Ho sempre detestato
droghe leggere e pesanti. Sono quasi astemio, un occasionale bevitore di
alcolici. Ma sono, invece, profondamente antiproibizionista.
Indipendentemente dal mio rapporto con qualunque tipo di sostanza, dal
mio stile di vita, dalle mie passioni e dalle mie repulsioni. Si
ritiene, sbagliando, che essere antiproibizionisti significhi tifare per
le droghe. Sottovalutarne gli effetti, incentivarne il consumo. Niente
di più falso.
repubblica.it roberto saviano
Spesso, in Italia, le discussioni sui temi più delicati
sono travolte da un furore ideologico che oscura i fatti e impedisce un
dibattito sereno. È successo con l'aborto, con l'eutanasia, succede con
le droghe. E non è possibile che una parte dei cittadini, che la parte
maggiore delle istituzioni religiose - con il peso che la Chiesa
Cattolica ha in Italia - e che la politica tutta, tranne pochissime
eccezioni, si rifiutino di affrontare seriamente e con responsabilità
questo tema. Non è possibile che la risposta alla tossicodipendenza sia
nella maggior parte dei casi il carcere, che tracima di spacciatori e
consumatori, ultimi ingranaggi di un meccanismo che irrora di danaro
l'intero nostro Paese.
Proprio dalle pagine di Repubblica
un grande giornalista scomparso prematuramente, Carlo Rivolta,
raccontava di come la prima generazione di tossicodipendenti veri in
Italia, quella degli anni Ottanta, fosse stata abbandonata a se stessa
da uno Stato patrigno e non padre. Da uno Stato che preferiva
considerare quei ragazzi zombie, morti viventi, tossici colpevoli. Ai
quali nessuna mano andava tesa, e dei quali si aspettava solo la morte.
Erano causa del loro male. Ci si domanda cosa sia cambiato a distanza di
trent'anni, se nemmeno nel dibattito pubblico questi temi hanno trovato
posto.
So che la legalizzazione delle droghe è un tema
complicato, difficile da proporre e da affrontare. So che pone molti
problemi soprattutto di carattere morale, ma un Paese come il nostro,
che ha le mafie più potenti del mondo, non può eluderlo. Con tutti i
problemi che ha il paese dobbiamo pensare alle canne, ai tossici e ai
fattoni? Nulla di più superficiale che questo commento.
Bisognerebbe
partire da una semplice, elementare constatazione: tre sono le forze
proibizioniste più forti, e sono camorra, 'ndrangheta e Cosa nostra. Del
resto Maurizio Prestieri, boss di Secondigliano (rione Monterosa per la
precisione) ora collaboratore di giustizia, mi disse una volta durante
un'intervista: con tutto il fumo che i ragazzi "alternativi" napoletani
compravano da noi, sostenevamo le campagne elettorali di politici di
centrodestra in provincia.
Il proibizionismo (degli alcolici) ha
già condotto l'uomo e lo Stato nell'abisso cento anni fa: non ha senso
ripetere errori già commessi. La legalizzazione non è un inno al
consumo, anzi, è l'unico modo per sottrarre mercato ai narcotrafficanti
che, da sempre, sostengono il proibizionismo. D'altronde, è grazie ai
divieti che guidano l'azienda più florida al mondo con oltre 400
miliardi di dollari di fatturato annuo. Più della Shell, più della
Samsung. Se esiste una merce che non resta invenduta è proprio la droga.
L'unica che non conosce crisi, che nonostante sia illegale ha punti
vendita ovunque. È la merce più reperibile del mondo disponibile a
qualsiasi ora del giorno e della notte.
Nonostante questo, quando
in Italia si arriva finalmente a discutere di antiproibizionismo,
mancando la consuetudine, mancano finanche le informazioni basilari. I
nostri ministri, sul narcotraffico, si limitano a fare encomi quando ci
sono sequestri di droga, a elencare latitanti finiti in manette o ancora
da arrestare. Eppure l'economia della droga è la prima economia:
cemento, trasporti, negozi di ogni genere, grande distribuzione,
appalti, camion, banche, compro oro, campagne elettorali - e l'elenco
sarebbe interminabile - vengono alimentati dalle arterie del
narcotraffico.
Gran parte della politica italiana (con poche
eccezioni tra cui i Radicali da decenni impegnati nella lotta al
proibizionismo) ritiene la questione legata esclusivamente alla
repressione o alle dipendenze. Il dibattito si riduce a un problema di
"drogati" o di "mafiosi" e in definitiva - questo è lo sbaglio maggiore -
non si vede in che modo possa incidere nella vita quotidiana delle
persone. Nulla di più falso.
La verità è che non abbiamo scelta:
la situazione attuale impone un'analisi accurata del mercato delle
droghe e l'attuazione di un programma che non sarà la soluzione
definitiva e immediata, e che forse sarà un male minore, ma necessario.
