciò che ne è composto’.[3] Questa è la dimostrazione di Kant:
Infatti, se si ammettesse che le sostanze composte non constino di parti semplici, sopprimendo nel pensiero ogni composizione, non resterebbe nessuna parte composta, e (non essendoci parti semplici) nessuna parte semplice, quindi assolutamente niente, e per conseguenza nessuna sostanza sarebbe stata data. O, dunque, è impossibile sopprimere nel pensiero ogni composizione, ovvero, dopo la soppressione di essa, deve restare qualcosa di sussistente senza nessun composizione, cioè il semplice. Ma, nel primo caso, il composto non consterebbe di sostanze (perché in esse la composizione non è se non una relazione accidentale delle sostanze, senza la quale esse devono sussistere come enti per sé stanti). Ora, poiché questo caso contraddice all’ipotesi, così non resta se non il secondo: che cioè il composto sostanziale nel mondo risulta di parti semplici.
Quindi segue immediatamente, che nel mondo le cose sono tutte semplici, che la composizione è solamente uno stato estrinseco di esse, e che, quantunque noi non possiamo mai sottrarre le sostanze elementari a questo stato di unione, pure la ragione deve concepirle come i soggetti primi di ogni composizione, e quindi, anteriormente ad essa, come enti semplici.[4]
Ma cosa succede, però, se accettiamo la conclusione che, alla fine, ‘niente esiste’ (una conclusione che, tra l’altro, è esattamente la stessa del Parmenide di Platone: ‘Se riassumessimo il ragionamento in una frase e dicessimo: Se l’uno non è, allora il nulla è, non diremmo in modo giusto?’[5] Questa mossa, anche se rigettata da Kant come ovvio nonsense, non è così non-kantiana come potrebbe sembrare: è qui che si dovrebbe applicare ancora una volta la distinzione kantiana tra giudizio negativo ed infinito. L’affermazione ‘la realtà materiale è tutto ciò che c’è’ può essere negata in due modi, nella forma: ‘la realtà materiale non è tutto ciò che c’è’ e ‘la realtà materiale è non-tutto’ (‘material reality is non-all’). La prima negazione (di un predicato) conduce alla metafisica standard: la realtà materiale non è tutto; c’è un’altra realtà, più alta, una realtà spirituale…In quanto tale, questa negazione è, in accordo con le formule lacaniane della sessuazione, inerente alla dichiarazione positiva ‘la realtà materiale è tutto ciò che c’è’: in quanto eccezione costitutiva, stabilisce la sua universalità. Se, però, asseriamo un non-predicato e diciamo ‘la realtà materiale è non-tutto’, questo semplicemente asserisce il non-Tutto della realtà, senza presupporre eccezione alcuna—paradossalmente, si dovrebbe quindi dire che la vera formula del materialismo è ‘la realtà materiale è non-tutto’, non ‘la realtà materiale è tutto ciò che c’è’.
Quindi, ricapitolando: siccome il materialismo è oggi l’ideologia egemonica, la lotta è all’interno del materialismo, tra quello che Badiou chiama ‘materialismo democratico’ e… cos’altro? Credo che l’affermazione di Meillassoux sulla contingenza radicale come unica necessità non sia abbastanza—bisogna integrarla con l’incompletezza ontologica della realtà. Meillassoux non è sufficientemente ‘materialista’ nel proporre un materialismo dove c’è di nuovo posto per un Dio virtuale e per la resurrezione dei morti—questo è ciò che accade quando la contingenza non è integrata con l’incompletezza della realtà.
BW: In Nihil Unbound Ray Brassier estende la pulsione di morte nel regno del cosmologico, come estensione dell’‘originaria insensatezza della vita’.[6] Come risponderebbe a questa lettura più freudiana (e meno lacaniana) della pulsione di morte, che forse si basa maggiormente su un discorso di tipo scientifico?
SZ: Mi permetta di ricapitolare la mia posizione: Credo che la nozione cosmologica di ‘insensatezza della vita’ sia una metafora senza significato, senza nessun valore cognitivo. Oltretutto, sono d’accordo con Jean Laplanche che la cosmologizzazione di Freud delle pulsioni ‘di vita e di morte’ (Eros and Thanatos) fosse una regressione ideologica, indice della sua stessa inabilità di riflettere a fondo sulle conseguenze delle sue stesse scoperte. Credo che la riconcettualizzazione lacaniana della pulsione di morte come coazione a ripetere ‘immortale’ svolga un lavoro migliore, introducendo un concetto che ci permette di pensare il livello più basico di come gli umani si distaccano dal regno animale.
