Un'analisi
della moneta unica quasi profetica. In alcuni passaggi sembra un
articolo scritto oggi (basta cambiate al tempo presente alcuni verbi
coniugati al futuro). Un economista marxista aveva chiarito fin
dall'inizio quel che sarebbe accaduto seguendo le indicazioni
dell'Unione Europea.
Dedicato
a quei compagni che si interrogano pensosamente sul "dove andiamo, se
usciamo dall'euro?". Con un consiglio: è ora di chiedersi invece "fin
dove pensiamo di poter sopportare - come paese, come tenuta sociale,
come classi sfruttate - un programma di distruzione delle condizioni di
riproduzione di questa portata?"
L'alternativa
non è infatti tra "europeismo" e "ritorno allo stato nazionale". Ma tra
accettazione di questa Unione Europea oppure lotta per la sua rottura.
Ringraziamo Riccardo Bellofiore, Giovanna Vertova e Odradek per la segnalazione.
LA MONETA AL GOVERNO Augusto Graziani
da la rivista del manifesto, n. 30, luglio-agosto 2002
Allorché
si prospettava l’adozione dell’euro come moneta unica, gli esperti
concordavano nel prevedere per la nuova valuta il destino di una valuta
forte. Nel loro insieme, i paesi ammessi a far parte dell’Unione
monetaria (undici, in seguito divenuti dodici) formavano un mercato
finanziario maggiore di quello statunitense; per di più,alcune delle
valute che venivano fuse nell’euro potevano vantare una tradizione
consolidata di stabilità e solidità, mentre la struttura industriale che
stava alle spalle della nuova moneta era fra le più avanzate del mondo.
Tutte queste previsioni erano destinate a risultare fallaci. A partire
dal 1° gennaio 1999 e fino ad oggi (giugno 2002) la moneta europea,
nonostante la recente ripresa, si è svalutata di circa il 20 % rispetto
al dollaro e di oltre il 10% rispetto allo yen giapponese (lo stesso yen
si è svalutato del 10% sul dollaro).
Per
l’Italia, l’adozione di una moneta comune, unita all’andamento
declinante del corso dell’euro rispetto alle altre grandi valute
mondiali, ha significato l’abbandono di quello che era stato in passato
un carattere tipico della politica valutaria italiana. In anni
precedenti, quando l’Italia poteva condurre una politica valutaria
indipendente, le autorità monetarie (Banca d’Italia e Tesoro) avevano
sempre tentato di realizzare una sorta di linea differenziata. Da un
lato veniva perseguito, se non un lieve apprezzamento della lira, almeno
un tasso di cambio stabile rispetto al dollaro; questa linea aveva lo
scopo di evitare l’aumento dei prezzi in lire delle importazioni quotate
in dollari (anzitutto il petrolio, ma anche macchinari ad alta
tecnologia, brevetti, apparecchi elettronici). Dall’altro, veniva vista
con favore una lieve svalutazione della lira rispetto al marco tedesco,
in quanto poteva incoraggiare le esportazioni verso i mercati europei.
La
strategia dei cambi differenziati era stata ufficialmente inaugurata
fra il 1975 e il 1979 (il sistema di Bretton Woods era crollato fin dal
1971 con la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro e l’Italia si
muoveva in regime di cambi flessibili). La Banca d’Italia era allora
retta da Paolo Baffi, sostenitore convinto di questa strategia, ed
altrettanto diffidente sulle possibilità che la lira italiana riuscisse a
rispettare i vincoli che, a partire dal 1979, le sarebbero stati
imposti con l’adesione, avvenuta nel febbraio del 1979, al Sistema
monetario europeo. Questi lasciò che nel giro di un paio di anni la lira
perdesse oltre il 10% del suo valore rispetto al marco. Una strategia
non dissimile venne nuovamente adottata fra il 1992 e il 1996, quando la
lira uscì dal Sistema monetario europeo e per quattro anni tornò ad
essere una valuta liberamente fluttuante. Questa linea trovava una sua
ragion d’essere nella situazione di fatto: nel 1975 le esportazioni
verso l’area del dollaro (Stati Uniti e paesi Opec) superavano appena il
13% delle esportazioni italiane, mentre le importazioni italiane dagli
stessi paesi si aggiravano sul 25% del totale; era quindi corretto
considerare l’area del dollaro come area italiana di importazione,
mentre l’Europa (intesa come i paesi che oggi costituiscono l’Unione
europea), che assorbiva oltre il 55% delle esportazioni italiane, andava
vista come tipica area di sbocco. Oggi (dati del 2001), le esportazioni
italiane verso l’area del dollaro si muovono ancora intorno al 13% del
totale, ma le importazioni, sempre in termini relativi, si sono ridotte e
non vanno al di là dell’11-12% del totale. I paesi dell’Unione europea
restano dominanti, ma ad essi si aggiungono nuove destinazioni e
provenienze.
