Sia per l’Onu che per l’Europa, la tortura è una violazione dei diritti dell’uomo. In Italia invece ancora non è considerata un reato. Per
questo in autunno è necessaria una mobilitazione delle forze politiche
democratiche che, nel nome della dignità, devono far sentire tutta la
propria insofferenza verso questo vulnus giuridico.
di Patrizio Gonnella
Nel
1948 è stata firmata solennemente da tutti gli Stati la Dichiarazione
Universale dei Diritti dell’Uomo L’articolo 5 afferma che: «Nessun
individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizioni
crudeli, inumani o degradanti». Il termine ricompare all’articolo 3
delle quattro convenzioni di Ginevra del 1949 sul trattamento dei
prigionieri di guerra, cuore del diritto umanitario post-bellico. Il
divieto è assoluto essendo assoluta la intangibilità della dignità
umana.
Assolutezza ribadita dal Patto sui diritti civili e
politici del 1966 delle Nazioni Unite il cui articolo 7 afferma che:
«nessuno può essere sottoposto alla tortura, né a punizioni o
trattamenti crudeli o degradanti, in particolare, nessuno può essere
sottoposto, senza il suo libero consenso, a un esperimento medico e
scientifico». Il successivo articolo 10 a sua volta afferma che: «Tutte
le persone private della libertà devono essere trattate umanamente e con
il rispetto dovuto alla dignità inerente all’essere umano».
Nel
1975 sempre in sede Onu viene promulgata la Dichiarazione sulla
protezione di tutte le persone contro la tortura e altri trattamenti
crudeli, inumani o degradanti. All’articolo 2 si afferma perentoriamente
che tutti gli atti di tortura costituiscono una offesa alla dignità
umana. All’articolo 7 gli Stati membri dell’Onu sono invitati a
prevedere al loro interno il delitto specifico di tortura. Una
Dichiarazione nel diritto internazionale, però, è un atto privo di
effetti vincolanti. Implica per gli Stati solo una doverosità morale.
Nel
1984 viene adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la
Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti inumani,
crudeli o degradanti. In questo caso la Convenzione, essendo un
Trattato, vincola chi vi aderisce. E questo Trattato vincola ben 151
Paesi, quasi tutto il globo. L’articolo 1 della Convenzione del 1984
così definisce la tortura: «Ai fini della presente Convenzione, il
termine ‘tortura’ designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a
una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente
al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o
confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha
commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare
pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza
persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di
discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da
un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a
titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso
espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle
sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o
da esse provocate».
La tortura così come definita in sede Onu
si compone dei seguenti quattro elementi: l’inflizione di una acuta
sofferenza fisica e/o psichica, la responsabilità diretta di un
funzionario dell’apparato pubblico, la non liceità della sanzione, la
intenzionalità. E’ questa l’unica definizione di tortura universalmente
riconosciuta.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dà
vita negli anni 1993 e 1994 al Tribunale penale internazionale per la ex
Jugoslavia (TPIJ) e al Tribunale penale internazionale per il Ruanda
(TPIR). Il contributo delle Corti ad hoc è stato comunque significativo
per segnare la universalità della proibizione della tortura e la sua
cogenza. La norma che vieta la tortura è ritenuta disposizione di natura
consuetudinaria con radici lontane nel tempo e diffuse nello spazio.
Nel caso Furundzija il TPIJ, proprio partendo dalla considerazione che
la proibizione della tortura fosse norma di ius cogens, è giunto a
sostenere una responsabilità diretta dello Stato nel caso di mancato
adeguamento interno agli obblighi punitivi internazionalmente imposti.
Lo Stato risponde della tortura dei suoi ufficiali se non ha il divieto
nella sua legislazione.
Nel 1998 a Roma viene firmato lo Statuto
della Corte Penale Internazionale. Vincola gli Stati che ratificano il
relativo Trattato internazionale. Non più quindi una Corte ad hoc nata
per giudicare crimini avvenuti in un dato contesto geografico prima
della nascita della Corte stessa, bensì un tribunale permanente posto a
protezione giudiziaria universale dei diritti umani. Tra i crimini
contro l’umanità che la Corte deve perseguire vi è la tortura. Nel
dicembre del 2002 viene elaborato e posto alla firma degli Stati il
Protocollo Opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura che prevede
un meccanismo universale di controllo dei luoghi di detenzione.
Anche
l’Europa vieta la tortura. La Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà del 1950 all’articolo 3 afferma
perentoriamente che: «nessuno può essere sottoposto a tortura o a pene o
trattamenti inumani o degradanti». Il successivo articolo 15 sancisce
che tale norma non trova eccezione neanche in caso di guerra. (Brani
tratti da un mio libro del 2012, La tortura in Italia, ed. Derive
Approdi).
In Italia la tortura non è ancora un reato. È
inaccettabile, grave, vergognoso. La Camera sta discutendo un testo
pieno di contraddizioni approvato dal Senato. In autunno andremo sotto
il giudizio del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Chissà
se per allora ci sarà uno scatto di reni delle forze politiche
democratiche nel nome della dignità
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