Voglio particolarmente evitare affrettate speculazioni cosmologiche—quando Meillassoux scrive della contingente emergenza ex nihilo della Vita dalla materia e del Pensiero dalla vita, arriva pericolosamente vicino ad una nuova versione di ‘ontologie regionali’ nello stile di Nicolai Hartmann, dove l’universo è concepito come una super-posizione di livelli di realtà sempre più stretti: realtà fisica, vita, mente. Credo che una tale ontologia sia inammissibile dal punto di vista della contingenza radicale—per spiegarmi in parole, diciamo, naif: cosa succede se scopriamo che la gerarchia è falsa? Che il processo di pensiero dei delfini è più complesso del nostro? E, incidentalmente, scopriamo su quale scienza si basa la teoria della pulsione di morte di Freud?
BW: A proposito del Reale—una delle significative pietre di paragone di Brassier è la non-filosofia di Francois Laruelle. Laruelle definisce il reale come ‘istanza definita dalla sua radicale immanenza in tutte le condizioni possibili di pensiero: quindi dal suo essere-dato (di) se stesso, tuttavia chiamato Visione-in-Uno o Uno-in-Uno, e dal suo essere-forcluso al pensiero. Il Reale non può ne’ essere conosciuto, ne’ tantomeno “pensato”, ma può essere inscritto in assiomi. D’altra parte, determina-in-ultima-istanza il pensiero come non-filosofico.’ Come replicherebbe al concetto di un reale che è super-discorsivo e comunque definitivamente indecidibile?
SZ: Siccome ho scritto molto a proposito del Reale, mi limiterò a ricapitolare ancora una volta la mia posizione: il Reale di Lacan fa un lavoro migliore. Quello che manca in Laruelle —almeno per come la vedo io—è il Reale come un parallasse puramente formale o come impossibilità: è super-discorsivo, ma ciononostante totalmente immanente all’ordine del discorso—in questo non c’è nulla di positivo, alla fine è solo la rottura o divario che rende l’ordine del discorso sempre ed essenzialmente inconsistente e non-totalizzabile.
BW: In Saas-Fee [sede della European Graduate School], ha parlato del suo dissenso verso l’uso che Quentin Meillassoux fa dell’infinità non-totalizzabile per negare la certezza (o non-contingenza). Sono state fatte molte critiche simili (lei stesso ha menzionato Adrian Johnston)—in che senso la sua è diversa?
SZ: Non mi trovo d’accordo con l’uso che Meillassoux fa dell’infinità cantoriana, molteplice e non-totalizzabile, per screditare l’argomento probabilista contro la contingenza (se la natura è completamente contingente, perché si comporta in maniera così regolare?): sono d’accordo con Johnston sul fatto che l’infinità non-totalizzabile non sia abbastanza per ‘squalificare’ l’argomento probabilista. L’unica cosa che voglio aggiungere, a questo punto, è che nella maniera speculativa hegeliana, le regolarità della natura sono precisamente l’attestazione più alta della contingenza: più la natura si comporta in maniera regolare, seguendo le sue ‘leggi necessarie’, più la contingenza è questa necessità.
