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Obbligo vaccinale e legittimità costituzionale: dalla tipologia di autorizzazione EMA all’indennizzo del danno, dall’interesse della collettività al diritto individuale, dalla sperimentazione all’irreversibilità della vaccinazione
1. Una precisazione e un punto di partenza
Per inquadrare adeguatamente le questioni relative alla possibilità di introdurre un obbligo vaccinale diretto, in sostituzione del meccanismo per misura equivalente previsto dal d. l. 6 agosto 2021 n. 111 (c.d. obbligo di Green Pass) (1) , è necessario, prima di tutto, muovere da una corretta ricostruzione della situazione di fatto sulla quale una disciplina del genere pretende di incidere.
E, trattandosi di una situazione in cui è determinante il ruolo degli accertamenti tecnici di settore, è necessario inquadrare la situazione alla luce delle conoscenze disponibili al momento: ciò che, nel discorso comune, viene genericamente espresso in termini di “rinvio alla ‘scienza’”.
La prima precisazione da fare è che il discorso giuridico non è il discorso comune. La ‘scienza’ di cui si è parlato fin troppo negli ultimi mesi è, in realtà, un sapere settoriale, caratterizzato da un suo specifico statuto metodologico, la cui applicazione produce risultati diffusi all’interno di una comunità di riferimento. E non altro (2).
Men che meno può essere oggetto di ‘fede’.
Si tratta di una precisazione sgradevole, ma necessaria, che tocca fare per riportare – almeno fra i giuristi – il discorso sui binari che gli sarebbero dovuti essere propri fin dall’inizio.
E mondarlo da connotazioni (precomprensioni) inquinanti (3). La fede riguarda – o, in un mondo normale, dovrebbe riguardare – qualcos’altro, che, comunque la si metta, esula (o trascende) il discorso razionale. Sicché, se collocata nel mondo del diritto, l’espressione ‘fede nella scienza’ rappresenta un ossimoro. O, al massimo, nel campo delle scienze psicologiche, un ottimo esempio di dissonanza cognitiva.
Piuttosto, nel mondo del diritto – che dovrebbe essere un mondo razionale (4) – questi saperi settoriali, se applicati ad una determinata fattispecie, piuttosto che ‘fede’, generano qualcosa di più preciso, che va sotto il nome di ‘accertamento tecnico’, presente in tutti i settori dell’ordinamento.
Nel processo, civile e penale, entra nella forma della ‘consulenza’ o dell’’accertamento tecnico’ disposto dal giudice (5). Nel procedimento e nel processo amministrativo l’accertamento entra con il nome di ‘valutazione tecnica’ (art. 17 l. 241/1990), intersecandosi con la questione della discrezionalità (6). E anche nel procedimento legislativo la tecnica, e i suoi accertamenti, entrano a pieno titolo, almeno da quando la Corte costituzionale, a far data dalla dec. 282/2002 (rel. Onida), ha affermato che, in materia sanitaria, l’attività del legislatore è condizionata dalle risultanze tecnico-scientifiche. E cioè dal sapere di settore (7).
Si tratta di una affermazione che non è mai stata contraddetta in seguito. Che è stata riproposta da allora con diverse sfumature e con diverse finalità, ma sempre confermata nella sostanza. Che è stata richiamata ancora di recente nella dec. 5/2018 in tema di obblighi vaccinali (rel. Cartabia); e nelle decc. 268/2017 e 118/2020 (rel. Zanon) (8), in materia di risarcimenti dei danni vaccinali. E che dal 2002 in poi è stata alla base di tutta la giurisprudenza in materia sanitaria.
Va detto che si tratta di una particolarità che non si riscontra in altre aree dell’ordinamento, dove pure i saperi settoriali giocano un ruolo fondamentale. E che, in linea teorica, potrebbe sollevare diversi interrogativi, visto che questa acquisizione, ormai consolidata, non trova appiglio in alcuna disposizione presente nel testo della Costituzione del 1948 (9).
Semmai, come vedremo, in Costituzione si trova altro.
A rigore, la dottrina del condizionamento tecnico della funzione legislativa è una creazione originale della giurisprudenza costituzionale, e, in quanto tale, potrebbe essere estesa, con lo stesso fondamento ad altre aree dell’ordinamento. In altri termini, perché, il legislatore, in materia sanitaria, dovrebbe essere vincolato alle risultanze tecniche, mentre può non esserlo in altri settori? Perché il sapere giuridicamente rilevante, che condiziona il legislatore, dovrebbe essere solo il sapere medico, e non altro: ad es. il sapere delle ‘scienze economiche’?
Il sapere medico scientifico non è certo un sapere incontrovertibile, nemmeno lontanamente avvicinabile al modello delle scienze cd. dure, che vengono implicitamente chiamate in causa quando si parla di ‘scienza’ e di ‘scienziati’.
Forse che la statistica e l’econometria hanno uno statuto metodologico meno rigoroso della biologia? E forse che gli scienziati sociali non utilizzano dati empirici per le loro analisi, senza per questo essere neanche lontanamente assimilati alle scienze cd. ‘dure’ (10)?
Si tratta di quesiti evidentemente destinati a restare aperti. Ma che devono essere tenuti sullo sfondo per inquadrare il contesto del problema.
Quel che è certo è che, dopo la dec. 282/2002, è soltanto banale dire che in materia sanitaria la discrezionalità del legislatore è condizionata dalle risultanze tecniche, e che in queste risultanze la funzione legislativa trova un limite interno.
Qualcuno ha descritto questo rapporto in termini di fonti, e quindi di ‘norme interposte’ (11).
Altri si sono spinti fino a dire che la dec. 282/2002 avrebbe introdotto in Costituzione una ‘riserva di valutazione tecnica’ (12). Si tratta di una formula elegante, che sintetizza bene la situazione, ma irrigidisce troppo il discorso, e può generare implicazioni indesiderate (13).
2. Procedimento, organismo tecnico, decisore politico
Quale che sia la qualificazione precisa di questo vincolo è da qui, e non da altro, che discende il ruolo cruciale dei procedimenti da cui scaturiscono gli accertamenti che, in materia sanitaria, presiedono alla scelta legislativa. E da qui viene anche il ruolo centrale giocato degli organismi presso i quali questi procedimenti si svolgono.
Si sa che, nel nostro ordinamento, a giocare questo ruolo sono stati prima, l’AIFA (Agenzia Italiana per il Farmaco), e ora l’EMA (European Medicines Agency), che, dal 1994 in poi, dell’AIFA ha progressivamente surrogato il ruolo, secondo uno schema di sostituzione di funzioni ricor rente nei rapporti tra organismi nazionali ed europei (si pensi, ad. es., al rapporto che ora intercorre fra Banca d’Italia e BCE) (14).
