Il rapporto annuale del Consiglio d’Europa di Strasburgo denuncia sette violazioni della Carta sociale dei diritti in Italia.
di Roberto Ciccarelli – il manifesto
Quella sulle pensioni minime è una delle sette riscontrate in Italia insieme alla:
- negazione del reddito minimo garantito contro la povertà e l’esclusione sociale,
- le carenze dell’assistenza sociale e sanitaria,
- quelle sulla sicurezza sul lavoro,
- i sostegni ai disoccupati
- contro le discriminazioni di alcune minoranze etniche.
Per sostenere una condizione di povertà assoluta o relativa di questa fascia di popolazione il governo Berlusconi inventò la «social Card» nel 2008, un contributo di povertà da 40 euro al mese erogato agli over 65 con una pensione inferiore ai 6 mila euro all’anno (8 mila se settantenni) e un patrimonio mobiliare non superiore ai 15 mila euro. Si tratta di una «carta acquisti», rifinanziata anche dal governo Letta, per sostenere la povertà estrema e gli acquisti nei negozi alimentari, nelle farmacie e nelle parafarmacie abilitate al circuito Mastercard e per il pagamento delle bollette elettriche e di fornitura gas. Una possibilità estesa anche ai cittadini stranieri, a condizione che abbiano un permesso di soggiorno.
A Roma questa forma assistenzialistica riguarda da gennaio 4 mila famiglie con almeno un figlio minore fiscalmente a carico, un reddito Isee inferiore a 3mila euro, e un’abitazione con valore Ici di 30mila euro. Rispetto agli spaventosi dati sulla povertà dilagante in Italia sono rimedi irrisori. Nel 2011, ultimo anno analizzato nel rapporto, l’11,1% delle famiglie era relativamente povero (8 milioni e173 mila persone) e il 5,2% lo era in termini assoluti (3 milioni e 415 mila). Il 2012 è stato catastrofico: i poveri relativi erano 9 milioni e 563 mila, quelli assoluti 4 milioni e 814 mila. In questa condizione non si sono ritrovati solo pensionati, ma giovani e adulti di ogni età, colpiti da disoccupazione e precarietà.
La mancanza assoluta di misure a favore del reddito minimo (anche in presenza di ben tre progetti di legge alla Camera, totalmente scomparsi nel torbido dibattito sulla legge elettorale), rende l’Italia il paese più ferocemente classista e avverso alla sopravvivenza dei poveri, dei disoccupati, dei precari e dei working poors. La richiesta del Comitato europeo dei diritti sociali è di istituire un reddito minimo calcolato in base al reddito mediano della popolazione, 600 euro al mese da erogare a tutti, sganciandolo dal ricatto sull’accettazione di un’offerta di lavoro. Precisazione fondamentale che dovrebbe allontanare ogni ipotesi «workfarista»: o accetti un lavoro qualsiasi (che non c’è, tra l’altro), oppure perdi il sussidio.
Altra precisazione: questo reddito minimo non c’entra nulla con il Sostegno per l’inclusione attiva (Sia) per gli indigenti voluto dal governo Letta, trecento milioni di euro da erogare a quasi 5 milioni di poveri assoluti. Praticamente nulla. Il governo si è più volte giustificato, puntando il dito contro i vincoli di bilancio (il famigerato 3% sul deficit/Pil). Per le politiche sociali, a sostegno dell’occupazione o per la tutela del diritto fondamentale ad una vita dignitosa non ci sono mai soldi.
Solo la speranza di raschiare il fondo del barile e erogare a pioggia un contributo per gli indigenti. Per il governo sarebbero complessivamente 800 milioni di euro i fondi impegnati in questa impresa, nulla per le politiche attive del lavoro o per il reddito minimo, ritenuto una «chimera» nell’epoca della spending review permanente. Le valutazioni del Consiglio d’Europa sono tardive e fotografano l’istante in cui la crisi era ancora agli albori. Ma una cosa era chiara sin da allora: in Italia, chi finisce in condizione di povertà, disoccupazione, malattia o precarietà non può disporre delle garanzie necessarie per vivere in una società dove per Bankitalia il 10% delle famiglie detiene il 46% della ricchezza nazionale. Praticamente è spacciato.
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