BW: Oltretutto, come risponderebbe alla critica di Brassier della sua articolazione della soggettività seguendo la ‘necessaria contingenza’ di Meillassoux? Consideri la seguente citazione:
Al contrario di Hegel, Meillassoux non afferma che la contingenza sia necessaria nel senso che è incorporata nell’assoluto, ma che la contingenza e la contingenza sola sia assolutamente necessaria. Laddove l’idealista speculativo afferma che la contingenza è necessaria nell’assoluto—come nell’esempio preferito di Žižek, dove un materiale contingente determinante è retroattivamente effettivamente postulato dal soggetto come necessario per la realizzazione della sua stessa autonomia—il materialista speculativo afferma che ‘la sola contingenza è assoluta e quindi necessaria’. Come sappiamo, questo ‘principio di s-ragione’(‘principle of un-reason’), lontano dal permettere qualunque cosa e tutto, in realtà impone una costrizione fortemente significativa al caos del tempo assoluto: quest’ultimo non può far niente, a parte dar vita ad un’entità contraddittoria.[7]
E la relativa nota a pie’ di pagina:
‘La libertà non è semplicemente l’opposto della necessità causale deterministica: come Kant sapeva bene, è un modo di causalità specifica; l’auto-determinazione dell’agente. C’è, infatti, un tipo di antinomia kantiana della libertà: se un atto è totalmente determinato da cause precedenti, certamente non è libero; se, tuttavia, dipende dalla pura contingenza che momentaneamente interrompe la catena causale, è ugualmente non libero. L’unica maniera di risolvere quest’antinomia è introdurre una causalità riflessiva di secondo ordine: sono determinato da cause (che possono essere brute cause naturali o motivazioni), e lo spazio della libertà non è una magica crepa in questa catena causale di primo livello, ma piuttosto la mia abilità di scegliere/determinare retroattivamente quali cause mi determineranno’ (Žižek 2006: 203. Tradotto per quest’edizione/La traduzione è nostra). Nello hegelismo di Žižek, il soggetto raggiunge autonomia postulando/reintegrando retroattivamente i suoi stessi determinanti materiali di natura contingente: la libertà è necessità soggettiva di contingenza oggettiva. Tuttavia, dissolvendo l’idea di una connessione necessaria tra causa ed effetto, l’assolutizzazione della contingenza di Meillassoux non solo distrugge il ‘determinismo’ materialista inteso come continuità senza eccezioni del nesso causale, ma anche la concezione idealista di libertà ‘soggettiva’, intesa in termini di causalità riflessiva di secondo ordine descritta da Žižek. Il soggetto non può ‘scegliere’ o determinare la sua stessa determinazione oggettiva, quando la contingenza di tutta la determinazione implica l’eguale arbitrarietà di ogni scelta, e quindi l’efficiente cancellazione della distinzione tra scelta forzata e non-forzata. Così, diventa impossibile distinguere tra compulsione oggettiva e riflesso soggettivo, eteronomia fenomenica e autonomia noumenica. Il principio della fattualità collassa la distinzione tra gli ordini di livello della determinazione, primo e secondo, in tal modo screditando qualunque tentativo di distinzione tra eteronomia oggettiva e autonomia soggettiva.[8]
SZ: Credo che quando Brassier mi attribuisce l’asserzione della necessità di contingenza e del libero atto come gesto in cui ‘un determinante contingente materiale è retroattivamente postulato dal soggetto come necessità’, stia distorcendo la mia posizione, privandola del suo aspetto cruciale: la contingenza della necessità. L’atto di postulare retroattivamente una determinazione contingente come necessaria è in sé contingente.
Per chiarire del tutto questo punto, dobbiamo tornare a Meillassoux. Questi ha ragione nell’opporsi alla contraddizione e al movimento dell’evoluzione, e nel rigettare la nozione standard di movimento come impiego di una contraddizione. Secondo questa nozione standard, la non-contraddizione equivale ad un’auto-identità inamovibile; per Meillassoux, invece, l’universo che doveva asserire completamente la realtà della contraddizione sarebbe un universo identico a se stesso (auto-identico) dove caratteristiche contraddittorie coinciderebbero immediatamente. Le cose si muovono, cambiano col tempo, precisamente perché non possono essere direttamente A e non-A—possono soltanto cambiare gradualmente da A a non-A. C’è tempo, perché il principio d’identità, della non-contraddizione, resiste alla diretta asserzione della contraddizione. Questo è il motivo per cui, per Meillassoux, Hegel non è un filosofo dell’evoluzione, del movimento e dello sviluppo: il sistema di Hegel è ‘statico’, qualunque evoluzione è contenuta nell’auto-identità atemporale di una Nozione.