Negli USA, cui frequente è stato il riferimento in questi mesi, analo ghe funzioni sono assolte dalla FDA (Food and Drug Administration), però secondo schemi e categorie differenti rispetto a quelle europee, che impediscono una traslazione automatica di acquisizioni da un ordinamento ad un altro (15). E ciò per tre ragioni.
In primo luogo perché si tratta di procedimenti disciplinati da ordinamenti diversi, che rispondono a logiche e finalità diverse, e che producono effetti analoghi, ma diversi in USA e in Europa. Si pensi solo al richiamo al national interest necessario per il rilascio delle autorizzazioni di emergenza, riservato ai vertici del Governo Federale (16), del tutto sconosciuto alla disciplina europea che non ha, perché non può avere, alcun national interest da usare come base di legittimazione. Insomma, procedimenti diversi, di ordinamenti diversi, non possono che produrre accertamenti di diverso valore e diversa efficacia in ciascun ordinamento.
In secondo luogo perché diversi sono i soggetti che emanano gli atti di autorizzazione all’immissione in commercio in USA e in Europa (il Governo Federale negli USA, la Commissione in Europa). Il che segna la diversità di rapporto che ciascun ‘decisore’ politico, intrattiene con gli accertamenti prodotti nei rispettivi ordinamenti, essendo diverso, qui, il rapporto fra ‘tecnica’ e ‘politica’ (ammesso che la Commissione, propriamente parlando, possa essere vista come un decisore politico).
Ma c’è un terzo elemento, più sostanziale, da considerare. Chi sostenesse la tesi della traslazione degli accertamenti da un ordinamento ad un altro finirebbe con l’affermare, inavvertitamente, che, in nome dell’unità della ‘scienza’, un accertamento tecnico prodotto in un ordinamento straniero dovrebbe valere automaticamente nell’ordinamento italiano e in ogni altro ordinamento. Il che è evidentemente paradossale, oltre che ad essere smentito dai fatti.
In presenza di accertamenti diversi, in diverse parti del mondo, o anche solo prodotti in tempi diversi, quale mai dovrebbe essere l’accertamento da selezionare a fondamento della scelta legislativa? E in base a quale criterio? Forse che vaccini prodotti al di fuori dell’UE o degli USA non sono stati messi in circolazione nel mondo – in conformità ai rispettivi ordinamenti –, sulla base di plausibili ‘accertamenti tecnici’ basati su evidenze empiriche? Per trovarne un esempio non bisogna andare in luoghi troppo lontani nel mondo, come in Russia o in Cina, dove i vaccini sono stati sperimentati e messi in circolazione assai prima che in UE o USA.
Basta recarsi in prossimità del Monte Titano e chiedere di essere vaccinati nella Repubblica di San Marino per avere a disposizione un vaccino ampiamente sperimentato su evidenze empiriche, accertate però secondo l’ordinamento giuridico di riferimento (e cioè quello della Federazione Russa prima, e quello della Repubblica di San Marino poi). Che però, passato il confine del Monte Titano, cessa di essere un vaccino. Sicché può essere divertente osservare che la ‘scienza’ che vale a San Marino non è la scienza che vale, ad esempio, a Bologna, o soltanto a Rimini (17).
Dopodiché, forse, tornati da San Marino, bisognerebbe, più seriamente, passare a considerare che tutti i problemi che oggi collochiamo sul versante del rapporto fra ‘scienza’ e ‘diritto’, o ‘scienza’ e ‘potere politico’ non sono altro se non riformulazioni attualizzate dell’antica questione dei rapporti tra Veritas e Potestas (18). Che sono poi due formule antiche coniate per descrivere, appunto, il problema del rapporto fra diverse forme di potere (e di legittimazione del potere). Che sono ben noti (19). E che stanno alla base di ogni discorso costituzionale. La trasformazione del binomio Veritas/Potestas nel binomio Ratio/Potestas e il sostituirsi della Ratio alla Veritas ha segnato la nascita dello Stato moderno (20). Ma è evidente che questo ci porterebbe troppo lontano.
Comunque, a fronte di queste domande, che dovrebbero sorgere spontanee, che un ragionamento del genere possa essere seriamente proposto è solo una diretta (ma indesiderabile) conseguenza del carattere intimamente irrazionale e antiscientifico tipico di ogni richiamo alla ‘fede’ nella ‘scienza’ (21). Che finisce con il trasformare inconsapevolmente i risultati delle applicazioni particolari di un sapere di settore, in un dato ordinamento giuridico, in un dato momento, nei Dieci Comandamenti, validi sempre e ovunque. E che converte di nuovo, e improvvisamente, la Ratio in Veritas.
Con il solo problema dovuto al fatto che un sasso cade alla stessa velocità a San Marino come a Bologna. Mentre un vaccino, al di là dei confini del Monte Titano, cessa di essere un vaccino.
Lo statuto metodologico della fisica sperimentale non si applica facilmente ad altre discipline.
3. I tre ‘tipi’ di autorizzazione in Europa.
Il principio diverso accertamento, diversa autorizzazione
L’attività di accertamento tecnico svolta dall’EMA è governata da due Regolamenti UE. E cioè il Reg. 726/2004 (che istituisce procedure comunitarie per l’autorizzazione e la sorveglianza dei medicinali per uso umano e veterinario, e che istituisce l’Agenzia Europea per i Medicinali), e il Reg. 507/2006 (relativo all’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata dei medicinali per uso umano che rientrano nel campo d’applicazione del regolamento (CE) n. 726/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio) (22).
Il rapporto tra questi due atti è semplice. Il Reg. 726/2004 detta la disciplina generale del procedimento di autorizzazione al commercio di farmaci in Europa (Marketing Authorization), nella prospettiva del mercato unico, e tipizza un sistema imperniato su una ‘autorizzazione stan dard’ (Standard Marketing Authorization), che interviene alla fine del normale procedimento di sperimentazione, e una ‘autorizzazione rilasciata in circostanze eccezionali’ (Exceptional Circumstances Authorization) prevista dall’art. 14 par. (8) dello stesso Reg. 726/2004. E che può essere rilasciata quando:
- the condition is too rare;
- the present state of scientific knowledge does not allow it to be collected;
- il would unethical to collect data.
Il Reg. 507/2006, prevede un’ipotesi ulteriore, intermedia tra la ‘Standard’ e la ‘Exceptional authorization’, e cioè la ‘autorizzazione condizionata’ (Conditional Marketing Authorization), i cui caratteri, finalità e condizioni di impiego sono precisati dallo stesso Regolamento.
