martedì 29 marzo 2022

Il nuovo disordine mondiale / 7: il trionfo della disinformazione digitale di massa.

 «La cultura di Internet ha creato una nuova enorme interfaccia uomo-macchina che sembra fatta apposta per la disinformazione di massa» Thomas Rid

 

sinistrainrete.info - carmillaonline.com Gioacchino Toni 

Il corposo volume di Thomas Rid, Misure attive. Storia segreta della disinformazione (Luiss University Press, 2022), tratteggia in maniera documentata la storia della disinformazione professionale organizzata che prende il via negli anni Venti del Novecento per giungere fino ai giorni nostri palesando come si sia ormai entrati in un’epoca in cui la disinformazione trionfa nonostante le potenzialità comunicative offerte dai nuovi media, e forse anche a causa di queste. Un’epoca in cui agenzie di comunicazione, professionisti dei social media e abili hacker sembrano incessantemente all’opera nel divulgare fake news e falsificare dati contribuendo in maniera rilevante a rendere sempre più arduo distinguere la realtà da tutti i suoi verosimili riflessi.

Docente di studi strategici alla Johns Hopkins University, Thomas Rid è considerato tra i massimi esperti di cybersecurity e delle implicazioni politiche di intelligence, spionaggio e hacking, tanto da essere interpellato dal Comitato sull’Intelligence del Senato degli Stati Uniti a proposito delle dibattute interferenze informatiche dell’intelligence russa nelle elezioni presidenziali statunitensi tenutesi nel 2016.

Il livello di disinformazione a cui si è giunti rappresenta il punto di approdo delle svariate operazioni di influenza pianificate nel corso di un secolo. Dalle campagne di disinformazione successive alla rivoluzione russa a quelle organizzate dalle agenzie di spionaggio delle superpotenze nel corso dei decenni della guerra fredda, fino alle recenti vicende della “fattoria dei troll” di San Pietroburgo, il volume di Rid, ricorrendo a diversi documenti esclusivi, ricostruisce alcuni passaggi epocali di un secolo di attività di disinformazione organizzata condotta senza esclusione di colpi.

La storia della disinformazione moderna, sostiene lo studioso, procede attraverso quattro grandi ondate e prende il via nei primi anni Venti del Novecento, durante la Grande Depressione, quando il giornalismo inizia a farsi sempre più rapido e competitivo grazie alla radio. La successiva ondata si dispiega dopo la seconda guerra mondiale, quando l’attività di disinformazione si fa professionale soprattutto grazie alle agenzie statunitensi che si dimostrano particolarmente attive e spregiudicate nell’inasprire le tensioni e contraddizioni in seno al corpo politico avversario attraverso la diffusione di una studiata miscela di verità e menzogne.

La terza ondata principia al termine degli anni Settanta facendosi vera e propria scienza operativa che gli apparati di intelligence del blocco sovietico iniziano ad indicare con l’espressione “misure attive”. La quarta ondata di disinformazione raggiunge il suo culmine attorno agli anni Dieci del nuovo millennio sfruttando le possibilità offerte da Internet. «La vecchia arte dell’influenza psicologica – basata su strategie lente, competenze tecniche, fatica e lavoro corpo a corpo – è diventata rapida, improvvisa, incoerente e a distanza. Le misure non solo sono divenute più “attive” che mai, ma sono anche molto meno “misurate”, al punto da mettere in discussione l’espressione stessa» (p. 13).

Pur avendo assunto forme differenti nel corso nel tempo, le misure attive risultano contraddistinte da un’attenta pianificazione e dalla presenza di elementi di disinformazione che possono assumere la forma di notizie false o contenuti falsificati ma anche di notizie in buona parte veritiere con l’aggiunta di qualche piccolo dettaglio falso circa la provenienza o l’identità di chi le diffonde.

L’analisi proposta da Rid ruota attorno a tre principali convincimenti:

1) Le campagne di disinformazione su larga scala rappresentano in generale un attacco all’autorità fattuale, tendendo a diffondere una maggiore propensione a dar credito a letture basate su sensazioni, emozioni e opinioni piuttosto che su fatti, prove e osservazione. «Già nei tardi anni Cinquanta i falsi delle intelligence erano al servizio di verità ideologiche più grandi […] I falsi non sempre distorcevano la verità, ma la articolavano in modo più chiaro» (p. 420). Con gli anni Sessanta, sostiene lo studioso, viene portato un attacco diretto al fattuale e non solo a proposito delle operazioni di intelligence. Nel decennio successivo, con il pensiero postmoderno ormai diffuso nelle università, soprattutto in ambito umanistico, «le agenzie di intelligence producevano materialmente conoscenza, costruivano nuovi artefatti, formavano il discorso con scopi tattici o strategici, di fatto cambiando il mondo» (p. 421). Ciò che davvero «rendeva le misure attive non era la correlazione con la realtà, ma con le emozioni, con i valori condivisi da una comunità, e la capacità di esacerbare le tensioni esistenti: nel gergo degli agenti della guerra fredda, di rafforzare le contraddizioni» (p. 421).

2) Storicamente non è individuabile una sostanziale differenza morale e operativa nelle misure attive sotto copertura dei due blocchi contrapposti. Se nel corso degli anni Cinquanta l’efficacia della CIA, soprattutto a Berlino, eccelleva e forse superava la dezinformatsiya sovietica, dopo la costruzione del Muro ad un evidente incremento dell’attività di disinformazione sovietica pare corrispondere un ridimensionamento di quella degli apparati occidentali.