Su questo mi trovo di nuovo d’accordo, ma la mia scelta è contro l’evoluzione: il movimento dialettico di Hegel non è evoluzionista. Meillassoux non capisce che, per Hegel, il concetto di ‘contraddizione’ non è in opposizione a quello di identità, ma ne costituisce piuttosto il fulcro stesso. ‘Contraddizione’ non è soltanto il reale-impossibile per il quale nessuna identità può essere completamente identica a se stessa, ovvero, identica a se stessa; ‘Contraddizione è identità pura in quanto tale, la coincidenza tautologica di forma e contenuto, di genere e specie—nell’asserire l’identità a se stesso, il genere incontra se stesso come la sua stessa specie ‘vuota’. Questo significa che la contraddizione hegeliana non è una diretta ‘coincidenza di opposti’ (A è non-A) priva di movimento: è l’identità stessa, la sua asserzione, che ‘destabilizza’ una cosa provocando la spaccatura di un’impossibilità nel suo tessuto. In questo troviamo già l’insegnamento all’inizio/che fonda la logica di Hegel: come passiamo dalla prima identità degli opposti, di Essere e Nulla, al Divenire (che si destabilizza poi in Qualcosa)? Se Essere e Nulla sono identici, se si sovrappongono, qual è il motivo di questo movimento in avanti? Precisamente perché Essere e Nulla non sono direttamente identici: Essere è una forma, la prima determinazione formale-nozionale, il cui unico contenuto è Nulla; la coppia Essere/Nulla forma la più grande contraddizione e, per risolvere quest’impossibilità, per uscire da questo stallo, si passa nel Divenire, nell’oscillazione tra i due poli…
Quello che rende il tentativo di Meillassoux così interessante è che rimane, nonostante tutto, più vicino a Hegel di quanto non sembri. Per quel che riguarda l’esperienza della fatticità e/o contingenza assoluta, Meillassoux traspone quello che ai partigiani trascendentali della finitudine appare come limitazione della nostra conoscenza (l’intuizione che possiamo sbagliarci completamente sulla nostra conoscenza, che la realtà stessa possa essere totalmente differente dalla nostra nozione della stessa), nella più basilare e positiva proprietà ontologica della realtà stessa—‘l’assoluto è lo stesso poter-essere-altro, quale viene teorizzato dall’agnostico. L’assoluto è il passaggio possibile, e sprovvisto di ragione, del mio stato verso un altro stato qualsiasi. Ma questo possibile non è un “possibile di ignoranza”, derivante solo dalla mia incapacità di comprendere […]: è il sapere della possibilità autenticamente reale’.[9] Nel cuore dell’In sé:
Nella fatticità non va colta l’inaccessibilità dell’assoluto, ma il disvelamento dell’In sé: la proprietà eterna di ciò che è, e non il segno della perenna insufficienza del pensiero di ciò che è.[10]
In questo modo, ‘la fatticità si rivelerà come un sapere dell’assoluto, poiché noi andiamo infine a ricollocare entro la cosa stessa ciò che avevamo erroneamente scambiato per un’incapacità del pensiero. In altre parole: invece di fare dell’assenza di ragione inerente ad ogni cosa un limite che il pensiero incontra nella sua ricerca della ragione ultima, occorre comprendere che questa assenza di ragione è, e non può essere che la proprietà ultima dell’essente.’[11] Il paradosso di quest’inversione quasi magica dell’ostacolo epistemologico in una premessa ontologica è che ‘è attraverso la fatticità, e solo grazie ad essa, che noi possiamo aprirci un cammino verso l’assoluto’:[12] la contingenza radicale della realtà, questo ‘possibile aperto—questo “tutto è ugualmente possibile”—è un assoluto che non si può de-assolutizzare senza ripensarlo come assoluto.’[13]
Ma allora come può quest’accesso all’assoluto essere riconciliato con l’ovvia limitazione della nostra conoscenza della realtà? Un riferimento a Brecht può venirci in aiuto: in una delle sue riflessioni sul palcoscenico, Brecht contestò ferocemente l’idea che il suo sfondo dovesse rendere la profondità impenetrabile di Tutta la Realtà in quanto oscura Origine delle Cose fuori dalla quale tutto ciò che vediamo e sappiamo appare come frammento. Per Brecht, lo sfondo di un palcoscenico dovrebbe essere idealmente vuoto, bianco e, quindi, suggerire che, dietro quello che vediamo ed esperiamo, non c’è Origine segreta o Fondamento. Questo non implica in nessun modo che la realtà sia trasparente, che ‘conosciamo tutto; è ovvio che ci siano vuoti infiniti, ma il punto è che questi vuoti sono solo questo: vuoti, cose che semplicemente non sappiamo, non una sostanziale realtà ‘più profonda’.
