21 / 1 / 2014
Fatta
velocemente piazza pulita della polemica spazzatura scatenata - come
si conviene senza aver visto il film - da parte dei più impavidi
difensori dell’Orgoglio Padano, primo tra tutti l’assessore al
turismo e allo sport della Provincia di Monza e Brianza Andrea Monti
(con delega a tempo libero, caccia e pesca, autodromo, sicurezza,
polizia locale, protezione civile – si capisce come non abbia tempo
per andare al cinema) relativamente all’ultimo lavoro di Paolo
Virzì Il capitale
umano, tocca
confrontarsi con gli umori di quelli che il film invece hanno avuto
la bontà di vederlo. Trascinato in questa agorà da uno dei nostri
più illuminati redattori (che si cela maldestramente dietro la sigla
gmdp) provo a mettere in evidenza il pensiero di due opposti
schieramenti, portatori entrambi tuttavia di solide e condivisibili
ragioni.
Perché
sì. Virzì si
avventura per la prima volta fuori dai territori a lui più
congeniali, sia nel senso geografico del termine, sia in quello
relativo alla materia di cui sono fatti i suoi film. Costitutivi di
una carriera ormai ventennale che ha l’indubitabile merito di avere
rinfrescato (non sempre con la stessa fortuna) le coordinate della
commedia all’italiana. Per farlo prende lo spunto da un romanzo di
Stephen Amidon trasferendo l’azione dal Connecticut in Brianza.
Incardinando subito l’azione a un risvolto noir per poi sviluppare
la narrazione in capitoli che descrivono la medesima sequenza di
avvenimenti da diversa angolazione, facendo ruotare ogni capitolo di
volta in volta attorno a un diverso personaggio. Difficile non
avvertire la lezione di Altman nella scelta di questa strategia
narrativa. Da un incidente notturno su una strada ghiacciata la sua
camera si sposta attraverso campi da tennis, piscine, ville con
scalinate hollywoodiane, interni griffati, feste esclusive,
automobili con autista. Attraverso tutti i luoghi topici di una
ricchezza legata al trionfo del capitale finanziario, declinato nella
sua dimensione più cinica e provinciale. E’ una camera a mano
molto mobile, a tratti nervosa, che allinea velocemente tutti i
caratteri del racconto: l’immobiliarista all’inseguimento del
salto di qualità, la moglie primipara più che attempata, la figlia
in cerca di definizione della propria identità, il finanziere
potente e senza scrupoli, la moglie moderatamente psicopatica, il
figlio inutile già sulla strada dell’alcolismo, il giovane
borderliner artista inespresso, l’intellettuale del teatro sfigato
e meschino, il poliziotto sospeso tra carognaggine e umanità, tutta
la fauna sociale di contorno ritratta senza mai arrivare alla
caricatura. Ne esce un racconto morale connotato in secondo piano da
una trama gialla, niente affatto banale: Virzì riesce a evitare gli
stereotipi più scontati e i trabocchetti del grottesco offrendo uno
sguardo verosimile sulla consistenza di certe nicchie territoriali
del nostro paese, corroborate da vent’anni di berlusconismo e di
leghismo. Lo fa con ritmo preciso e buona scansione narrativa,
chiedendo e ottenendo dai suoi attori la massima adesione a una cifra
realistica ed edificante. Chi vede nel personaggio di Bentivoglio un
eccesso di macchiettismo vada a farsi un giro a ora di spritz per i
lounge bar del varesotto o provi a immaginarsi com’era Maroni da
giovane.
Perché
no. Scegliendo di
seguire la lezione altmaniana Virzì commette un peccato niente
affatto veniale. Apre il suo film con l’incidente stradale che
occorre a un ciclista, di ritorno verso casa dopo aver svolto il suo
lavoro di cameriere a una festa che vedremo riproposta in ogni
capitolo e dopo essere stato strapazzato dal suo capo (nero – solo
questo dettaglio avrebbe meritato l’adozione di un ulteriore
capitolo, ma lasciamo correre). Veniamo informati sul decorso
ospedaliero, vediamo per un attimo la moglie (o la sorella?) e basta.
Nessun capitolo gli viene dedicato pur essendo lui a dare il titolo
al film. Ciò costituisce un affronto grave nei confronti della
determinazione a filtrare il racconto cinematografico con l’occhio
della valutazione politica: questa mancanza finisce col minare
l’intera pretesa di conferimento al racconto di una sua qualità
morale. All’unica vera vittima di tutta la narrazione non viene
concesso lo spazio che viene concesso a tutti gli altri personaggi
chiave: viene ridotto a un pretesto, a un McGuffin, come avrebbe
detto il grande Hitch. Della serie: la classe operaia non solo non va
in paradiso, ma neppure in scena. A questa omissione decisiva si
somma l’ambiguità che grava sulla figlia apparentemente sana
dell’immobiliarista in arrampicata, cui il regista consegna l’unico
sguardo di speranza: tanto brava, carina e “diversa” quanto
renitente alla resa pubblica della verità circa l’effettiva
responsabilità dell’incidente. Il reato sarebbe quello di
favoreggiamento. Si aggiunga che qualche snodo narrativo è risolto
in modo fin troppo facile e ancora che stride in maniera inspiegabile
il fatto che l’unico personaggio indubbiamente positivo incarnato
dalla psicologa Asl Golino, dolce e sensibile, abbia sposato una
testa di cazzo come l’immobiliarista Bentivoglio.
P.S.
Completezza dell’informazione. All’assessore Monti Virzì ha così
replicato: “in effetti nel film c’è un grave errore: un
assessore leghista troppo composto rispetto alla sguaiataggine di
questo Andrea Monti, realtà più grottesca”.
P.P.S.
Per quanto mi riguarda il favoreggiamento non è neanche un reato.
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