Un’inchiesta
molto accurata riguardante il settore industriale della provincia di
Brescia, uno dei comprensori che può essere considerato tipico
dell’industria esportatrice delNord, rivela un declino consistente della
quota di esportazioni dirette in Germania dopo il 1985; al tempo
stesso, poiché l’industria del Centro-Nord sta trasferendo le fasi più
elementari del processo produttivo verso l’Europa dell’est (nel caso
della provincia di Brescia, sembra che il paese favorito sia la
Romania), nasce un movimento crescente di esportazioni e importazioni di
semilavorati con paesi non appartenenti all’Unione europea
(1). Tuttavia, nonostante i cambiamenti in atto, il problema messo a
fuoco da Baffi quasi trent’anni fa, non è stato superato, in quanto le
esportazioni italiane, oggi come allora, vanno perdendo competitività
nei mercati europei. Ciò dipende dal fatto che, sebbene rispetto ai
primi anni ottanta il problema dell’inflazione si possa considerare oggi
del tutto superato, tuttavia il livello dei prezzi monetari italiani
tende ancora a crescere più dei prezzi monetari tedeschi: nei primi
quattro mesi del 2002, l’indice generale dei prezzi al consumo in
Germania segnava un aumento dell’1,9% sull’anno precedente, mentre per
l’Italia l’aumento corrispondente superava il 2,5%. Questa lieve
inflazione strisciante non può più essere compensata da una svalutazione
della lira rispetto al marco. Al tempo stesso, l’apprezzamento del
dollaro rispetto all’euro, apprezzamento durato oltre tre anni, rende le
importazioni italiane più costose e conferma il pericolo di
un’inflazioneimportata.
Tale
pericolo diventerebbe ancora più concreto se il prezzo del petrolio
dovesse volgersi nuovamente all’aumento. Se ciò dovesse accadere, i
paesi europei sarebbero colpiti due volte, sia per l’aumento del prezzo
del greggio in sé, sia per la graduale svalutazione dell’euro rispetto
al dollaro. Ogni aumento di prezzo del greggio colpisce invece gli Stati
Uniti una volta sola, dal momento che il greggio è quotato direttamente
in dollari. Inoltre, l’economia degli Stati Uniti gode di un secondo
privilegio. Il Trattato del Nafta (North American Free Trade Agreement),
in vigore dal 1994, ha creato una zona di libero scambio comprendente
Stati Uniti, Canada e Messico. Alla firma del trattato, gli Stati Uniti
fecero includere una clausola particolarmente vantaggiosa (contenuta
nell’articolo 605 del Trattato), secondo la quale il Canada, che già
esporta verso gli Stati Uniti circa la metà del proprio petrolio, non
potrà ridurre le proprie forniture se non nel caso in cui si riscontri
una riduzione nelle sue risorse. Grazie a questa clausola, gli Stati
Uniti pompano petrolio a discrezione dal Canada, mentre i paesi europei
devono comprare greggio dal Medio Oriente al prezzo fissato
unilateralmente dall’Opec.
Mentre, come abbiamo detto, l’ingresso nell’Unione monetaria europea ha imposto all’Italia un rovesciamento della sua linea tradizionale di politica valutaria, lo stesso non si può ripetere della Germania. Quando in Europa vigevano cambi flessibili (ad esempio fra il 1973 e il 1978) e anche successivamente, quando entrò in vigore il sistema monetario europeo, la Germania fece in modo di mettere in pratica una sua politica valutaria particolare (2). In linea di principio, la Germania accettò più di una volta di rivalutare il marco rispetto alle altre valute europee; ma le successive rivalutazioni del marco furono sempre minori di quanto il differenziale di inflazione avrebbe richiesto per ripristinare il cambio reale precedente. Poiché per molti anni la Germania godette di una sostanziale stabilità dei prezzi, mentre gli altri paesi europei non potevano evitare una lenta ma continua inflazione, con il risultato che il marco tedesco, sebbene ufficialmente rivalutato in termini monetari, in realtà si andava svalutando in termini reali. L’industria tedesca riusciva in tal modo ad accoppiare la sua superiorità tecnologica al vantaggio derivante dalla possibilità di mettere in vendita i propri prodotti a prezzi relativi decrescenti. Questa strategia procurò alla Germania l’accusa di praticare una politica neomercantilista (3).
Oggi la Germania riesce ancora a seguire la stessa linea. Per molti anni il tasso di inflazione tedesco è stato inferiore rispetto a quello di altri paesi europei. In condizioni diverse, questa situazione potrebbe indurre le autorità monetarie tedesche a lasciar che il marco si rivaluti sui mercati; ma, da quando le valute europee sono fuse in una moneta unica secondo le parità fissate alla mezzanotte del 31 dicembre 1998, questo non può più avere luogo.Di conseguenza, le esportazioni tedesche si avvantaggiano di una competitività crescente, come se il marco venisse continuamente svalutato. Il marco tedesco dunque, non soltanto in quanto incorporato nell’euro, ha perso terreno in termini nominali rispetto al dollaro, ma si avvantaggia di un’ulteriore svalutazione in termini reali, grazie al tasso di inflazione più basso rispetto agli altri paesi europei. Col passare del tempo, i tassi di cambio iniziali fissati all’avvento dell’euro divengono sempre meno realistici.
Mentre, come abbiamo detto, l’ingresso nell’Unione monetaria europea ha imposto all’Italia un rovesciamento della sua linea tradizionale di politica valutaria, lo stesso non si può ripetere della Germania. Quando in Europa vigevano cambi flessibili (ad esempio fra il 1973 e il 1978) e anche successivamente, quando entrò in vigore il sistema monetario europeo, la Germania fece in modo di mettere in pratica una sua politica valutaria particolare (2). In linea di principio, la Germania accettò più di una volta di rivalutare il marco rispetto alle altre valute europee; ma le successive rivalutazioni del marco furono sempre minori di quanto il differenziale di inflazione avrebbe richiesto per ripristinare il cambio reale precedente. Poiché per molti anni la Germania godette di una sostanziale stabilità dei prezzi, mentre gli altri paesi europei non potevano evitare una lenta ma continua inflazione, con il risultato che il marco tedesco, sebbene ufficialmente rivalutato in termini monetari, in realtà si andava svalutando in termini reali. L’industria tedesca riusciva in tal modo ad accoppiare la sua superiorità tecnologica al vantaggio derivante dalla possibilità di mettere in vendita i propri prodotti a prezzi relativi decrescenti. Questa strategia procurò alla Germania l’accusa di praticare una politica neomercantilista (3).