Adesso arriviamo al vero e proprio crocevia speculativo dell’argomentazione di Meillassoux: come fa questi a giustificare questo passaggio dalla (o inversione della) limitazione epistemologica a (o in) caratteristica ontologica positiva? Come abbiamo visto, il criticismo trascendentale pensa la fatticità come indice della nostra finitudine, dei nostri limiti cognitivi, della nostra incapacità di accedere all’assoluto In sé: a noi, alla nostra ragione finita, la realtà appare contingente, ohne Warum, ma, considerata in se stessa, potrebbe anche darsi che la realtà sia non-contingente (ovvero regolata da una necessità spirituale o naturale profonda), il che implicherebbe che o siamo dei meri burattini in un meccanismo trascendente, o che il nostro Sé esso stesso generatore della realtà che percepisce, e così via. In altre parole, per il trascendentalista si dà sempre la ‘possibilità radicale dell’ignoranza’:[14] ignoriamo com’è realmente la realtà e si da sempre la possibilità che la realtà sia radicalmente altra da quello che ci appare. Ma allora, come fa Meillassoux a compiere il passo da questa limitazione epistemologica ad un acceso unico all’assoluto? In maniera profondamente hegeliana, Meillassoux pone proprio in questo punto la sovrapposizione paradossale di possibilità e fattualità:
Come giungete a pensare questa ‘possibile ignoranza’ […]? La verità è che siete arrivati a pensare questo possibile di ignoranza solo perché siete pervenuti effettivamente a pensare l’assolutezza di questo possibile, il suo carattere non-correlazionale.[15]
La prova ontologica di Dio è qui trasformata in maniera materialistica: il punto non è che il solo pensare alla possibilità di un Essere Supremo implichi la fattualità dello stesso; al contrario, è che il fatto stesso di poter pensare alla possibilità di un’assoluta contingenza della realtà, la possibilità del suo essere-altro, del divario radicale tra come la realtà ci appare e com’è in se stessa, comporti la sua fattualità—implicando che la realtà in sé è radicalmente contingente. In entrambi i casi, stiamo trattando con il passaggio diretto del concetto ad esistenza, con quest’ultima che è parte del concetto; tuttavia, nel caso della prova ontologica di Dio, il termine che fa da mediatore tra possibilità (di pensiero) e fattualità è perfezione (la nozione stessa di un essere perfetto implica la sua esistenza), mentre nel passaggio di Meillassoux dalla nozione all’esistenza, il termine mediatore è imperfezione. Se possiamo pensare la nostra conoscenza della realtà (ad esempio, il modo in cui la realtà ci appare) come radicalmente sbagliata, come radicalmente differente dall’Assoluto, allora questo divario (tra per noi e in sé) deve essere parte dell’Assoluto stesso, così che la stessa caratteristica che sembrava tenerci per sempre lontani dall’Assoluto è la sola caratteristica che ci unisce direttamente all’Assoluto. Ma questo spostamento, non è forse lo stesso che troviamo al centro dell’esperienza cristiana? È la stessa separazione radicale dell’uomo da Dio ad unirci a Dio perché, nella figura di Cristo, Dio è profondamente separato da se stesso—quindi il punto non è ‘superare’ il divario che ci separa da Dio, ma prendere nota di come questo divario sia interno a Dio stesso (la cristianità come versione drastica della beffa di Rabinovitch)—solo quando esperisco la pena infinita della separazione da Dio condivido un’esperienza con Dio stesso (Cristo in Croce).
Due cose vanno notate qui. Innanzitutto, l’uso frequente e sistematico che Meillassoux fa di termini hegeliani, anche (e specialmente) nella sua critica di Hegel. Ad esempio, egli caratterizza ripetutamente la sua posizione come ‘speculativa’ (nel senso dell’asserzione post-kantiana dell’accessibilità alla nostra conoscenza dell’assoluto) in opposizione al dogmatismo ‘metafisico’ e pre-critico (che vanta accesso all’assoluta necessità trascendente). Paradossalmente, Hegel conta per lui come ‘metafisico’, anche se fu proprio Hegel ad incorporare il ‘metafisico’, il ‘critico’ (nel senso del criticismo kantiano), e lo ‘speculativo’ come le tre posizioni base del pensiero verso la realtà, rendendo chiaro che la posizione ‘speculativa’ può sorgere soltanto quando si accetta completamente la lezione del criticismo. Non c’è quindi da meravigliarsi che Meillassoux, seguendo Hegel, definisca la sua stessa posizione come quella della ‘conoscenza assoluta’, caratterizzata in maniera veramente hegeliana come ‘il principio di auto-limitazione o auto-normalizzazione dell’onnipotenza del caos’[16]—in breve, come l’emergere di una necessità dalla contingenza:
