venerdì 31 gennaio 2014

Poveri, disoccupati, pensionati vivono in un paese classista e senza giustizia.

Il rapporto annuale del Consiglio d’Europa di Strasburgo denuncia sette violazioni della Carta sociale dei diritti in Italia.

di Roberto Ciccarelli – il manifesto
Le pen­sioni minime di 506 euro al mese (6.247 euro all’anno) sono ina­de­guate per garan­tire la soprav­vi­venza in Ita­lia. Lo sostiene il Comi­tato euro­peo dei diritti sociali che ha dif­fuso ieri il rap­porto annuale del Con­si­glio d’Europa dove evi­den­zia 180 vio­la­zioni della Carta sociale com­piute tra il 2008 e il 2011 dai 38 paesi affe­renti ad un orga­ni­smo che cerca di tute­lare i diritti fon­da­men­tali delle persone.
Quella sulle pen­sioni minime è una delle sette riscon­trate in Ita­lia insieme alla:
  •  nega­zione del red­dito minimo garan­tito con­tro la povertà e l’esclusione sociale, 
  • le carenze dell’assistenza sociale e sani­ta­ria, 
  • quelle sulla sicu­rezza sul lavoro, 
  • i soste­gni ai disoc­cu­pati
  • con­tro le discri­mi­na­zioni di alcune mino­ranze etni­che. 
Le pen­sioni minime, sostiene il Comi­tato, sono infe­riori del 40% rispetto al red­dito medio sta­bi­lito da Euro­stat. Secondo i dati Istat, in que­sta con­di­zione si tro­va­vano nel 2011 il 13,3% dei 16,7 milioni di pen­sio­nati allora pre­senti in Ita­lia, poco più di 2 milioni 171 mila per­sone. Il 30,8%, cioè 5 milioni e 143 mila per­sone, rice­veva tra i 500 e i mille euro di pensione.
Per soste­nere una con­di­zione di povertà asso­luta o rela­tiva di que­sta fascia di popo­la­zione il governo Ber­lu­sconi inventò la «social Card» nel 2008, un con­tri­buto di povertà da 40 euro al mese ero­gato agli over 65 con una pen­sione infe­riore ai 6 mila euro all’anno (8 mila se set­tan­tenni) e un patri­mo­nio mobi­liare non supe­riore ai 15 mila euro. Si tratta di una «carta acqui­sti», rifi­nan­ziata anche dal governo Letta, per soste­nere la povertà estrema e gli acqui­sti nei negozi ali­men­tari, nelle far­ma­cie e nelle para­far­ma­cie abi­li­tate al cir­cuito Master­card e per il paga­mento delle bol­lette elet­tri­che e di for­ni­tura gas. Una pos­si­bi­lità estesa anche ai cit­ta­dini stra­nieri, a con­di­zione che abbiano un per­messo di soggiorno.
A Roma que­sta forma assi­sten­zia­li­stica riguarda da gen­naio 4 mila fami­glie con almeno un figlio minore fiscal­mente a carico, un red­dito Isee infe­riore a 3mila euro, e un’abitazione con valore Ici di 30mila euro. Rispetto agli spa­ven­tosi dati sulla povertà dila­gante in Ita­lia sono rimedi irri­sori. Nel 2011, ultimo anno ana­liz­zato nel rap­porto, l’11,1% delle fami­glie era rela­ti­va­mente povero (8 milioni e173 mila per­sone) e il 5,2% lo era in ter­mini asso­luti (3 milioni e 415 mila). Il 2012 è stato cata­stro­fico: i poveri rela­tivi erano 9 milioni e 563 mila, quelli asso­luti 4 milioni e 814 mila. In que­sta con­di­zione non si sono ritro­vati solo pen­sio­nati, ma gio­vani e adulti di ogni età, col­piti da disoc­cu­pa­zione e precarietà.

La man­canza asso­luta di misure a favore del red­dito minimo (anche in pre­senza di ben tre pro­getti di legge alla Camera, total­mente scom­parsi nel tor­bido dibat­tito sulla legge elet­to­rale), rende l’Italia il paese più fero­ce­mente clas­si­sta e avverso alla soprav­vi­venza dei poveri, dei disoc­cu­pati, dei pre­cari e dei wor­king poors. La richie­sta del Comi­tato euro­peo dei diritti sociali è di isti­tuire un red­dito minimo cal­co­lato in base al red­dito mediano della popo­la­zione, 600 euro al mese da ero­gare a tutti, sgan­cian­dolo dal ricatto sull’accettazione di un’offerta di lavoro. Pre­ci­sa­zione fon­da­men­tale che dovrebbe allon­ta­nare ogni ipo­tesi «work­fa­ri­sta»: o accetti un lavoro qual­siasi (che non c’è, tra l’altro), oppure perdi il sussidio.
Altra pre­ci­sa­zione: que­sto red­dito minimo non c’entra nulla con il Soste­gno per l’inclusione attiva (Sia) per gli indi­genti voluto dal governo Letta, tre­cento milioni di euro da ero­gare a quasi 5 milioni di poveri asso­luti. Pra­ti­ca­mente nulla. Il governo si è più volte giu­sti­fi­cato, pun­tando il dito con­tro i vin­coli di bilan­cio (il fami­ge­rato 3% sul deficit/Pil). Per le poli­ti­che sociali, a soste­gno dell’occupazione o per la tutela del diritto fon­da­men­tale ad una vita digni­tosa non ci sono mai soldi.
Solo la spe­ranza di raschiare il fondo del barile e ero­gare a piog­gia un con­tri­buto per gli indi­genti. Per il governo sareb­bero com­ples­si­va­mente 800 milioni di euro i fondi impe­gnati in que­sta impresa, nulla per le poli­ti­che attive del lavoro o per il red­dito minimo, rite­nuto una «chi­mera» nell’epoca della spen­ding review per­ma­nente. Le valu­ta­zioni del Con­si­glio d’Europa sono tar­dive e foto­gra­fano l’istante in cui la crisi era ancora agli albori. Ma una cosa era chiara sin da allora: in Ita­lia, chi fini­sce in con­di­zione di povertà, disoc­cu­pa­zione, malat­tia o pre­ca­rietà non può disporre delle garan­zie neces­sa­rie per vivere in una società dove per Ban­ki­ta­lia il 10% delle fami­glie detiene il 46% della ric­chezza nazio­nale. Pra­ti­ca­mente è spacciato.

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