Oggi la Germania riesce ancora a seguire la stessa linea. Per molti anni il tasso di inflazione tedesco è stato inferiore rispetto a quello di altri paesi europei. In condizioni diverse, questa situazione potrebbe indurre le autorità monetarie tedesche a lasciar che il marco si rivaluti sui mercati; ma, da quando le valute europee sono fuse in una moneta unica secondo le parità fissate alla mezzanotte del 31 dicembre 1998, questo non può più avere luogo.Di conseguenza, le esportazioni tedesche si avvantaggiano di una competitività crescente, come se il marco venisse continuamente svalutato. Il marco tedesco dunque, non soltanto in quanto incorporato nell’euro, ha perso terreno in termini nominali rispetto al dollaro, ma si avvantaggia di un’ulteriore svalutazione in termini reali, grazie al tasso di inflazione più basso rispetto agli altri paesi europei. Col passare del tempo, i tassi di cambio iniziali fissati all’avvento dell’euro divengono sempre meno realistici.
Riflessi dell’Unione monetaria sui divari regionali
I
divari regionali, ed in particolare il divario fra Nord e Sud, restano
fra i problemi non risolti del paese. Le conseguenze negative
dell’Unione monetaria sono cosa di cui il Mezzogiorno ha fatto
esperienza fin dall’unificazione politica di quasi un secolo e mezzo fa.
Oggi si ritorna a parlare in termini pessimistici delle ripercussioni
che l’unificazione monetaria europea potrà esercitare sull’economia del
Mezzogiorno. La teoria delle unioni monetarie mostra che le conseguenze
di eventi esterni negativi non sono mai simmetriche e colpiscono più
gravemente le regioni deboli rispetto alle regioni dinamiche. Le
industrie tradizionali delle regioni meridionali saranno colpite
negativamente dalla concorrenza proveniente da altri paesi europei come
la Spagna o la Grecia, che possono giovarsi di costi del lavoro più
bassi; e lo svantaggio potrà essere aggravato dalla presenza di
diseconomie esterne, dovute all’inadeguatezza delle infrastrutture come
strade, ferrovie, aeroporti, telecomunicazioni e servizi in generale.
Sebbene una svalutazione della lira del Sud contro la lira del Nord non sia nemmeno concepibile, qualcosa di non molto lontano venne suggerito in passato, quando si ventilò la possibilità di una svalutazione virtuale, da applicarsi non già ai movimenti effettivi di merci, ma almeno alle analisi costi-benefici effettuate per la valutazione degli effetti della spesa pubblica. Una pratica simile avrebbe i suoi vantaggi in quanto, producendo un aumento dei costi di importazione, darebbe luogo a una collocazione più favorevole in graduatoria per gli investimenti che fanno maggiore ricorso a produzioni locali. Altri,s ottolineando il fatto che una svalutazione della moneta locale esercita sui movimenti di merci conseguenze simili a quelle di una riduzione dei salari, ne deducono che i sindacati non dovrebbero insistere per applicare salari uguali in tutto il territorio nazionale e dovrebbero invece accettare il principio di salari territorialmente differenziati in relazione alla produttività del lavoroin ogni regione.
Non si può ignorare d’altro canto che, per quanto possa sembrare paradossale,il processo di globalizzazione dell’economia e l’unificazione monetaria europea non hanno mancato di produrre anche conseguenze positive per l’economia del Mezzogiorno. Come si è già ricordato, numerose imprese del Nord hanno dislocato fasi della produzione in altri paesi, là dove il costo del lavoro è più basso e la legislazione a tutela dell’ambiente meno rigorosa. Anni addietro i paesi favoriti furono quelli dell’Estremo Oriente. Oggi le imprese privilegiano l’Est europeo, la Turchia, l’Albania. Questa misura estrema di riorganizzazione a grande distanza resta tuttavia appannaggio delle imprese dotate di dimensione edi capacità finanziaria adeguate per affrontare lo sforzo necessario. Le imprese minori, egualmente poste sotto pressione dalla concorrenza, ma non in grado di trasferirsi in paesi lontani, decentrano parte delle loro attività nelle regioni del Sud. Ha così preso avvio la così detta ‘linea adriatica’ dello sviluppo, seguita ormai da incursioni sempre più profonde nell’entroterra. Ne risulta il sorgere di un numero crescente di piccole imprese, molte delle quali lavorano, direttamente o indirettamente sulla base di commesse provenienti dal Nord.
Sviluppi simili suscitano giudizi molto svariati. Alcuni salutano la nascita di questa popolazione di piccole imprese come un punto di svolta nello sviluppo industriale del Mezzogiorno. Nell’opinione di costoro, l’antica politica dei grandi impianti, messa in atto negli anni sessanta e settanta ad opera di imprese private e pubbliche, rappresentò una forzatura ed un grave errore di strategia; viceversa, la nascita di imprese minori, frutto di iniziativa locale spontanea, potrebbe condurre finalmente a trapiantare anche nel Mezzogiorno l’esperienza felice dei distretti industriali che hanno fatto la fortuna di tante regioni dell’Italia centrale (4). Non mancano peraltro giudizi nettamente opposti: si fa rilevare che le imprese minori del Mezzogiorno vivono per lo più come imprese sommerse, occupano lavoro irregolare, violano le norme di sicurezza, non rispettano le prescrizioni riguardanti l’ambiente di lavoro. Imprese di questa natura non potrebbero diventare la via di ingresso del progresso tecnologico, e non farebbero che consolidare l’arretratezza industriale della regione, sia pure a livelli di reddito più elevati. Alla popolazione crescente delle microimprese, viene contrapposta – come esempio di sviluppo assai più promettente – la presenza di un numero limitato ma significativo di nuove imprese ad alta tecnologia nel settore dell’informatica (5).