Infatti, possiamo sperare di sviluppare un sapere assoluto—un sapere del Caos che non si limiti a ripetere che tutto è possibile—solo a condizione di produrre al riguardo altri enunciati necessari, oltre quello che riguarda la sua sola onnipotenza. Ma ciò implica che si scoprano norme e leggi alle quali lo stesso Caos dovrebbe sottomettersi. E non vi è nulla che stia al di sopra della potenza del Caos per costringerlo a piegarsi ad una norma; quindi, se il Caos si sottomette ad una costrizione, quest’ultima non potrà che derivare dalla sua stessa natura di Caos, dalla sua propria onnipotenza. […] La contingenza, la non-necessità così intesa in verità impon[e] a ciò che è di non essere una cosa qualunque. Vale a dire: ciò che è, per rimanere contingente e per non divenire necessario, deve obbedire a delle condizioni non-qualunque che diventano quindi anche delle proprietà assolute di ciò che è.[17]
Ma non è esattamente questo il problema hegeliano? All’inizio della sua Logica abbiamo il processo del Divenire (l’unità di Essere e Nulla), che è il processo profondamente contingente del generare la molteplicità dei qualcosa. La ‘spuria infinità’ dei qualcosa è il caos al livello più puro, senza che vi sia alcunché che lo origini o lo regoli, e l’intero sviluppo della Logica di Hegel è consiste nel processo immanente di ‘auto-limitazione o auto-normalizzazione dell’onnipotenza del caos’: ‘Iniziamo ora a comprendere in cosa consista il discorso sulla sragione – una sragione che non è irrazionale: si tratterebbe di un discorso finalizzato a stabilire i limiti a cui l’entità deve adeguarsi, al fine di esercitare la sua capacità-di-non-essere e la capacità-di-essere-altro’[18]
Questo ‘poter-essere-altro’, espresso nella fenditura che separa per noi e In sé (ad esempio, nella possibilità che la realtà-in sé sia totalmente diversa dal modo in cui ci appare), è l’auto-distanza dell’In-sé, ovvero, la negatività al centro dell’Essere—questo è quanto Meillassoux segnala nella sua proposizione, splendidamente densa, che ‘la cosa-in-sé non è altro che la fatticità delle forme trascendentali di rappresentazione’[19]—in altre parole, nient’altro che il carattere radicalmente contingente della nostra cornice di realtà. Vedere la realtà nella maniera in cui ‘veramente è’ non vuol dire scorgere una realtà ‘più profonda’ sotto la superficie, ma vedere la stessa realtà in tutta la sua contingenza.—Ma allora, perché Meillassoux non confessa apertamente la natura hegeliana della sua scoperta? Innanzitutto, molto semplicemente, perché egli sostiene una lettura canonica della dialettica di Hegel, ovvero, come la descrizione del necessario auto-uso del concetto:
La metafisica hegeliana afferma la necessità di un momento irrimediabilmente contingente entro il processo dell’assoluto: è un momento che si dispiega nel cuore stesso della natura, ove l’infinito passa per pura contingenza […]. Una realtà senza effettività, un puro essere finito, che la gratuità ed il disordine intrinsechi rendono inaccessibile al lavoro del concetto […]. Ma una contingenza di questo tipo è dedotta da un processo dell’assoluto, che in se stesso, in quanto totalità razionale non ha nulla di contingente. La necessità della contingenza non è insomma ricavata dalla contingenza presa da sola, ma da un Tutto ontologicamente superiore ad essa.[20]
Come ho già detto, Meillassoux semplifica qui in maniera cruciale la relazione propriamente hegeliana tra necessità e contingenza. A prima vista, sembrerebbe che la loro unità comprensiva sia la necessità. In altre parole, la necessità stessa si presenta e media la contingenza in quanto campo esterno in cui si esprime e attualizza—la contingenza stessa è necessaria, risultato dell’auto-esteriorizzazione e auto-mediazione della necessità nozionale. Tuttavia, è cruciale integrare quest’unità con il suo opposto, cioè con la contingenza come unità comprensiva di se stessa e della necessità; si potrebbe dire, quindi, che la stessa elevazione di una necessità a principio strutturale del campo contingente di molteplicità è un atto contingente: il risultato di una contingente lotta (lotta ‘aperta’) per l’egemonia. Questo spostamento corrisponde a quello da S a $, dalla sostanza al soggetto. Il punto di partenza è una moltitudine contingente; attraverso la sua auto-mediazione (‘auto-organizzazione spontanea’), la contingenza origina-produce la sua necessità immanente, nello stesso modo in cui l’Essenza è il risultato dell’auto-mediazione dell’Essere. Una volta emersa, l’Essenza ‘propone le sue stesse presupposizioni’, retroattivamente; cioè, sintetizza le sue presupposizioni in momenti subordinati della sua auto-riproduzione (Essere è transustanziato in Apparenza). Tuttavia, questa proposizione è retroattiva.
