venerdì 28 aprile 2023

Ssst… Le banche Usa vanno a rotoli.

Zitto zitto – si fa per dire – il sistema bancario statunitense perde pezzi. Che valgono centinaia di miliardi, non spiccioli. 


Ieri è toccato di nuovo a First Repubblic, istituto di medie dimensioni, travolto dalla fuga dei depositi. Tradotto: correntisti che ritirano I propri soldi per investirli o “difenderli” altrove.

In pochi giorni se ne sono andati 104 miliardi, pari al 40% circa di tutti i depositi. Inevitabile il rovescio anche in borsa, dove il titolo ha perso – non per caso – un altro 40% in un solo giorno, portando le perdite da inizio anno al -93%.

Oggi First Republic capitalizza – “vale” – meno di un miliardo di dollari. Praticamente niente.

Ad aggravare il tracollo hanno contribuito la stessa Federale Reserve, e l’amministrazione Biden, che hanno fatto sapere più volte che non avrebbero messo in cantiere operazioni di salavataggio.

Il quasi-fallimento di First Republic segue quelli già avvenuti di Silicon Valley Bank e Signature Bank. E se tre punti fanno un cerchio questa è la dimostrazione della fragilità complessiva del sistema bancario Usa alla prova dell’aumento dei tassi di interesse, deciso dalla banca centrale per contrastare l’inflazione.

Ma il problema, come si dice, è decisamente più complesso. Anni di quantitative easing da parte della Fed – e della Bce in Europa – avevano fatto gonfiare non solo le quotazioni azionarie ma anche i depositi bancari, seppure in tempi diversi ma in brevissima successione.

L’esplodere della pandemia aveva infatti stimolato la fuga da Wall Street e quindi gonfiato la bolla dei depositi (alla ricerca di “sicurezza”), anche sotto la spinta dell’aumento improvviso della spesa pubblica Usa per far fronte all’emergenza.

Ma appena un anno e mezzo dopo – sotto la spinta opposta dell’aumento dei tassi di interesse – è iniziata la fuga verso altri lidi. Ma stavolta non verso la borsa, ritenuta a ragione “sovra-prezzata” e a forte rischio di improvvisi crolli.

A fare concorrenza alle banche, infatti, si moltiplicano le iniziative delle big dell’informatica, che stanno a loro volta “diversificando” il proprio business proponendosi come mediatori finanziari.

Apple, proprio in questi giorni, sta offrendo il 4,15% di interesse sui conti deposito aperti presso la sua banca (Apple Bank). Un livello che, con l’inflazione in calo e la recessione alle viste, risulta abbastanza appetibile rispetto ai micragnosi interessi offerti dalle banche classiche.

Un quadro, come si vede, tutt’altro che lineare, assai diverso da quello previsto dai manuali del neoliberismo monetarista che regolano le mosse dei banchieri centrali (“sale l’inflazione, aumento i tassi di interesse”).

Un quadro che diventa ancora più interessante – dal punto di vista dei critici del capitalismo finanziario – perché qui in Europa la Bce sta seguendo la stessa strada, con qualche mese di ritardo rispettto alle mosse della Fed.

E dunque diventa prevedibile che gli stessi problemi, che stanno covando sotto il sistema bancario europeo, non tarderanno a manifestarsi in tutta la loro forza. Credit Suisse non è certamente l’unico caso. E gli occhi di tutti sono sempre rivolti al gigantesco zombie che si aggira per l’Europa: Deutsche Bank

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