Sebbene una svalutazione della lira del Sud contro la lira del Nord non sia nemmeno concepibile, qualcosa di non molto lontano venne suggerito in passato, quando si ventilò la possibilità di una svalutazione virtuale, da applicarsi non già ai movimenti effettivi di merci, ma almeno alle analisi costi-benefici effettuate per la valutazione degli effetti della spesa pubblica. Una pratica simile avrebbe i suoi vantaggi in quanto, producendo un aumento dei costi di importazione, darebbe luogo a una collocazione più favorevole in graduatoria per gli investimenti che fanno maggiore ricorso a produzioni locali. Altri,s ottolineando il fatto che una svalutazione della moneta locale esercita sui movimenti di merci conseguenze simili a quelle di una riduzione dei salari, ne deducono che i sindacati non dovrebbero insistere per applicare salari uguali in tutto il territorio nazionale e dovrebbero invece accettare il principio di salari territorialmente differenziati in relazione alla produttività del lavoroin ogni regione.
Non si può ignorare d’altro canto che, per quanto possa sembrare paradossale,il processo di globalizzazione dell’economia e l’unificazione monetaria europea non hanno mancato di produrre anche conseguenze positive per l’economia del Mezzogiorno. Come si è già ricordato, numerose imprese del Nord hanno dislocato fasi della produzione in altri paesi, là dove il costo del lavoro è più basso e la legislazione a tutela dell’ambiente meno rigorosa. Anni addietro i paesi favoriti furono quelli dell’Estremo Oriente. Oggi le imprese privilegiano l’Est europeo, la Turchia, l’Albania. Questa misura estrema di riorganizzazione a grande distanza resta tuttavia appannaggio delle imprese dotate di dimensione edi capacità finanziaria adeguate per affrontare lo sforzo necessario. Le imprese minori, egualmente poste sotto pressione dalla concorrenza, ma non in grado di trasferirsi in paesi lontani, decentrano parte delle loro attività nelle regioni del Sud. Ha così preso avvio la così detta ‘linea adriatica’ dello sviluppo, seguita ormai da incursioni sempre più profonde nell’entroterra. Ne risulta il sorgere di un numero crescente di piccole imprese, molte delle quali lavorano, direttamente o indirettamente sulla base di commesse provenienti dal Nord.
Sviluppi simili suscitano giudizi molto svariati. Alcuni salutano la nascita di questa popolazione di piccole imprese come un punto di svolta nello sviluppo industriale del Mezzogiorno. Nell’opinione di costoro, l’antica politica dei grandi impianti, messa in atto negli anni sessanta e settanta ad opera di imprese private e pubbliche, rappresentò una forzatura ed un grave errore di strategia; viceversa, la nascita di imprese minori, frutto di iniziativa locale spontanea, potrebbe condurre finalmente a trapiantare anche nel Mezzogiorno l’esperienza felice dei distretti industriali che hanno fatto la fortuna di tante regioni dell’Italia centrale (4). Non mancano peraltro giudizi nettamente opposti: si fa rilevare che le imprese minori del Mezzogiorno vivono per lo più come imprese sommerse, occupano lavoro irregolare, violano le norme di sicurezza, non rispettano le prescrizioni riguardanti l’ambiente di lavoro. Imprese di questa natura non potrebbero diventare la via di ingresso del progresso tecnologico, e non farebbero che consolidare l’arretratezza industriale della regione, sia pure a livelli di reddito più elevati. Alla popolazione crescente delle microimprese, viene contrapposta – come esempio di sviluppo assai più promettente – la presenza di un numero limitato ma significativo di nuove imprese ad alta tecnologia nel settore dell’informatica (5).
I poteri della Banca centrale europea
Sorge
qui il problema del controllo dell’inflazione nei paesi europei e delle
funzioni attribuite alla Banca centrale europea. È diffusa l’opinione
che la Bce abbia assunto tutti i poteri dapprima affidati alle singole
banche centrali nazionali e che, quindi, ilcontrollo completo della
politica monetaria si trovi oggi nelle sue mani. Secondo questo modo di
vedere, la Bce, quanto a struttura e poteri, sarebbe sorta come
istituzione del tutto simile alla Federal Reserve americana. E infatti,
quando la Bce venne ideata, era impressione unanime che essa dovesse
diventare la vera Banca centrale di tutti i paesi partecipanti, al punto
che non mancò chi denunciò come improprio l’aver affidato poteri così
estesi a un’istituzione sottratta a ogni controllo democratico da parte
degli elettori (6). Viceversa, come ha ricordato di recente Steiger,
divenne presto chiaro che non sarebbe stato così (7). La Bce fissa il
tasso ufficiale di sconto (il così detto tasso di riferimento) per tutti
i paesi partecipanti. Ma, al di là di questo, essa non esercita alcun
vero controllo sulla quantità di moneta e, cosa ancor più importante,
non svolge alcuna funzione di prestatore di ultima istanza in caso di
crisi. Inoltre, la Bce non ha alcuna competenza sul controllo del cambio
fra euro e altre valute, controllo che è rimasto affidato al Consiglio
dei ministri degli Esteri dei paesi dell’Unione.Questi poteri
limitati della Bce trovano riscontro anche nella struttura
istituzionale dei suoi organi. La Bce è governata da un Comitato
esecutivo di sei membri, in linea di principio assolutamente
indipendente dai governi dei paesi partecipanti (il fatto stesso che i
componenti del Comitato esecutivo siano in numero inferiore rispetto al
numero dei paesi partecipanti viene addotto a riprova della totale
indipendenza fra Comitato e governi). Però, al di sopra del Comitato
esecutivo esiste un altro organismo, il Consiglio direttivo, nel quale
sono presenti, accanto ai sei membri del Comitato, i Governatori di
tutte le Banche centrali nazionali. Costoro sono attualmente in numero
di dodici e quindi, se concordi, potrebbero facilmente mettere in
minoranza il Comitato esecutivo. Naturalmente, secondo le regole che si è
data l’Unione europea, anche i Governatori delle Banche centrali
nazionali sono indipendenti dai rispettivi governi; ma è cosa nota, e
sovente fatta notare, che i legami fra governi e Banca centrale sono
invece molto stretti in tutti i paesi. Questa struttura lascia
sospettare che le singole Banche nazionali godano ancora di poteri di
fatto non trascurabili per quanto riguarda il controllo della quantità
di moneta; circostanza questa ulteriormente confermata dal fatto che i
criteri applicati nel valutare la carta commerciale presentata al
risconto sono tuttora diversi in ogni paese. La Bundesbank si vanta ad
esempio di applicare criteri molto più rigorosi di altre banche centrali
(potrebbe esservi un’allusione alla Banca d’Italia) nel valutare la
solidità delle promesse di pagamento ammesse al risconto.
