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Nel 2016 il movimento contro la loi travail voluta da François Hollande introdusse in Francia una forma di lotta sociale intrecciata con la spontaneità, con la rabbia, con l’inatteso e, soprattutto, con l’ingovernabile, caratterizzata dalla presenza di blocchi più o meno organizzati di giovani e meno giovani pronti ad affrontare la polizia, a compiere azioni offensive e, in generale, decisi a rompere il rituale della manifestazione sindacale. Quel movimento era ben differente da quello di oggi. Al governo, i socialisti avevano già adottato la postura (che poi Macron avrebbe fatto sua) del rifiuto della negoziazione con i sindacati, associata alla criminalizzazione del conflitto e all’utilizzo della repressione poliziesca. Così, mentre la CGT riproponeva – senza successo – uno schema conflittuale ormai trito e ritrito, decine di migliaia di giovani invadevano i cortei, prendendone spesso e volentieri la testa, trasformando radicalmente la tradizione di piazza francese: era la nascita del cortège de tête, quello che in Italia chiameremmo “spezzone sociale”, ormai diventato una pratica stabile in tutte le grandi manifestazioni.
Poi vennero i gilets jaunes. Il metodo del 2016 divenne, di fatto, una pratica universale: almeno, di tutti quelli che si ritrovarono a manifestare sui Champs-Elysées. I gilet gialli non si limitarono a disconoscere l’essenza negoziale e non offensiva delle manifestazioni tradizionali, ma fecero saltare la geografia stessa dei cortei. Finiti i percorsi negoziati con la prefettura ai quali eravamo abituati, in piazze lontane dai palazzi del potere e dei quartieri borghesi. Ora, cortei impazziti di decine di migliaia di persone assediavano il “triangolo d’oro” dell’alta borghesia parigina e facevano saltare le vetrine dei negozi dell’élite a due passi dall’Eliseo, mentre Macron fuggiva in elicottero. E, a fianco, una generalizzazione della pratica assembleare. I gilet gialli vennero accolti dalla più grande operazione di repressione di massa che la Francia abbia visto in questi ultimi decenni. Chiunque sia stato in una di quelle piazze può testimoniarlo. La polizia francese mise a punto in quelle settimane la strategia del terrore con il quale governa i movimenti sociali, fatta di armi temibili, granate mutilanti, cariche e controllo del territorio a qualunque costo. Rifecero capolino i poliziotti in moto, che erano stati aboliti negli anni ’80. I sindacati di polizia ottennero di tutto e di più. D’improvviso, i media si accorsero che la polizia francese era la più violenta d’Europa e che la violenza poliziesca era un problema vero, non più confinato alle banlieues ghettizzate.
È in questo contesto che si è arrivati alle elezioni del 2022, alla scelta obbligata tra Macron e Le Pen, all’elezione della più grande pattuglia parlamentare di estrema destra di sempre, all’unione delle sinistre sulla base di una piattaforma ecologista e antiliberista, alla perdita della maggioranza assoluta da parte di Macron in un Parlamento strutturato in tre blocchi contrapposti tra loro. Macron ha teso fino alla rottura le istituzioni golliste: stretto da una maggioranza relativa, costretto ad appoggiarsi su quel che rimane di un centrodestra riottoso e diviso al suo interno, dopo aver tagliato i ponti con le organizzazioni sindacali ‘riformiste’, per approvare la riforma delle pensioni ha scelto, invece della mediazione, il bulldozer, di fatto incoraggiando la creazione di un’intersindacale inedita per determinazione e dimensione. Mai prima di oggi, negli ultimi trent’anni, sindacati così diversi tra loro hanno deciso di stare assieme per così tanto tempo in un modo così uniforme, pur nel rispetto della diversità delle pratiche.
Macron non ha preso in conto alcuna delle richieste dei sindacati, non ha teso alcuna mano, non ha ventilato la benché minima idea di temperamento del conflitto. Al contrario, ha fatto di tutto per farlo esplodere: repressione poliziesca contro i sindacati, precettazione dei lavoratori, criminalizzazione dei movimenti. La precettazione, in particolare, merita di essere analizzata e raccontata affinché si possa capire la violenza che anima il blocco borghese. Il 7 marzo, dopo due mesi di manifestazioni di massa, sono cominciati i primi scioperi a oltranza, in particolare nelle raffinerie e tra gli spazzini parigini. Di fronte al rischio della penuria di benzina e alle immagini dei quartieri ricchi di Parigi seppelliti dai rifiuti, il governo ha imposto la serrata: così, la polizia è andata a cercare i lavoratori al proprio domicilio, all’alba, per portarli in cellulare sui luoghi di lavoro, sorvegliandoli per assicurarsi che compiessero il loro dovere. A Parigi, non era raro vedere volanti della polizia seguire da presso i camion della spazzatura, il cui equipaggio era obbligato a lavorare. In reazione, i lavoratori facevano lo sciopero dello zelo, andando il più piano possibile, rispettando anche il più puntiglioso dei regolamenti, mentre gruppi di giovani vestiti di nero, di notte, legavano i cassonetti tra di loro, mandando in tilt la raccolta dei rifiuti. Nelle raffinerie, tuttavia, non è così semplice disinnescare la repressione: così, a Marsiglia, l’antisommossa ha caricato i picchetti operai, mentre all’impianto di Le Havre il sindacato ha dovuto ingaggiare una battaglia (infine vittoriosa) nei tribunali. I cortei spontanei dei giovani che danno fuoco alla pattumiera, la polizia scatenata, le amputazioni, le enormi manifestazioni sindacali, i blocchi dei lavoratori: tutto ciò ha contribuito a una situazione per molti versi inedita.