Di conseguenza, Hegel (piuttosto coerentemente con le sue premesse) non solo deduce la necessità della contingenza, cioè, come l’Idea si esteriorizzi necessariamente (acquisisca realtà) in fenomeni che sono genuinamente contingenti. Oltre a questo, Hegel sviluppa anche l’aspetto opposto (che viene spesso trascurato da molti dei suoi commentatori critici), e che trovo teoricamente molto più interessante: ovvero, quello della contingenza della necessità. In altre parole, quando Hegel descrive il progresso dall’apparenza contingente ‘esterna’ alla sua necessaria essenza ‘interna’—l’‘auto-interiorizzazione’ dell’apparenza attraverso l’auto-riflessione—non sta descrivendo la scoperta di una qualche Essenza interna pre-esistente, quindi la penetrazione verso qualcosa che era già lì (questo processo, ad essere precisi, sarebbe stato una ‘reificazione’ dell’Essenza), ma sta piuttosto descrivendo un processo ‘performativo’ di costruzione (formazione) di ciò che viene ‘scoperto’. O, come Hegel stesso spiega in Logica, nel processo di riflessione, lo stesso ‘ritorno’ al Fondamento perso o nascosto produce quello a cui ritorna. Questo significa che non è soltanto la necessità interna ad essere l’unità di se stessa e della contingenza come suo opposto—il che necessariamente suggerisce la contingenza come suo momento. È anche la contingenza ad essere l’unità comprensiva di se stessa e del suo opposto, la necessità; in altre parole, lo stesso processo attraverso il quale la necessità nasce per necessità è un processo contingente.
La maniera in cui si legge di solito la relazione hegeliana tra necessità e libertà è che, alla fine, queste coincidono: per Hegel, la vera libertà non ha niente a che fare con delle scelte capricciose; vuol dire piuttosto priorità dell’auto-relazione rispetto al relazionarsi-all’-altro: ovvero, un’entità è libera quando può impiegare i suoi potenziali immanenti senza incontrare nessun ostacolo esterno. Da qui, è facile sviluppare il solito argomento contro Hegel: il suo sistema è una serie di categorie completamente ‘saturate’, senza spazio per la contingenza e l’indeterminatezza; cioè, nella logica di Hegel, ogni categoria seguirebbe con inesorabile necessità immanente-logica quella che la precede, e l’intera serie di categorie andrebbe a formare un Tutto che è auto-contenuto…Adesso, però, possiamo capire cos’è che sfugge a questo ragionamento: il processo dialettico hegeliano non è un Tutto ‘saturato’ e auto-contenuto, ma piuttosto il processo aperto-contingente attraverso il quale questo Tutto si forma. In altre parole, il ‘rimprovero’ sopra citato confonde essere con divenire: percepisce come ordine fisso dell’Essere (la rete delle categorie) ciò che per Hegel è processo di Divenire che, retroattivamente, genera la sua necessità.
Lo stesso punto può essere fatto per la distinzione tra potenzialità e virtualità elaborata da Meillassoux.[21] Ad una prima analisi, risulta esserci considerevole prova che Hegel è il filosofo della potenzialità: non è forse punto centrale dello sviluppo dialettico come sviluppo da In sé a Per-sé che, nel processo del divenire, le cose si limitano a ‘divenire ciò che sono già’ (o, piuttosto, ciò che erano da tutta l’eternità)? Non è forse il processo dialettico utilizzo temporale di un’eterna serie di potenzialità, ragion per cui il Sistema hegeliano è una serie auto-comprensiva di passaggi necessari?
Tuttavia, questo miraggio di prove schiaccianti svanisce nel momento stesso in cui prendiamo compiutamente in considerazione la retroattività radicale del processo dialettico: il processo del divenire non è esso stesso necessario, ma il divenire (l’emergenza contingente graduale) della necessità stessa. Questo è (tra le altre cose) quello che significa ‘interpretare la sostanza come soggetto’: soggetto come Vuoto, il Nulla della negatività auto-relazionale, è il vero nihil da cui emerge ogni figura nuova. Ovvero, ogni inversione dialettica è un passaggio dove la nuova figura emerge ex nihilo e retroattivamente postula/crea la sua necessità.