Lasciare il mercato delle droghe nelle mani delle organizzazioni
criminali non renderà immacolate le coscienze di quanti ritengono che lo
Stato non possa farsi carico di produrre e distribuire sostanze
stupefacenti. È proprio questo il punto da affrontare e l'inganno da
sfatare. Ad avere occhi per vedere.
Umberto Veronesi da anni si
dichiara favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere, pur nella
consapevolezza di quanto queste possano essere dannose per gli
organismi. Ma adduce ragioni di buon senso che condivido. La proibizione
di qualsiasi sostanza crea mercato nero, quindi guadagni esponenziali
per le mafie. Fa aumentare il costo delle sostanze stupefacenti, quindi
chi ha dipendenza ma non i mezzi economici, finisce per rubare,
prostituirsi o spacciare a sua volta. In ultimo le sostanze provenienti
dal mercato nero non hanno alcun tipo di controllo e le morti spesso
sono causate non da dosi eccessive, ma da sostanze letali usate per i
tagli. All'altro capo del mondo, il magistrato brasiliano Maria Lucia
Karam, membro del Leap (Law enforcement against prohibition), esprime, a
favore della legalizzazione, le stesse motivazioni. Del resto, non
dimenticherò mai quanto mi disse una assistente sociale del Nucleo
Operativo Tossicodipendenze di Napoli riguardo ai danni che anche
semplicemente l'assunzione prolungata di hashish e marijuana possono
avere su individui sani. Mi disse che non si trattava semplicemente di
capire che effetti avessero hashish e marijuana, ma un cocktail di
sostanze incredibilmente varie spesso utilizzate per pompare i panetti
di fumo o per rendere gli effetti dell'erba più pesanti. Plastica, cera
per scarpe, grassi animali, pezzetti di vetro, ammoniaca. Esistono studi
sugli effetti che le sostanze stupefacenti - allo stato puro - hanno
sugli organismi; non esistono ovviamente studi per capire che effetti
hanno sugli organismi la cera per scarpe o l'ammoniaca, se assunte
regolarmente seppure in piccole dosi, ma per anni. E la risposta non può
essere "che smettano di farsi se non vogliono essere avvelenati, se non
vogliono morire".
Ad aprile del 2012 a Cartagena, in Colombia,
si è tenuta la sesta "Cumbre de las Americas" (Vertice delle Americhe) e
si è discusso anche di legalizzazione delle droghe. Gli Usa, al tavolo
del confronto - come Onu e Ue -, si sono dichiarati contrari alla
legalizzazione. Ma hanno però preso atto che le "wars on drugs" sono
destinate a fallire. Del resto in alcuni stati federali, la
distribuzione di marijuana a scopi terapeutici è stata legalizzata, e a
Denver la vendita è stata permessa tout court.
Secondo molti
paesi latinoamericani, direttamente interessati dal fenomeno, la strada
del proibizionismo non è quella giusta: per comprendere le loro
posizioni bisognerebbe studiare a fondo le loro economie e mappare il
peso che produzione e distribuzione di sostanze stupefacenti hanno al
loro interno.
La Colombia vive una fase di crescita economica
inaspettata. Se da un lato ha certamente contato la diminuzione della
corruzione delle istituzioni, dall'altro la pressione dei cartelli e
della guerriglia è diminuita non per gli interventi del governo
americano, ma dei cartelli messicani che oggi sono i padroni delle
piantagioni in Colombia distruggendo di fatto i più potenti narcos
colombiani. Il presidente uruguayano José Mujica è arrivato alla
legalizzazione perché si è reso conto che l'invasione dei cartelli
messicani già avvenuta in Colombia, Cile e in Argentina avrebbe
compromesso la vita sociale in Uruguay, come sta accadendo al Guatemala,
al Belize, all'Honduras, al Salvador, al Perù, dove le fragili
democrazie sono totalmente compromesse dal potere dei narcos. La
legalizzazione è stato il gesto del governo uruguayano più determinante
nel senso della salvaguardia dei propri mercati.
Io credo che la
legalizzazione, e non la liberalizzazione, sia l'unica strada. Due
termini simili che spesso vengono confusi, ma che indicano due visioni
completamente diverse. Legalizzare significa spostare tutto quanto
riguarda la produzione, la distribuzione e la vendita di stupefacenti
sotto il controllo dello Stato. Significa creare un tessuto di regole,
diritti e doveri. Liberalizzazione è tutt'altro. È privare il commercio e
l'uso di ogni significatività giuridica, lasciarlo senza vincoli,
disinteressarsi del problema, zona franca. Invece legalizzare è l'unico
modo per fermare quel silenzioso, smisurato, violento potere che oggi
condiziona tutto il mondo: il narco-capitalismo.
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