Il quale Regolamento prima ribadisce al punto (2) del Considerando il principio per cui “Prima di ottenere l’autorizzazione all’immissione in commercio in uno o più Stati membri, un medicinale per uso umano va in genere sottoposto a studi approfonditi volti a garantirne la sicurezza, l’elevata qualità e l’efficacia di impiego per la popolazione destinataria”.
E poi ammette al punto (3) che “nel caso di determinate categorie di medicinali, al fine di rispondere a necessità mediche insoddisfatte dei pazienti e nell’interesse della salute pubblica, può […] risultare necessario concedere autorizzazioni all’immissione in commercio basate su dati meno completi di quelli normalmente richiesti e subordinate ad obblighi specifici, di seguito «autorizzazioni all’immissione in commercio condizionate»”.
È chiaro che la disciplina del Reg. 507/2006 ha carattere integrativo della tipologia di provvedimenti autorizzatori delineati nel 2004. La tipologia originaria del 2004 riflette la disciplina USA imperniata sul tipo BLA e EUA. L’intervento del 2006 arricchisce questa tipologia e vi inserisce una figura intermedia, tipica dell’ordinamento UE, e sconosciuta negli USA, che è appunto l’autorizzazione condizionata.
È la stessa EMA a chiarire i profili di questa autorizzazione ‘del terzo tipo’ laddove chiarisce (23) che una ‘Conditioned Marketing Authorization’ può essere rilasciata quando:
- the benefit-risk balance of the medicine is positive;
- it is likely that the applicant will be able to provide comprehensive data post-authorisation;
- the medicine fulfills an unmet medical need;
- the benefit of the medicine’s immediate availability to patients is greater than the risk inherent in the fact that additional data are still required.
Dall’analisi delle quattro condizioni imposte dal Reg. 507/2006, come proposte dalla stessa EMA emerge con chiarezza (it is likely that the ap- plicant will be able to provide comprehensive data post-authorisation) che gli accertamenti tecnici che stanno alla base di queste autorizzazio ni sono sempre e comunque accertamenti di carattere parziale e provvisorio, perché costruiti su dati per definizione incompleti, ma “it is likely that the applicant will be able to provide comprehensive data post-au- thorisation”. Si tratta dunque di dati provvisori, in continuo aggiornamento, e perciò instabili perché suscettibili di revisione sulla base delle evidenze empiriche via via raccolte. Come sappiamo essere stato dimostrato per fatti nel marzo 2021 (24).
Questo è il motivo per cui le autorizzazioni rilasciate sulla base di questi accertamenti sono ‘condizionate’. Sono, cioè, soggette ad una serie di adempimenti successivi imposti dall’autorità tecnica all’impresa farmaceutica (le condizioni, appunto, dell’autorizzazione), volte ad ovviare alla parzialità dei dati. E che si risolvono nell’obbligo di presentare, a scadenze calendarizzate, una serie di dati su profili specifici, individuati dall’EMA nel momento del rilascio, e che sono raccolti negli Allegati all’autorizzazione.
La quale autorizzazione prende le forme di una ‘Decisione di esecuzione’ della Commissione ex art. 291 TFUE, il cui scopo è quello di recepire le valutazioni tecniche già prodotte (25), ed attribuire loro efficacia formale.
È questa la ragione per cui le autorizzazioni condizionate sono in realtà autorizzazioni provvisorie, che non a caso hanno una durata limitata nel tempo, fissata dal Reg. 507/2006 in 12 mesi.
È normale – ed è chiaramente auspicato nello svolgimento del Con- siderando – che queste autorizzazioni, ultimata la raccolta, e la presentazione dei dati richiesti all’istante, possano poi convertirsi, a seguito di valutazione EMA, in autorizzazioni standard, valide per 5 anni, durante i quali si svolge la normale fase di farmacovigilanza. Ma questa è solo un’eventualità, prevista al punto (6), visto che gli accertamenti che legittimano l’immissione in commercio sono accertamenti evidentemente ancora in fieri. Tant’è vero che, nel gergo medico, queste vengono comunemente chiamate autorizzazioni di fast-track.
Sicché, se si volesse provare ad esemplificare il rapporto fra questi due diversi tipi di accertamento, uno pieno e definitivo, tipico dell’autorizzazione standard, e uno parziale e provvisorio, tipico dell’autorizzazione condizionata, si potrebbe dire che il rapporto tra questi due diversi tipi di accertamento non è troppo diverso dal rapporto che intercorre, nel processo civile, tra un accertamento tecnico preventivo ex art 696 c.p.c., in fase cautelare o precontenziosa, e l’accertamento prodotto da una CTU, allegato alla decisione che chiude il giudizio (26).
O, nel processo amministrativo, tra accertamento tecnico in fase cautelare, e accertamento tecnico racchiuso in una decisione di merito.
In tutti questi casi si ha a che fare con la stessa esigenza. Che è quella di predisporre strumenti di intervento immediato, anticipatori di risultanze future, con quel che è destinato a discenderne in termini di ampiezza, di stabilità nel tempo, e di efficacia degli accertamenti così disposti.
4. Le cinque fasi della sperimentazione
Con riferimento alle autorizzazioni condizionate dei quattro vaccini antiCovid in circolazione, l’eccezionale risultato di mettere a disposizione del pubblico un vaccino (o una terapia preventiva: la questione è controversa, ma per il momento irrilevante) a meno di un anno dall’avvio della Pandemia, è stato presentato come il frutto di uno snellimento delle procedure burocratiche (l’autorizzazione condizionata) e del considerevole sforzo, anche finanziario, sopportato dagli Stati nazionali per velocizzarne realizzazione, sperimentazione e commercializzazione.
È sempre il sito dell’EMA a spiegare con abbondanza di dati ed esemplificazioni le forme in cui si è realizzato questo snellimento (27).
Normalmente le fasi di sperimentazione clinica (e cioè di sperimentazione sull’uomo, dopo le prove di non tossicità sugli animali, dette di Fase preclinica) sono tre, realizzate in sequenza. E cioè Fase 1 (Non tossicità), Fase 2 (Efficacia), Fase 3 (valutazione di efficacia rispetto ai farmaci già in circolazione, e valutazione del rapporto rischio/beneficio), cui segue il rilascio dell’autorizzazione standard, e l’avvio, per un periodo di 5 anni, della Fase 4 di farmacovigilanza successiva (cd. sorveglianza postmarketing) (28).
Nel caso dei quattro vaccini/terapie Covid le cose sono andate diversamente.