La
svalutazione dell’euro ha favorito le esportazioni italiane verso
l’area del dollaro; al tempo stesso, il tasso di inflazione
tendenzialmente più alto in Italia rispetto alla media europea
rappresenta, in regime di valuta unica, uno svantaggio all’interno
dell’area europea. In passato, vi furono epoche nelle quali l’industria
italiana era sempre pronta ad accettare ogni aumento di salario, per
quanto elevato, richiesto dai sindacati. La ragione di questo
atteggiamento accomodante risiedeva nel fatto che le imprese sapevano di
poter compensare l’aumento dei salari con un aumento dei prezzi di
vendita. L’intera operazione era resa possibile dalle autorità
monetarie, pronte ad accordare alle imprese il credito necessario per
fare fronte a un monte salari accresciuto e disposte a lasciar slittare
la lira rispetto alle altre valute in modo da evitare una perdita di
competitività delle esportazioni. Oggi che la valuta europea è divenuta
una valuta unica, mentre la fissazione del tasso di sconto è stata
spostata dalle Banche centrali nazionali alla Bce, ogni aumento di
salari, non potendo più essere compensato da un aumento dei prezzi e da
una svalutazione della moneta nazionale, finisce con l’incidere
immediatamente sui profitti. Gli aumenti di salario possono oggi essere
compensati soltanto da aumenti corrispondenti della produttività,
ottenuti grazie all’ingresso del progresso tecnico.
Questo
dovrebbe essere l’obiettivo di una politica industriale corretta.
L’industria italiana ha scelto viceversa una strada diversa e
precisamente quella di puntare sulla compressione del costo del lavoro.
Spostando la produzione dalla grande industria ai piccoli opifici
decentrati, concordando con il sindacato una proliferazione di contratti
di lavoro atipici, sviluppando l’impiego del lavoro irregolare e
sommerso, l’industria italiana ha messo in atto altrettanti strumenti
per aumentare la produttività e ridurre drasticamente il costo del
lavoro. Il vantaggio immediato di questa strategia è indiscutibile. Le
conseguenze di lungo periodo sono molto più dubbie. Un’industria basata
sui settori tradizionali, che sopravvive nella ricerca continua di una
compressione del costo del lavoro, è destinata a perdere terreno nel
mercato internazionale. Un numero crescente di paesi in via di sviluppo
può contare su un costo del lavoro assai più basso di quello italiano e,
infatti, l’industria di quei paesi sta guadagnando quote di mercato
crescenti. La svalutazione dell’euro ha consentito di guadagnare
competitività nell’area del dollaro; ma se, come a volte sembra debba
accadere, la tendenza dovesse capovolgersi e l’euro riguadagnare
terreno, questa compensazione parziale sarebbe destinata a scomparire.
La strategia della Banca centrale europea
La
svalutazione dell’euro, che essa sia dovuta alla debolezza
dell’economia europea o al fatto che i mercati finanziari americani
risultano più attraenti per i capitali speculativi, pone alla Bce
problemi di non facile soluzione. Numerosi osservatori, nel commentare
il declino dell’euro, non hanno risparmiato critiche alla Bce, accusata
di non aver difeso la moneta europea con sufficiente energia. In realtà,
si potrebbe discutere sul se la debolezza dell’euro sia dovuta a
valutazioni negative dei mercati o sia tollerata dalla Bce per più
concrete ragioni economiche.