Basta guardare agli scioperi degli spazzini. Per osservarli, bisogna levarsi presto: i blocchi degli stabilimenti nella periferia parigina cominciano alle 5 di mattina. Lì, gruppetti di spazzini, a cui si aggiungono decine, a volte centinaia di solidali, bloccano gli ingressi dei depositi di camion, i cancelli degli inceneritori o degli impianti intermedi, spesso e volentieri sotto la pressione della polizia, a cui resistono anche con successi inattesi. Parlando con gli spazzini ci si accorge che ci sono voluti anni per mettere in pratica un metodo per attuare i blocchi: giacché quello dei rifiuti è un flusso, non un meccanismo produttivo manifatturiero. Per fare in modo che la valanga di pattume seppellisca i marciapiedi, astenersi dal lavoro non basta. Bisogna bloccare al punto giusto nel momento giusto, tenendo a mente che gli spazzini guadagnano pochissimo e sono soggetti a una repressione sindacale terribile e che, quindi, bisogna fare tutto ciò con tassi di sciopero relativamente bassi. Eppure, dopo anni di lavoro politico e sindacale, sono riusciti, partendo dalla base, a bloccare la gestione della spazzatura per quasi un mese. Anche qui, uscendo dal perimetro tradizionalmente sindacale, in questo caso con la collaborazione attiva della CGT, riuscendo a intercettare una classe operaia emergente, d’origine immigrata, tradizionalmente marginale nelle grandi mobilitazioni dei sindacati. Gli spazzini, come gli operai della logistica, come altri settori ancora, sono molto più vicini alle pratiche e alle simbologie dei gilet gialli che non a quelle, tradizionali, delle organizzazioni dei lavoratori: blocchi aggressivi, picchetti volanti, sostegni dall’esterno, occupazioni lampo. Proprio per l’originalità delle forme della loro mobilitazione, saranno loro a essere ricordati come il volto emblematico di questo movimento sociale.
Spesso, gli osservatori dei giornali borghesi italiani si stupiscono di fronte all’adesione generale tra i francesi per questo movimento sociale, per una questione limitata come le pensioni. Per esempio il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, rispondendo a un lettore, ha scritto che gli italiani «sono molto più ragionevoli e attenti all’interesse comune dei loro cugini d’oltralpe», visto che in Italia non ci sono «stati tumulti e piazze infuocate contro la nostra riforma delle pensioni», un fatto che «può essere considerato l’esempio di una maturazione dei nostri lavoratori e dei loro rappresentanti sindacali» (Forse siamo diventati più seri di tanti altri cugini europei?, Corriere della Sera, 17 aprile 2023). Fontana e altri epigoni, non sembrano capire che la questione delle pensioni mette al centro la questione del tempo, del lavoro, dell’usura, della vita, dell’aspettativa di vita in buona salute. E che a cascata, questi temi pongono la questione dei divari di classe, delle diseguaglianze, della necessità di ridurre la produzione, del problema del lavoro salariato, dell’imperativo di vivere liberi da quest’ultimo. Sono temi centrali nella lotta di classe, sono temi centrali nella società contemporanea. A stupire non è il fatto che i francesi si ribellino contro l’imposizione di due anni di lavoro in più, che si sollevino contro una riforma iniqua e sessista (giacché a pagarla saranno soprattutto le donne e chi fa mestieri usuranti e precari), ma piuttosto il fatto che in Italia non vadano a fuoco i commissariati, al netto di un sistema che porterà le prossime generazioni ad andare in pensione a 70 anni.
Il metodo praticato nei cortei parigini, tanto nelle manifestazioni spontanee di giovani che ribaltano i cassonetti, quanto nei cortei sindacali e nei picchetti operai, è un’altra questione poco compresa in Italia. Basti vedere le homepage dei grandi quotidiani del gruppo GEDI, pronti a lanciare dirette video durante le manifestazioni parigine, ben più ossessionati dagli scontri di quanto non lo siano gli stessi media francesi. Fissati sulle vetrine scassate, le agenzie di stampa italiane perdono di vista un aspetto che invece è interessante in questa fase: la diversità delle pratiche, accettata da tutti, compresi i sindacati più riformisti, e la dialettica tra momenti diversi, tra pezzi radicali e pezzi moderati, in un’unione di intenti alla quale, personalmente, non avevo mai assistito. Basta partecipare a uno dei cortei parigini per accorgersi di come il cortège de tête non abbia un rapporto conflittuale al resto della manifestazione, pur essendone in qualche modo separato; o partecipare a un picchetto caricato dalla polizia, per scorgere le sciarpe tricolori dei parlamentari della France Insoumise, intenti come tutti gli altri a inalare lacrimogeni.
Certo, per arrivare a questa pluralità ci sono voluti anni: nel 2016, per esempio, ci furono scontri a tratti anche duri tra i servizi d’ordine dei sindacati e i giovani che intendevano praticare un altro modo di manifestare. Tuttavia, ora, di fronte alla repressione politica e poliziesca di Macron, questo è un risultato ormai acquisito (anche se non per forza stabile, né eterno) e resta uno dei tratti impressionanti di questo movimento sociale. A fronte c’è l’atteggiamento della controparte politica, che non sembra disposta a cedere di un millimetro. È l’altra specificità del caso francese su cui bisognerà tornare.
Una versione più ampia dell’articolo comparirà comparirà sul n. 68 di Alternative per il Socialismo di imminente pubblicazione
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