Qui le diverse fasi, per evidenti ragioni, sono state soggette ad uno svolgimento in parallelo e non in sequenza come normalmente avviene. Più precisamente si sono realizzate attraverso una sovrapposizione parziale di fasi che va sotto il nome di ‘partial overlap’, e che prevede l’av vio della fase successiva a poca distanza dall’avvio della fase precedente. La leggera sfasatura nell’avvio delle Fasi di sperimentazione riduce i rischi connessi ad una sovrapposizione totale delle fasi, e accelera i normali tempi di svolgimento delle sperimentazioni.
I vantaggi di avere realizzato una sperimentazione e una conseguente commercializzazione accelerata sono evidenti. Questi vantaggi, però, non sono privi di conseguenze: perché ciò che si guadagna in celerità viene inevitabilmente pagato in termini di certezza e stabilità degli accertamenti così prodotti.
Da qui molte, e inutili (ma comprensibili), polemiche sul carattere sperimentale o meno di questi vaccini/terapie. Alimentate da improvvide dichiarazioni pubbliche.
La verità è che questi vaccini non sono affatto sperimentali come erroneamente si dice nel linguaggio comune (perché comunque già sperimentati in fast-track/partial overlap). Ma nemmeno sono pienamente sperimentati, come è sempre avvenuto finora per le somministrazioni vaccinali obbligatorie. E ciò perché il procedimento che ha presieduto alla loro autorizzazione rappresenta una figura intermedia nella sistematica degli atti di autorizzazione desumibile dai Regolamenti di settore.
E infatti, nelle ipotesi di vaccinazione obbligatoria, tutt’altro che infrequenti nel nostro ordinamento, la sperimentazione si è conclusa da tempo, sulla base di evidenze empiriche stratificate. E su questa base consolidata da tempo è solo normale che il legislatore possa legittimamente prescrivere obblighi vaccinali.
Si pensi, ad es., alla l. 292/1963 che impone da sessant’anni la vaccinazione antitetanica come condizione per lo svolgimento di attività in settori assai diversi tra loro, che vanno dalla fabbricazione del cartone alla manipolazione dei rifiuti; dalle lavorazioni agricole alla metallurgia, senza che questo abbia mai generato alcun problema. Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi con facilità.
Lo stesso non si può dire dei vaccini anti-Covid, che sono una rispo sta temporanea e provvisoria ad una situazione di emergenza. E che, in ragione dell’urgenza di provvedere, cercano di conciliare due esigenze opposte. E cioè celerità da una parte, ed efficacia-sicurezza dall’altra.
5. L’indennizzo del danno vaccinale. Inevitabile, ma ponderabile
Questo fatto, però, non è privo di conseguenze sulla questione degli obblighi vaccinali, se è vero, come è vero, che il legislatore è condizionato, in materia sanitaria, dalle acquisizioni medico-scientifiche.
Che gli obblighi vaccinali possano essere disposti con legge è detto chiaramente nell’art. 32 Cost., quando pone accanto al diritto alla salute anche l’interesse della collettività: perché esattamente a questo si pensava in Costituente quando si scriveva l’art. 32 Cost.
Tant’è vero che le polemiche degli ultimi anni sull’introduzione dell’obbligo vaccinale risultano poco comprensibili, almeno da un punto di vista giuridico, se si riflette sulla amplissima massa di dati riferibili a questi vaccini e raccolti nel tempo. Di quella vicenda si trova una sintesi nella dec. 5/2018 della Corte costituzionale.
I problemi, semmai, sono altri. E si riconducono al fatto che il rischio vaccinale è ineliminabile.
Perché è acclarato, a livello di sapere di settore, che lo stesso vaccino può produrre effetti diversi in organismi diversi. Ed è ovvio che sia così: il vaccino è sempre lo stesso, ma non tutti i corpi sono uguali.
E le sperimentazioni – quando sono complete – servono a misurare questo rischio, e a renderlo accettabile, con le cautele ulteriori della farmacovigilanza.
Prova ne sia il fatto che in Italia è in vigore dal 1992 la legge 210, che prevede un fondo di indennizzo per le vittime dei danni irreversibili da vaccinazione obbligatoria, oltre che di emotrasfusione e di somministrazione di emoderivati, annualmente rifinanziato in Legge di Stabilità.
Così come non è un caso che, sulla scorta del principio affermato dalla l. 210/1992, la l. 244/2007 preveda un fondo per il risarcimento dei danni da talidomide. Che è la sfortunata vicenda da cui si è originata, decenni dopo, l’introduzione della farmacovigilanza ex post (la cd. Fase 4) (29).
Non è un caso che queste discipline siano presenti nell’ordinamento. Perché è giusto che i danni patiti da un individuo nell’interesse della collettività siano oggetto di indennizzo (se non di risarcimento) da parte della stessa collettività che trae vantaggio dal rischio (e dal potenziale sacrificio) di un suo membro.
È giusto, però, finché i danni sono limitati e accettabili, perché accertati quanto al livello di probabilità su dati empirici stratificati.
Nel momento in cui questo rischio non fosse accertato quanto ad intensità e probabilità, l’obbligo vaccinale rischierebbe di risolversi in qualcosa di diverso: e cioè nell’imposizione con legge (o decreto legge) di un rischio non pienamente accertato da un punto di vista statistico quanto alla misura del danno, e alla ripartizione del rischio di danno fra i destinatari di quell’obbligo.
Così come giuste sono le ‘addizioni’ introdotte alla disciplina vigente dalla Corte costituzionale con le decc. 268/2017 e 118/2020 (rel Zanon), laddove l’obbligo vaccinale in senso proprio viene equiparato, ai fini dell’indennizzo, ai vaccini che siano stati oggetto di campagna promozionale. Decisioni, queste, che meriterebbero maggiore approfondimento da parte degli studiosi per le raffinate precisazioni che vi si trovano sul rapporto tra ‘prescrizione medica’ e ‘prescrizione giuridica’ e il diverso tipo di normatività che questi due ‘tipi’ di prescrizione esprimono.
Che da sole illuminano molto della questione in corso, soprattutto in punto di obbligo di Green Pass. E che comunque possono essere base per un’eventuale richiesta, non di indennizzo, in questa fase, ma di risarcimento ex art. 2043 c.c., attraverso le vie della giurisdizione ordinaria.
6. L’interesse della collettività ex art. 32 Cost. (a breve, medio, o lungo termine?) e l’accertamento impossibile
In questa situazione di inevitabile ‘incompletezza’ ed ‘instabilità’ degli accertamenti tecnici che dovrebbero stare alla base dell’introduzione di un obbligo vaccinale, sembra insomma difficile convenire con la tesi – davvero semplicistica – che basterebbe una legge per l’introduzione dell’obbligo vaccinale.