Un
rimedio immediato, volto a rafforzare il corso dell’euro, sarebbe
quello di aumentare i tassi di interesse, nella speranza che, aumentando
il rendimento dei titoli nell’area europea, le fughe di capitali verso
l’area del dollaro vengano scoraggiate. In realtà, i tassi vigenti negli
Stati Uniti si sono ridotti e, da oltre un anno, il tasso della Bce è
stato più alto del tasso praticato dalla Riserva Federale; ma questo non
ha esercitato alcun influsso tangibile sull’andamento del cambio fra
euro e dollaro. Inoltre un aumento dei tassi praticato dalla Bce sarebbe
fortemente criticato da molte parti: dalle imprese, che chiedono tassi
di interesse miti per proteggere i profitti, dagli esportatori, che
vedono con favore il deprezzamento dell’euro che favorisce le
esportazioni, dai responsabili governativi, sempre tormentati dallo
spettro del debito e dal timore di accrescere il disavanzo del bilancio
pubblico, dagli studiosi, che sottolineano le conseguenze negative che
tassi di interesse elevati producono sugli investimenti e sul livello di
occupazione. Non si può escludere che siano state proprio motivazioni
di questo genere a indurre la Bce ad aumentare il tasso di riferimento
soltanto in misura ridotta: dal 3% iniziale fino al 4,75% nell’ottobre
2000 e, a partire dal maggio 2001, aridurlo nuovamente fino a portarlo
al 3,25 attuale.Difficile immaginare quali potranno essere
gli sviluppi futuri. Non si può evitare il sospetto che l’euro finisca
col diventare una valuta strutturalmente debole, con circolazione
prevalentemente locale. Nei secoli passati, il regime della doppia
circolazione era accettato come normale: le monete auree (come il
fiorino di Firenze o il ducato di Venezia) venivano usate nei grandi
commerci ed erano la moneta degli scambi con l’estero, mentre le valute
locali minori,esposte alla tosatura e alla svalutazione frequente,
venivano usate per il pagamento dei salari e per il commercio al
dettaglio (8). La coesistenza pacifica fra euro e dollaro potrebbe
realizzarsi attraverso una divisione simile delle funzioni di ognuna
delle due valute.
La posizione centrale del dollaro
La
svalutazione progressiva dell’euro rispetto al dollaro viene attribuita
a cause diverse: il tasso di sviluppo più veloce degli Stati Uniti, che
induce gli investitori a sperare in profitti crescenti, o i tassi di
interesse più elevati vigenti nei mercati finanziari americani, che
assicurano rendimenti più elevati ai capitali finanziari. In passato, le
affermazioni ripetute del Governatore Duisenberg – che sottolineava il
fatto che la Bce non avrebbe attuato una difesa a oltranza del corso
dell’euro – non hanno fatto che incoraggiare i movimenti di capitali
speculativi verso l’area del dollaro e provocare una progressiva
svalutazione dell’euro.
Non bisogna dimenticare d’altro canto che la rivalutazione del dollaro aveva avuto inizio anche prima che l’euro venisse creato. Il cambio del dollaro rispetto al marco tedesco e allo yen giapponese aveva cominciato a crescere fin dal 1985 e la crisi asiatica del 1997 non aveva fatto che rafforzare questa tendenza. Per i paesi del Sud-est asiatico, che avevano legato la loro valuta al dollaro, questo movimento rappresentò una rivalutazione – non voluta – della propria valuta nazionale rispetto allo yen e alle valute europee. Una rivalutazione che raggiunse anche il 40% ed esercitò un inevitabile e grave influsso negativo sulle esportazioni dei paesi asiatici. Paesi che avevano visto le proprie esportazioni crescere anche del 20% all’anno, e insieme crescere il proprio reddito nazionale al 7-8% all’anno, si trovarono repentinamente messi fuori mercato. Il Fondo monetario internazionale intervenne con la prescrizione di liberalizzare totalmente i mercati dei cambi e consentire piena libertà nei movimenti di capitali. Un solo paese, la Malaysia, si rifiutò di applicare queste indicazioni e, in un momento successivo, l’allora direttore del Fondo, il francese Camdessus, riconobbe la fondatezza delle sue ragioni. In altri paesi, le fughe di capitali, ormai svincolate da ogni controllo, produssero svalutazioni violente delle monete nazionali (fino al 50% rispetto al dollaro, come fu il caso del won coreano o del bath tailandese). Quando tutti questi paesi, l’uno dopo l’altro, ebbero distaccata la propria valuta dal dollaro, imprese e banche che si trovavano gravemente indebitate in dollari videro improvvisamente raddoppiato l’onere del proprio debito espresso in valuta nazionale.
Questo fu l’inizio dei crolli di borsa e di fallimenti a catena. Grandi gruppi coreani come i gruppi Kia (autoveicoli) o Halla (cantieri) dichiararono lo stato di insolvenza. La svalutazione delle valute asiatiche, insieme allo stato di crisi di tanti gruppi industriali, aprì la strada all’ingresso di capitali stranieri, che si affrettarono ad acquistare imprese in crisi. In questa corsa, i paesi europei (Francia, Germania, Olanda) non furono da meno degli Stati Uniti. Tutto questo ebbe luogo con il compiacimento del Fondo monetario. In precedenza, molti paesi asiatici avevano posto limiti alla presenza di capitali stranieri, specie nelle industrie considerate strategiche. Ora, invece, il Fondo incoraggiava la presenza di capitali stranieri nell’industria nazionale, nella convinzione che questa fosse fonte di buona amministrazione e di efficienza produttiva. Perduta ogni possibilità di condurre una politica monetaria o industriale autonoma, i paesi asiatici sono divenuti un mercato fertile, aperto alle importazioni di prodotti statunitensi.
D’altro canto, non va sottovalutato il fatto che qualcosa sta cambiando nell’atteggiamento degli Stati Uniti rispetto all’euro. La forza del dollaro e la debolezza dell’euro, se giocano a favore delle esportazioni europee, comportano una perdita di competitività dell’industria statunitense. Non vi è da stupirsi se la bilancia commerciale degli Stati Uniti resti perennemente passiva. Inoltre, come molti fanno osservare, mentre in passato il disavanzo esterno andava di pari passo con un disavanzo nel bilancio del Governo federale (la così detta situazione dei disavanzi gemelli), oggi, dal momento che il bilancio del Governo federale chiude in attivo, rimane in vita il solo disavanzo esterno. Si dovrebbe dire quindi che il disavanzo esterno, non essendo più riconducibile alla spesa pubblica, è interamente dovuto al settore privato; e poiché i profitti delle imprese statunitensi non si sono annullati,il debito dovrebbe ricadere per intero sui consumatori. Ma, si chiedono alcuni osservatori, per quanto tempo le famiglie americane potranno continuare ad accrescere i propri debiti? È davvero possibile considerare questa situazione come stabile e capace di riprodursi indefinitamente nel tempo? Non pochi sarebbero inclini a dare a questi interrogativi una risposta negativa.
