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Il fratello di mia nonna, zio Antonio, è stato partigiano. A sedici
anni si arruolò nella Brigata Maiella. La Brigata era nata nel suo
paese, Torricella Peligna e in quello accanto, Gessopalena, situati
entrambi sulla linea Gustav. Prese parte agli scontri più duri di
Pizzoferrato e Gamberale. Mia madre racconta sempre la scena del suo
ritorno a casa sui camion aperti dei partigiani e il lancio del berretto
che lei ragazzina raccolse felice.
Terminata la guerra partigiana,
zio Antonio, come molti del suo paese, è migrato all’estero, in Belgio
prima, poi in Australia. Un suo fratello maggiore, zio Pasquale, durante
la leva militare si era ritrovato coinvolto nella guerra d’Albania.
Fatto prigioniero finì nei campi d’internamento inglesi e poi a lavorare
in una colonia agricola in Grecia. Tornò in Italia dopo il 1950. La
moglie era morta e la figlia, zia Angela, era cresciuta con mia nonna
insieme a mia madre. La casa di famiglia non c’era più, centrata da un
aereo, non ho mai capito se tedesco o alleato. Oggi al suo posto c’è la
posta.
I nazifascisti si vendicarono contro i due paesi che avevano
dato vita alla Brigata, dopo aver sfollato la popolazione e fatto razzia
grazie alle spie fasciste, minarono e distrussero Gessopalena. Fecero
lo stesso con Torricella ma dovettero fuggire prima di accendere le
mine, riuscirono ad abbattere solo poche case. La guerriglia partigiana
colpiva ai fianchi le truppe speciali alpine tedesche che per
rappresaglia massacrarono alcune famiglie sfollate riparate in una
masseria, in località Sant’Agata, vicino Gessopalena. Mia zia Angela si
salvò perché un suo zio la venne a prendere la sera prima per portarla
in un’altra masseria. Perse in quel posto un pezzo della sua famiglia.
Ogni volta che torno sotto la Maiella passo sempre a Sant’Agata a vedere quei ruderi rimasti così dal giorno del massacro.
Zio Antonio era lontano, non sapeva scrivere, le storie della Brigata me le ha raccontate un suo coetaneo che abitava al Calacroce, il rione più povero del paese, accanto alla casa dove era nata mia madre, nelle estati che trascorrevo a Torricella quando ero ragazzino. Franchino Di Luzio si chiamava, anche lui partigiano, e i suoi figli erano i miei amici.
Zio Antonio, il partigiano, non voleva morire in Australia e fece di tutto per rientrare in Italia. Visse un anno da mia madre. In quel periodo ero in carcere a Viterbo.
Chiesi l’autorizzazione per poterlo incontrare. Il vicedirettore, Francesco Ruello, me la negò con compiaciuto sadismo. Zio Antonio che non aveva nemmeno la pensione da partigiano nei suoi lunghi anni da migrante, era stato anche a Marceline, aveva perso la cittadinanza italiana.
Quando sono uscito dal carcere era ritornato in Australia. È morto lì, senza che lo abbia mai più rivisto.
Questi sono i miei partigiani, senza medaglie, senza riconoscimenti!
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