E si può dire ciò perché gli accertamenti alla base del rilascio delle autorizzazioni condizionate non sono, per definizione, accertamenti pieni e definitivi, e comportano pertanto un rischio non misurabile.
Il quale rischio non misurabile, non può essere imposto, e fatto sopportare in forma coattiva senza violare il principio, imposto dalla giurisprudenza costituzionale, che pone le risultanze tecnico scientifiche come base di legittimazione dell’intervento dei pubblici poteri in materia sanitaria. E ciò perché a medio e lungo termine le risultanze scientifiche non ci sono perché non ci possono essere. Sicché il vizio di legittimazione si converte direttamente in vizio di legittimità.
Non solo, ma l’invocazione ricorrente all’‘interesse della collettività’ di cui all’art. 32 come contrappeso al principio dell’habeas corpus, è quantomeno fuorviante, nel nostro caso.
Dell’interesse di quale collettività si sta parlando, quando si dice che le vaccinazioni obbligatorie anti-Covid possono essere introdotte a tutela dell’interesse collettivo? Certo, in casi normali questo problema non si pone, né si è mai posto prima. Perché finora il rischio da sopportare nell’interesse della collettività è già stato valutato e accertato nel tempo in sede di sperimentazione prima, e di farmacovigilanza poi. E su questa base è stato ritenuto accettabile.
Ma quando si ha a che fare con accertamenti parziali e provvisori, per definizione carenti di valutazione nel tempo, come è il caso degli ac certamenti che stanno alla base delle autorizzazioni condizionate, ci si deve chiedere quale possa essere il profilo di rischio di un obbligo vaccinale a medio e lungo termine. E cioè, per capirci, quali possano essere gli effetti che la somministrazione coattiva può indurre nella collettività nel giro di 5, e poi di 10 anni: ciò che appunto si intende per valutazione a medio e lungo termine.
Siamo sicuri che la collettività da tutelare sia solo quella dell’estate/ autunno 2021? O, imponendo quest’obbligo, dobbiamo pensare anche alla collettività del 2026? E magari, oltre a questa, anche a quella del 2031? Le invocazioni all’interesse delle generazioni future – e le relative proposte di revisione costituzionale – valgono solo in materia di politiche di bilancio e ambientali, o valgono anche in materia sanitaria (vaccinale) (30)?
Si tratta di un interrogativo, questo, che, ancora una volta, nasce dalla impossibilità, allo stato attuale, di avere certezze acquisite in ordine agli effetti a medio e lungo termine derivanti dalla somministrazione di questi vaccini.
Tutto il problema, alla fine, si riduce a questo.
Perché se è vero che in materia sanitaria il legislatore può muoversi solo sulla base di accertamenti tecnico scientifici, fondati su evidenze empiriche, bisogna riconoscere che in natura non è possibile avere oggi evidenze empiriche sugli effetti a medio e lungo termine.
A meno – spiace doverlo dire in termini paradossali – di avere a disposizione una macchina del tempo, che consenta di raccogliere evidenze empiriche dal futuro. Il che può essere visto, non come un paradosso, ma solo come la riformulazione, in termini attuali, dell’antico ‘si cae- lum digito tetigeris’ (31). Che nel nostro caso assumerebbe le forme – davvero mai viste – dell’accertamento pro futuro: dell’accertamento, cioè, che prevede di accertare oggi un fatto futuro ed eventuale.
Questa impossibilità in rerum natura di compiere valutazioni di medio e lungo termine, però non è priva di conseguenze. Si traduce in un limite strutturale degli accertamenti tecnici di settore: limite che, se superato, peserebbe in modo insuperabile sulla legittimità di una eventuale legge (e tanto più su un decreto legge) che disponesse un obbligo di vaccinazione.
E che, stante la lettera degli artt. 95 e 67 Cost., scaricherebbe la responsabilità (non solo) politica degli eventi futuri su chi avesse introdotto tale obbligo in assenza di acclarate evidenze empiriche (32).
Perché non ci dovrebbe voler molto a capire che, alla fine, l’accertamento tecnico non è altro se non la condizione, posta dall’ordinamento costituzionale, all’intervento del legislatore in materia sanitaria.
E se questo è vero, allora dovrebbe essere facile capire che il limite strutturale dell’accertamento finisce con l’essere anche il limite strutturale di un eventuale intervento legislativo.
Ed è in questo caso la natura della fattispecie a segnare i confini dell’accertamento tecnico, e quindi, della potestà legislativa statale (33).
Non ci dovrebbe nemmeno essere bisogno di osservare che la natura indeterminata del rischio, allo stato attuale delle conoscenze, rende poi impossibile anche ogni operazione di bilanciamento in sede di giudi zio di legittimità costituzionale. E, infatti, come sarebbe possibile, per la Corte, bilanciare una quantità sconosciuta e inconoscibile (come allo stato è il rischio vaccinale a medio e lungo termine) con qualsiasi valore costituzionale? In questo caso il bilanciamento uscirebbe dalla logica che gli è propria e si tradurrebbe in una pura petizione di principio, però as sistita dal principio della inoppugnabilità delle sentenze della Corte ex art. 137 Cost. (34).
Il che, si badi, varrebbe anche quando le autorizzazioni condizionate, già rilasciate dalla Commissione, fossero convertite, con un tratto di penna, in autorizzazioni standard, senza il rispetto del principio di sequenzialità delle fasi di sperimentazione formalizzato nei Regg. 726/2004 e 507/2006. Ma che esisterebbe anche al di fuori del suo recepimento nel diritto UE.
Il quale principio, si comincerà a capire, è stato introdotto nei protocolli di sperimentazione, non a caso, o per amor di sperimentazione, ma per assicurare una adeguata verifica nel tempo dei profili di sicurezza ed efficacia dei farmaci da mettere in circolazione attraverso il rilascio di autorizzazione commerciale standard.
E allora, se sappiamo dal 2002 che la funzione legislativa è condizio nata dagli accertamenti tecnici, siamo sicuri di non trovarci ad avere a che fare con il classico problema della condizione impossibile, quando parliamo di obbligo vaccinale sulla base di un accertamento ora pro fu- turo? E cioè di un accertamento che, per definizione, non può essere se non impossibile e paradossale?
7. L’accertamento impossibile e la sperimentazione infinita. Quando finisce una sperimentazione?
È chiaro che si tratta di un interrogativo radicale, che da solo dovrebbe invitare alla riflessione, e che, per non essere inutilmente distruttivo, deve fare i conti con la realtà.
E per fare i conti con la realtà, da questo interrogativo deve per forza venirne un altro, che è poi quello relativo all’identificazione del momento in cui un accertamento su base sperimentale può dirsi sufficientemente fondato.