Negli Stati Uniti cominciano a comparire segni di insoddisfazione per questa svalutazione dell’euro, che alcuni iniziano a considerare come voluta e sleale. Qualcosa del genere si era manifestato nel 1993-94, quando gli Stati Uniti si trovarono di fronte a quella che veniva considerata una svalutazione competitiva dello yen, con conseguente invasione di merci giapponesi nei mercati americani. Anche oggi cominciano a comparire lamentele, da parte di imprese grandi e piccole. Potrebbe qui nascere un conflitto di interessi fra l’industria americana e quella europea. Vi è quindi da attendersi che, se qualcosa cambierà nella politica valutaria europea, questo avverrà più per pressioni provenienti dall’altra sponda dell’Atlantico che non per interesse diretto dei paesi europei. I segni di rivalutazione dell’euro, che cominciano a comparire sporadicamente, potrebbero allora segnare un’inversione di tendenza.
Non bisogna dimenticare d’altro canto che la rivalutazione del dollaro aveva avuto inizio anche prima che l’euro venisse creato. Il cambio del dollaro rispetto al marco tedesco e allo yen giapponese aveva cominciato a crescere fin dal 1985 e la crisi asiatica del 1997 non aveva fatto che rafforzare questa tendenza. Per i paesi del Sud-est asiatico, che avevano legato la loro valuta al dollaro, questo movimento rappresentò una rivalutazione – non voluta – della propria valuta nazionale rispetto allo yen e alle valute europee. Una rivalutazione che raggiunse anche il 40% ed esercitò un inevitabile e grave influsso negativo sulle esportazioni dei paesi asiatici. Paesi che avevano visto le proprie esportazioni crescere anche del 20% all’anno, e insieme crescere il proprio reddito nazionale al 7-8% all’anno, si trovarono repentinamente messi fuori mercato. Il Fondo monetario internazionale intervenne con la prescrizione di liberalizzare totalmente i mercati dei cambi e consentire piena libertà nei movimenti di capitali. Un solo paese, la Malaysia, si rifiutò di applicare queste indicazioni e, in un momento successivo, l’allora direttore del Fondo, il francese Camdessus, riconobbe la fondatezza delle sue ragioni. In altri paesi, le fughe di capitali, ormai svincolate da ogni controllo, produssero svalutazioni violente delle monete nazionali (fino al 50% rispetto al dollaro, come fu il caso del won coreano o del bath tailandese). Quando tutti questi paesi, l’uno dopo l’altro, ebbero distaccata la propria valuta dal dollaro, imprese e banche che si trovavano gravemente indebitate in dollari videro improvvisamente raddoppiato l’onere del proprio debito espresso in valuta nazionale.
Questo fu l’inizio dei crolli di borsa e di fallimenti a catena. Grandi gruppi coreani come i gruppi Kia (autoveicoli) o Halla (cantieri) dichiararono lo stato di insolvenza. La svalutazione delle valute asiatiche, insieme allo stato di crisi di tanti gruppi industriali, aprì la strada all’ingresso di capitali stranieri, che si affrettarono ad acquistare imprese in crisi. In questa corsa, i paesi europei (Francia, Germania, Olanda) non furono da meno degli Stati Uniti. Tutto questo ebbe luogo con il compiacimento del Fondo monetario. In precedenza, molti paesi asiatici avevano posto limiti alla presenza di capitali stranieri, specie nelle industrie considerate strategiche. Ora, invece, il Fondo incoraggiava la presenza di capitali stranieri nell’industria nazionale, nella convinzione che questa fosse fonte di buona amministrazione e di efficienza produttiva. Perduta ogni possibilità di condurre una politica monetaria o industriale autonoma, i paesi asiatici sono divenuti un mercato fertile, aperto alle importazioni di prodotti statunitensi.
D’altro canto, non va sottovalutato il fatto che qualcosa sta cambiando nell’atteggiamento degli Stati Uniti rispetto all’euro. La forza del dollaro e la debolezza dell’euro, se giocano a favore delle esportazioni europee, comportano una perdita di competitività dell’industria statunitense. Non vi è da stupirsi se la bilancia commerciale degli Stati Uniti resti perennemente passiva. Inoltre, come molti fanno osservare, mentre in passato il disavanzo esterno andava di pari passo con un disavanzo nel bilancio del Governo federale (la così detta situazione dei disavanzi gemelli), oggi, dal momento che il bilancio del Governo federale chiude in attivo, rimane in vita il solo disavanzo esterno. Si dovrebbe dire quindi che il disavanzo esterno, non essendo più riconducibile alla spesa pubblica, è interamente dovuto al settore privato; e poiché i profitti delle imprese statunitensi non si sono annullati,il debito dovrebbe ricadere per intero sui consumatori. Ma, si chiedono alcuni osservatori, per quanto tempo le famiglie americane potranno continuare ad accrescere i propri debiti? È davvero possibile considerare questa situazione come stabile e capace di riprodursi indefinitamente nel tempo? Non pochi sarebbero inclini a dare a questi interrogativi una risposta negativa.