E questo mi porta al grande problema di fondo: lo stato del soggetto. Credo che, nel suo proprio anti-trascendentalismo, Meillassoux rimanga intrappolato nella topica kantiana dell’accessibilità della Cosa-in-sé: quello che esperiamo è una realtà totalmente determinata dal nostro orizzonte soggettivo-trascendentale, oppure possiamo forse arrivare a conoscere qualcosa di come la realtà è, indipendentemente dalla nostra soggettività? Il punto di Meillassoux è aprire un varco verso una ‘realtà’ indipendente, ‘oggettiva’. Per me, in quanto hegeliano, c’è una terza opzione: il vero problema che sorge dopo aver compiuto il gesto base speculativo di Meillassoux (cioè: trasporre la contingenza della nostra nozione di realtà nella cosa stessa) non è tanto cosa ci resta da dire della realtà-in-sé, ma come la nostra prospettiva soggettiva, e la soggettività stessa, possa essere parte della realtà. Il problema non è ‘possiamo penetrare attraverso il velo dei fenomeni soggettivamente costruiti verso le cose-in-sé, ma ‘come fanno i fenomeni stessi ad emergere all’interno della piatta stupidità della realtà che semplicemente è; in che modo la realtà raddoppia se stessa ed inizia ad apparire a se stessa’? Per risolvere questo problema, abbiamo bisogno di una teoria del soggetto che non sia né quella della soggettività trascendentale, né quella che riduce il soggetto ad una parte della realtà oggettiva. Questa teoria, per quanto posso vedere io, manca ancora nel realismo speculativo.
BIBLIOGRAFIA
Brassier, Ray, Nihil Unbound: Enlightenment and Extinction, New York, Palgrave Macmillan, 2007.
Chalmers, David, The Conscious Mind, Oxford, Oxford University Press, 1996.
Kant, Immanuel, Critica della ragion pura, trad. it. di Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo Radice, rivista da V. Mathieu, Roma-Bari, Laterza, 1996 (1781).
Meillassoux, Quentin, Dopo la finitudine: Saggio sulla necessità della contingenza, Milano: Mimesis, 2012.
—, ‘Potentiality and Virtuality’, in Levi Bryant, Nick Srnicek, and Graham Harman (eds.), The Speculative Turn: Continental Materialism and Realism, Melbourne, Re.press, 2010, pp. 224–236.
NOTE
[1]In The Speculative Turn: Continental Materialism and Realism. Levi Bryant, Nick Srnicek and Graham Harman, editori. Re.press, Melbourne 2011.
[2]David Chalmers, The Conscious Mind, Oxford, Oxford University Press, 1996, p. 101. La traduzione è nostra.
[3]Kant, Critica della ragion pura, trad. it. di Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo Radice, rivista da V. Mathieu, Laterza. Roma-Bari 1996 (1781), p. 294.
[4]Ibid.
[5]Platone, Parmenide. La traduzione è nostra.
[6]Ray Brassier, Nihil Unbound: Enlightenment and Extinction, New York, Palgrave Macmillan, 2007, p. 236. La traduzione è nostra.
[7]Brassier, Nihil Unbound, p. 72.
[8]Brassier, Nihil Unbound, p. 247, n. 15.
[9]Quentin Meillassoux, Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza. Milan: Mimesis (edizione Kindle).
[10]Meillassoux, Dopo la finitudine.
[11]Meillassoux, Dopo la finitudine.
[12]Meillassoux, Dopo la finitudine.
[13]Meillassoux, Dopo la finitudine.
[14]Meillassoux, Dopo la finitudine.
[15]Meillassoux, Dopo la finitudine.
[16]Meillassoux, Dopo la finitudine.
[17]Meillassoux, Dopo la finitudine.
[18]Meillassoux, Dopo la finitudine.
[19]Meillassoux, Dopo la finitudine.
[20]Meillassoux, Dopo la finitudine.
[21]Si veda Quentin Meillassoux, ‘Potentiality and Virtuality’, in Levi Bryant, Nick Srnicek, and Graham Harman (eds.), The Speculative Turn: Continental Materialism and Realism, Melbourne, Re.press, 2010, pp. 224–236.
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