Perché è chiaro che anche ai processi di accertamento in via sperimentale si deve poter porre un termine. Nelle discipline processuali il giudicato formale serve ad evitare il regressus ad infinitum attraverso l’esaurimento dei mezzi di impugnazione. E la decisione possa così svolgere quella necessaria funzione di stabilizzazione delle situazioni giuridiche, che è tipica della cosa giudicata sostanziale (35). La quale non fornirà mai la verità assoluta, ma ha almeno il vantaggio di darci una verità convenzionale che è da accettare a fini pratici, perché utile ad evitare il fiat iustitia pereat mundus.
Detto in altri termini, l’apposizione di un limite convenzionale alle sperimentazioni che stanno alla base di un accertamento sulle proprietà di un farmaco è necessario per evitare di cadere da un paradosso – che è quello dell’accertamento impossibile – all’altro, che sarebbe quello della sperimentazione infinita, che andasse alla ricerca della verità definitiva e incontrovertibile.
Che, piaccia o non piaccia, si sa benissimo essere impossibile da raggiungere in via sperimentale, a meno di non voler continuare a confondere la ‘scienza’ con i Dieci Comandamenti, come sembra essere diventato frequente nel discorso pubblico.
La questione però – bisogna esserne subito avvertiti – è destinata, almeno per il momento, a restare aperta. E non perché sia impossibile chiuderla, ma perché è espressa da un problema di successione tra fonti, e quindi di diritto intertemporale, particolarmente delicato e gravido di conseguenze, presente nella normativa di settore.
Perché, in poche parole, è vero che dal 2014 è in vigore in Europa il Reg. 2014/536 (Clinical Trials Regulation), destinato a disciplinare e uniformare le pratiche di sperimentazione clinica in Europa (36).
Questo obiettivo di uniformazione delle pratiche di sperimentazioni si sarebbe dovuto cogliere attraverso l’abrogazione (da parte di un Regolamento) della disciplina della precedente Dir. 2001/20. La quale, come ogni Direttiva, rinviava per la sua attuazione ai legislatori nazionali, con il risultato di dare vita ad un particolarismo giuridico (e autorizzatorio) disfunzionale alle esigenze della ricerca, e comunque gravido di conseguenze economiche. Si tratta, per inciso, della stessa Direttiva cui si fondano i Regg. 2004/726, e il Reg. 2006/507 che abbiamo visto essere alla base della tipologia di autorizzazioni presenti in UE.
La faticosa approvazione del Reg. 2014/536 avrebbe dovuto fornire una più solida base giuridica alle good practices che di fatto vengono applicate durante le diverse fasi di sperimentazione, fissandone, fasi, svolgimento, e termine. E, in linea di principio, intervenire sul problematico aspetto dei controlli sulle fasi e sui risultati delle sperimentazioni.
Il punto è che questo Regolamento UE, entrato in vigore nel 2014, è restato per così dire in sospeso fino ad oggi, per diverse ragioni, tra le quali rientra lo spostamento della sede EMA da Londra a Amsterdam conseguente alla Brexit. A cui si devono aggiungere le difficoltà di attivazione del CTIS (Clinical Trials Information System), ovverosia del database UE sulla sperimentazione clinica che costituiva condizione imprescindibile per la sua entrata in funzione.
Non si tratta di un caso eccezionale che una disciplina entrata in vigore sia sospesa, quanto alla sua efficacia, perché inapplicabile in assenza di adempimenti successivi (37). Anzi, nell’ambito del diritto pubblico è una cosa che avviene con una certa frequenza: basti pensare a cosa sia l’efficacia di una legge la cui applicazione possa dipendere dall’adozione di successivi decreti ministeriali di attuazione. È formalmente efficace, ma inapplicabile nella realtà.
L’impressione, però, è che qui si abbia a che fare con qualcosa di diverso.
Il punto è che l’art. 96 Reg. 2014/536, prevede che
Articolo 96 Abrogazione. 1. La direttiva 2001/20/CE è abrogata a decorrere dalla data di cui all’articolo 99, secondo comma. 2. I riferimenti alla direttiva 2001/20/CE si intendono fatti al presente regolamento e si leggono secondo la tavola di concordanza di cui all’allegato VII.
L’art 99, cui fa rinvio il 96, prevede che
Articolo 99 Entrata in vigore. Il presente regolamento entra in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea. Esso si applica a decorrere da sei mesi dopo la pubblicazione dell’avviso di cui all’articolo 82, paragrafo 3, ma comunque non prima del 28 maggio 2016.
L’art. 99, a sua volta, rinvia all’art. 82 par. 3, il quale prevede che il Regolamento sia applicabile dopo un evento futuro (e incerto nell’an) previsto dall’art. 82 par. 3, che è poi la pubblicazione in G.U. dell’Unione dell’avviso relativo all’attivazione del sistema informatico CTIS.
Articolo 82 Funzionalità del portale e della banca dati UE. 1. L’agenzia, in collaborazione con gli Stati membri e la Commissione, elabora le specifiche funzionali del portale UE e della banca dati UE, insieme al calendario per la relativa applicazione. 2. Il consiglio di amministrazione dell’Agenzia, sulla base di una relazione di revisione contabile indipendente, informa la Commissione di aver verificato la piena funzionalità del portale UE e della banca dati UE e la conformità dei sistemi alle specifiche funzionali redatte a norma del paragrafo 1. 3. La Commissione, dopo aver accertato che le condizioni di cui al paragrafo 2 sono soddisfatte, pubblica un avviso a riguardo nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea.
A parte ogni considerazione sulla raffinata tecnica normativa impiegata, che sarebbe stata degna di miglior causa, è chiaro che il Reg. 536/ 2014 ci consegna un atto normativo che si definisce in vigore, ma espressamente non applicabile. Che è qualcosa di diverso rispetto all’ipotesi di un atto inapplicabile per mancanza di strumenti di attuazione.
In realtà, come si diceva, nonostante il problematico impiego delle categorie di ‘vigenza’ e ‘applicabilità’ della versione italiana, si tratta di un atto normativo sottoposto a una condizione di efficacia. Le autoqualificazioni normative hanno il valore che hanno, e decenni di giurisprudenza costituzionale sui rapporti tra Stato e Regione stanno a dimostrarcelo (38), tanto più laddove questi termini vengono espressi in una lingua straniera e poi tradotti. Sicché la figura giuridica che meglio potrebbe descrivere la condizione del Reg. 536/2014, almeno nell’ordinamento italiano, è quella della abrogazione subordinata ad una condizione (39). L’art. 17/2 co. l. 400/1988, del resto, prevede un fenomeno simile di successione di fonti nel tempo subordinata ad una condizione. E qualcosa di simile si è avuto, di recente, con la vicenda dei d.P.C.M. (40).