Negli Stati Uniti cominciano a comparire segni di insoddisfazione per questa svalutazione dell’euro, che alcuni iniziano a considerare come voluta e sleale. Qualcosa del genere si era manifestato nel 1993-94, quando gli Stati Uniti si trovarono di fronte a quella che veniva considerata una svalutazione competitiva dello yen, con conseguente invasione di merci giapponesi nei mercati americani. Anche oggi cominciano a comparire lamentele, da parte di imprese grandi e piccole. Potrebbe qui nascere un conflitto di interessi fra l’industria americana e quella europea. Vi è quindi da attendersi che, se qualcosa cambierà nella politica valutaria europea, questo avverrà più per pressioni provenienti dall’altra sponda dell’Atlantico che non per interesse diretto dei paesi europei. I segni di rivalutazione dell’euro, che cominciano a comparire sporadicamente, potrebbero allora segnare un’inversione di tendenza.
Dubbi e prospettive
Le
prospettive di ripresa dell’economia, ancora gravemente incerte, sono
oggi il tema dominante del dibattito. Di fronte ad una produzione
industriale che stenta a riprendere vigore, sembra evidente a molti che
un intervento delle autorità economiche sarebbe necessario. La natura e
le modalità di tale intervento sono peraltro più difficili da
individuare.
Un
rilancio della domanda globale sarebbe, secondo i canoni elementari
della politica economica, la misura più immediata ed efficace. I limiti
di una manovra simile sono peraltro altrettanto evidenti. Un aumento
della domanda globale, realizzato nella sola economia italiana
isolatamente presa, comporterebbe, attraverso un aumento corrispondente
delle importazioni, un disavanzo della bilancia commerciale. Poiché
l’Italia è ormai legata ai paesi europei in una valuta unica, il
disavanzo si tradurrebbe in un indebitamento equivalente verso l’estero,
che alla lunga non sarebbe sostenibile. Logica vorrebbe allora che
interventi analoghi di rilancio della domanda venissero messi in atto da
tutti i paesi europei con un’azione concorde per la ripresa
dell’attività economica. Ma, come risulta ormai in modo indubitabile,
un’azione comune su questo terreno incontra lo sbarramento irremovibile
della Germania.
D’altro
canto, la situazione italiana presenta alcune peculiarità che non
possono essere ignorate. Mentre altrove la disoccupazione è fenomeno
diffuso,nel nostro paese regioni caratterizzate da occupazione più che
piena si contrappongono ormai nettamente a regioni afflitte da
disoccupazione strutturale. L’Italia Nord-orientale ha ormai varcato i
limiti della piena occupazione:gli imprenditori si sottraggono
lavoratori gli uni con gli altri e alcuni sono costretti a rinunciare a
progetti di espansione per mancanza di mano d’opera. Le possibilità di
impiego sono ormai alla portata di tutti, al punto che i giovani, non
resistendo alla tentazione del guadagno, abbandonano gli studi
scolastici prima di averli portati a compimento, con grave pregiudizio
della loro formazione personale e, a lungo andare, del paese in
generale. Se non fosse per i lavoratori provenienti dai paesi
extraeuropei, l’espansione avrebbe subito una battuta d’arresto già da
tempo. In altre regioni, la disoccupazione è legata a problemi di
ristrutturazione industriale: la crisi della Fiat è un esempio
macroscopico del ridimensionamento di un’impresa, che porterà
inevitabilmente con sé problemi gravi di disoccupazione locale. Il
problema autentico della disoccupazione è tuttavia concentrato nel
Mezzogiorno. Qui, come si è detto in precedenza, le prospettive di
aumento dell’occupazione sono legate in misura crescente al
decentramento proveniente da imprese del Nord.
Squilibri territoriali crescenti e rischi di arretramento dell’industria sul terreno tecnologico sono quindi i pericoli che incombono sulla struttura dell’economia italiana. E qui è fuor di luogo invocare i vincoli della spesa pubblica derivanti dal trattato di Maastricht o la perdita del governo della moneta derivante dall’Unione monetaria europea, dal momento che quello che occorre è un disegno di politica industriale, accompagnata da una politica di riequilibrio territoriale.
Squilibri territoriali crescenti e rischi di arretramento dell’industria sul terreno tecnologico sono quindi i pericoli che incombono sulla struttura dell’economia italiana. E qui è fuor di luogo invocare i vincoli della spesa pubblica derivanti dal trattato di Maastricht o la perdita del governo della moneta derivante dall’Unione monetaria europea, dal momento che quello che occorre è un disegno di politica industriale, accompagnata da una politica di riequilibrio territoriale.
note:
1 E. Marelli, F. Spinelli, Rapporto sull’internazionalizzazione delle imprese bresciane, Brescia, AIB, 2001.2 C. Thomasberger, Schlingerkurs oder externe Stabilisierung? Anmerkungen zur Politik der deutschen Bundesbank, «Weltwirtschaftliches Archiv», n. 5, 1993, pp. 265-85.
3 H. Hagemann, On Some Macroeconomic Consequences of German Unification, in H. Kurz ed., United Germany and the New Europe, E. Elgar Aldershot, 1993, pp.89-107; P. Ciocca, La politica economica della Germania Federale, in V. Valli ed., L’economia tedesca, Etas-Libri, 1981, pp.97-138.
4 G. Viesti, Come nascono i distretti industriali, Laterza, 2012.
5 A. Del Monte, Esiste un nuovo Mezzogiorno?, «l’Industria», 2002, n. 1.
6 S. de Brunhoff, The European Plan for the Creation of a Single Currency, in Money in Motion. The Post-Keynesian and Circulation Approaches, a cura di G. Deleplace e E. Nell, New York, MacMillan, 1996, pp. 716-24.
7 G. Heinsohn, O. Steiger, The Euro-System and the Art of Central banking, «Studi economici», 2002, n. 1.
8 C. Cipolla, Moneta e civiltà mediterranea, Neri Pozza, 1957, capp. II e III.
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