Nell’Aprile 2021, l’EMA ha annunciato l’attivazione del portale per il 31 gennaio 2022 (41), subordinando a questa attivazione anche il passaggio dalla antica alla nuova disciplina (formale) delle sperimentazioni che presiedono al rilascio delle autorizzazioni commerciali. Che comunque è governata da un complesso sistema di norme transitorie, finalizzate a consentire il passaggio graduale da un regime ad un altro delle sperimentazioni, garantendo comunque il tempus regit actum per i soggetti istanti (cd. sponsor della ricerca).
Sicché è facile capire come in questo intervallo di tempo il quadro giuridico che regola le attività di sperimentazione sia stato e continui ad essere – per così dire – in una delicata fase di transizione.
Tanto che, almeno in Italia, sembra trovare ancora applicazione l’antico D.M. 15 luglio 1997 (Recepimento delle linee guida dell’Unione europea di buona pratica clinica per la esecuzione delle sperimentazioni cliniche dei medicinali), la cui emanazione risale ai tempi del passaggio dal CUF (Comitato Unico per il Farmaco) all’AIFA, e via via aggiornato nel tempo.
E che non a caso l’AIFA indica tra le fonti cui presta osservanza (42). Nonché il nebuloso complesso normativo introdotto in Italia, in attuazione della Dir. 2021/20 e destinato ad essere travolto dall’entrata in vigore del Reg. 2014/536 (43).
Il quale decreto del 1997, di fatto, viene però letto e applicato alla luce dei principi contenuti nel Reg. 2014/536, in quanto compatibili: in realtà in base ad un sistema di soft-law dalla base giuridica e dai confini instabili. Anche questo, però, per quanto rilevante, non deve stupire troppo, e può essere ricondotto alla categoria, ben nota a chi frequenti il diritto pubblico dell’economia, dei fenomeni di ‘normatività sociale’ che si riallacciano al fenomeno della ‘autoregolazione’ di settore (44).
Con la consapevolezza, però, oltre che dei vantaggi, anche dei problemi che possono eventualmente discendere dalla logica della ‘autoregolazione’ se applicata alla materia sanitaria (45).
Il risultato in questa situazione è facilmente immaginabile, e può contribuire, assieme ad altro, a spiegare molto delle incertezze che regnano al momento sul punto. E può spiegare molti dei dubbi che l’oggettivo stato di confusione del quadro normativo di settore finisce inevitabilmente con il generare se collocato in una situazione di emergenza mai sperimentata prima, come è quello della Pandemia.
Soprattutto se a muoversi in questo quadro – e a parlarne in pubblico – sono portatori di competenze non giuridiche. E quindi non addestrati a maneggiare in piena consapevolezza i profili giuridici di questioni di tale delicatezza e complessità (46). Il che, a tacer d’altro, ci dovrebbe dimostrare che il problema dei saperi di settore – meglio: della comunicazione tra i saperi di settore – è un problema reale.
8.L’Emendamento Moro e il perimetro del bilanciamento tra diritto individuale e interesse collettivo
Ma non c’è solo il limite (interno) degli accertamenti tecnici da tenere in considerazione a proposito di una legge introduttiva di un obbligo vaccinale. Nell’art. 32 Cost. c’è anche dell’altro: ed è quella parte dell’art. 32 che ci ricorda che, anche se opera con legge, il legislatore “non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Non si tratta di un rilievo estemporaneo, né del richiamo a un qualche generico ‘valore’ da bilanciare in nome di proporzionalità e ragionevolezza. Si tratta invece, di una esplicita norma di divieto che non può essere bilanciata, proprio perché la sua funzione è quella di perimetrare i confini, entro cui possono svolgersi i bilanciamenti tra diritto individuale e interesse della collettività previsti dallo stesso art. 32 Cost. In altri termini, stando all’art. 32 Cost., si può bilanciare quel che si vuole e come si vuole, purché questo avvenga ‘nel rispetto della persona umana’, che segna il confine entro il quale deve muoversi la discrezionalità del legislatore.
E che non può essere valicato, essendo tale limite facilmente riconducibile al ‘nucleo duro’, incomprimibile, e caratterizzante l’ordinamento costituzionale, a più riprese delineato dalla giurisprudenza costituzionale. E che non può essere superato attraverso un generico rinvio alla salus rei publicae. Sappiamo trattarsi di una classica questione di teoria della Costituzione che qui può essere solo accennata (47).
Per rendersi conto della funzione di sbarramento del richiamo alla ‘rispetto della persona umana’ compreso nell’art. 32, basta riprendere i contenuti del dibattito svoltosi in Assemblea Costituente in data 28 gennaio 1947, quando Aldo Moro, interviene in Commissione spiegando che i medici dell’Assemblea gli si erano rivolti con la richiesta di intro durre un emendamento finalizzato a porre delle limitazioni al potere del legislatore di disporre trattamenti sanitari coattivi.
Si trattava, ci dice Moro, “del problema della sterilizzazione e di altri problemi accessori” che evidentemente si erano posti successivamente alla diffusione delle notizie relative alle pratiche medico-sperimentali della fase bellica (48).
Che il problema degli interventi coattivi sanitari fosse ben presente già allora nella comunità scientifica, e costituisca un problema ricorrente, è testimoniato, se non altro, dall’intervento di replica a Moro di Umberto Nobile, il quale sostiene l’opportunità della sterilizzazione per le categorie di soggetti affetti da malattie ereditarie trasmissibili “perché la legge dovrebbe prevenire che siano messi al mondo degli infelici” destinati alla trasmissione di tare ereditarie. E comunque, che si possono dare “dei casi speciali in cui, per ragioni superiori riguardanti l’interesse stesso della sanità collettiva, la legge possa essere costretta ad imporre determinate pratiche sanitarie che con l’emendamento si vorrebbero escludere in ogni caso” (49).
La finalità dell’intervento, precisa Moro in risposta a Nobile, è quella di “evitare che la legge, per considerazioni di carattere generale, e per una mala intesa tutela degli interessi collettivi possa disporre trattamenti lesivi della dignità umana”.
L’immediata votazione della Commissione chiude la discussione, approva l’emendamento Moro, ed introduce un limite espresso alla discrezionalità del legislatore nel bilanciare libertà individuale e interesse della collettività.
È però evidente che questo limite espresso non è destinato solo ad operare nei confronti del legislatore. Esprime un principio che si riallac cia al nucleo originario e fondante dell’ordinamento costituzionale e rappresenta una specificazione del richiamo che l’art. 2 Cost. opera ai ‘diritti inviolabili’ dell’uomo, posto, non a caso, accanto al richiamo ai ‘doveri inderogabili’ di solidarietà che oggi si invocano.
E, contrariamente a quel che si può credere, segna un limite esplicito anche alla possibilità di bilanciare i ‘diritti’ e ‘doveri’ da parte della giurisprudenza costituzionale. Insomma, è difficile credere che si possa bilanciare una norma come: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione”. La forma repubblicana, nel suo significato minimale, di divieto espresso alla restaurazione della monarchia, o la si rivede o la si viola. E se la si rivede, la si viola. Non c’è bilanciamento possibile qui.
Allo stesso modo è difficile credere che si possa bilanciare una norma come: “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Come si bilancia una norma di divieto che non ammette espressamente eccezioni o deroghe (“in nessun caso”)? È chiaro che si tratta di un’operazione impossibile, a meno di non voler bilanciare l’interesse della collettività (di quale collettività?) con un divieto espresso (50). Il che, però, se tradotto in termini razionali, prende da sempre il nome di ‘deroga’, se non di ‘eccezione’, a seconda che si riferisca ad una singola, o ad una molteplicità di fattispecie nel tempo. E non di ‘bilanciamento’.
E resta, il bilanciamento, un’operazione impossibile a meno di voler convertire – però contro la lettera del testo – “i limiti imposti dal rispetto della persona umana” nel generico ‘valore della dignità’ dell’uomo o della persona, secondo un uso linguistico impropriamente diffuso.
Omettendo, però, di ricordare che di ‘dignità’ si parla in altre parti della Costituzione, ma non nell’art. 32.
Tra bilanciamento e infinita permutazione delle lettere dell’alfabeto c’è ancora differenza (51).
9. È reversibile la vaccinazione?
Se poi ci si vuole chiedere cosa abbiano in comune ‘sterilizzazione’ e una possibile vaccinazione obbligatoria sulla base di un vaccino/farmaco che, in questo momento, non può essere soggetto ad altro che ad una sperimentazione parziale e provvisoria – stante il limite posto del fattore tempo agli accertamenti empirici – la risposta è facile.
A legare assieme questi due trattamenti – evidentemente diversi – è la irreversibilità degli effetti del trattamento. E non altro. Perché – si passi l’espressione – può anche essere possibile pensare di sbattezzarsi, ma sembra molto difficile potersi svaccinare una volta che ci si è assoggettati (o si è stati coattivamente sottoposti, o indotti [52] ad un trattamento sanitario di questo genere [53]).
In questo caso, la disponibilità del corpo – tradizionalmente protetta dalla garanzia dell’habeas corpus, che è il cuore dell’art. 13 Cost., e dovrebbe esserlo anche del sistema delle libertà previste in Costituzione (54) – sarebbe già stata violata in modo irreversibile.
Né una eventuale legge di sanatoria – che sappiamo essere l’istituto attraverso il quale il legislatore può intervenire sugli effetti giuridici già prodotti – potrebbe produrre alcun effetto sul piano della realtà. E cioè sul corpo dei vaccinati (Factum infectum fieri non potest).
Per brevità, non vale nemmeno la pena di esaminare l’eventualità che un obbligo vaccinale possa essere fondato, anziché sull’art. 32 Cost., sulla possibilità, per lo Stato, di qualificare un obbligo vaccinale in termini di prestazione personale obbligatoria ex art. 23 Cost. A tacer d’altro, che pure sarebbe da dire, a rendere manifestamente irragionevole questa tesi, sarebbe, anche qui, la natura inevitabilmente parziale e provvisoria degli accertamenti tecnici che, al momento, starebbero alla base di tale obbligo. E che condurrebbero, senza fondamento, allo stesso effetto di compressione dell’habeas corpus.
10. Una fonte instabile fondata su un accertamento instabile
Il che ci conduce direttamente all’ultimo punto da esaminare. Che è quello relativo all’idoneità del decreto legge ad introdurre obblighi vaccinali dagli effetti potenzialmente irreversibili.
Il decreto legge è per definizione una fonte instabile, per quanto provvista della stessa efficacia formale della legge. Da qui il problema risaputo degli effetti irreversibili, cui il Costituente ha cercato di porre riparo attraverso l’istituto della decadenza, e attraverso la previsione della possibilità di leggi di sanatoria, che, del decreto legge, potessero stabilizzare gli effetti temporaneamente prodotti nel passato (55).
Non ci vuole molto a rilevare che una fonte ad efficacia instabile e provvisoria, suscettibile di produrre effetti irreversibili nella realtà, che sfuggono alla retroazione della decadenza, come è il decreto legge, se impiegata per introdurre un obbligo vaccinale sulla base di accertamenti parziali e provvisori, ma suscettibili di produrre effetti irreversibili sul corpo delle persone, costituirebbe (costituisce?) una anomalia giuridica mai vista prima.
Che sommerebbe provvisorietà a provvisorietà; e irreversibilità a irreversibilità.
Da qui la tesi per cui, in materia di obbligo vaccinale, si ha a che fare, in ragione della natura della fattispecie, con una necessaria riserva al procedimento e alla fonte formale, al di là di quanto disposto dalla lettera dell’art. 72/4 Cost. La vicenda avviatasi a partire dalla dec. 16 del 1978, in punto di limiti all’ammissibilità referendaria, è un buon esempio di come la natura della fattispecie può influire sull’interpretazione costituzionale. E possa generare limiti sconosciuti alla lettera della Costituzione formale. Ma non di meno altrettanto vincolanti.
11. Una conclusione?
Nondimeno sappiamo tutti – o dovremmo ricordare – che il diritto pubblico ha i suoi limiti (56), e queste osservazioni possono essere superate dalla realtà. Ma non sulla base di una qualche invocazione alla ‘salus rei publicae’, all’insensatezza del ‘fiat iustitia, pereat mundus’ (‘Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo’, n.d.r.), o a qualche nuovo ‘bilanciamento’, già preannunciato, che, coinvolgendo una situazione futura ed eventuale, poco avrebbe a che vedere con il diritto razionale.
Ma, semplicemente sulla base della vecchia, disarmante formula, mai capita fino in fondo, per cui ‘Souverän ist, wer über den Ausnahme- zustand entscheidet’ (‘Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione’, C. Schmitt, n.d.r.).
Che è misteriosa in tempi di normalità, ma diventa chiarissima in tempi di crisi (57).
Con tutto quel che, da questa formula, sappiamo discendere quando ci si avvicina troppo al nucleo caratterizzante l’identità costituzionale di un ordinamento. E che serve a marcare la differenza tra un ordinamento costituzionale ed un altro.
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