3) L’avvento di Internet ha modificato profondamente le basi della disinformazione.

Internet non solo ha reso le misure attive più economiche, rapide, reattive e meno rischiose, ma le ha fatte anche diventare più efficienti e meno misurate. Lo sviluppo di nuove forme di attivismo e azione sotto copertura ha reso le operazioni più difficili da controllare e da valutare una volta iniziate. L’ascesa delle reti informatiche ha fatto emergere la cultura dell’hacking e del leaking. Alla fine degli anni Settanta è emerso un folto gruppo di attivisti filo-tecnologici avversi alle intelligence, che nel giro di un decennio è stato in grado di scatenare tsunami di energia politica grezza (p. 17).

Sistemi di manipolazione automatica e hacking hanno rinnovato l’arsenale delle misure attive e, sostiene l’autore, il confine tra sovversione e sabotaggio si è assottigliato così come quello tra operazioni semplici da attuare e difficili da scongiurare.

Il ruolo dei tradizionali mezzi di comunicazione resta fondamentale per le agenzie di disinformazione anche se i social media consentono di diffondere, amplificare e sperimentare misure attive direttamente senza ricorrere ai giornalisti.

Il primo portale dedicato ai leak è stato Cryptome che, sin dalla sua nascita nel 1996, si dichiarva disposto a pubblicare qualsiasi materiale senza svolgere verifiche e controlli pur consapevole di prestare così il fianco ad operazioni di disinformazione. I fondatori confidavano nella possibilità di confutazione permessa a chiunque volesse intervenire, dunque nella libertà dei fruitori di decidere a cosa e a chi credere.

 

Nel 2006 Julian Assange propose invano ai fondatori di Cryptome una collaborazione con il suo WikiLeaks che, da lì a poco, avrebbe conquistato la scena internazionale grazie alla diffusione nel 2010 di ben 250 mila documenti del Dipartimento di Stato e del Dipartimento della Difesa statunitensi forniti da Chelsea Manning e nel 2013 del materiale dell’NSA fornito da Edward Snowden. Nel frattempo l’attività del movimento hacktivista Anonymus iniziava a far parlare di sé. Curiosamente, sottolinea Rid, se per secoli la crittografia era stata al servizio di apparati di Stato, intelligence e militari, questa inizia ad essere utilizzata sempre più frequentemente dagli stessi attivisti.

La storia della disinformazione digitale ha giocato un ruolo importante anche nella gestazione della crisi tra Russia e Ucraina poi sfociata in conflitto armato in Crimea e nel Donbas, dunque nell’intervento militare russo in corso su tutto il territorio ucraino.

Nell’autunno del 2013 comparve su CyberGuerrilla un post che, nel denunciare il tentativo di settori politici ucraini di legarsi all’Unione Europea, rendeva noto l’hackeraggio di materiale del Ministero degli Esteri ucraino. A distanza di pochi giorni, sulla medesima piattaforma, comparvero un post e un video a firma Anonymus Ukraine ove veniva espressa una netta contrarietà al processo di avvicinamento dell’Ucraina alla NATO. Da lì a poco, all’interrompersi del percorso di avvicinamento del Paese alla UE, vi sarebbero state le manifestazioni di protesta a Kiev e il conseguente impiego da pare del governo filorusso della polizia paramilitare Berkut per soffocare la protesta, dunque il viaggio a Kiev della vicesegretaria di Stato americana Victoria Nuland per incontrare il presidente ucraino Viktor Janukovyç e, soprattutto, i manifestanti in piazza.

Pochi giorni dopo, nel corso dell’annuale Chaos Computer Club di Amburgo, l’attivista Jacob Appelbaum diffondeva la Advanced Network Technology List (Catalogo ANT) in cui si illustrano hardware e software utilizzati dall’NSA per inserirsi nelle tecnologie delle industrie statunitensi (Apple, Dell, Cisco ecc.). Ripreso e diffuso da “Der Spiegel”, insieme ad un articolo riguardante la Tailored Access Operations, la divisione dell’NSA per le operazioni di hacking, tale materiale contribuì ad incrinare tanto i rapporti tra USA ed UE che quelli tra NSA ed aziende tecnologie statunitensi.

Tornando al fronte russo-ucraino-UE-USA, a cavallo tra la fine 2013 e l’inizio del 2014, le misure attive digitali russe diffusero un paio di clip su YouTube volti a incrinare i rapporti tra Stati Uniti ed Unione Europea. I due leak contenevano la registrazione di un colloquio tra Victoria Nuland e l’ambasciatore statunitense in Ucraina, Geoffrey Pyatt, in cui si palesava il loro disappunto per la riluttanza dell’Unione Europea ad affiancare le posizioni degli Stati Uniti, e una conversazione tra Helga Schmid, ufficiale maggiore del Ministero degli Esteri presso l’UE a Bruxelles, e Jan Tombinski, ambasciatore dell’UE a Kiev, in cui Schmid si lamentava delle critiche statunitensi.

Dopo qualche giorno di silenzio, al contenuto dei leak fecero riferimento in rapida successione un account ucraino filorusso con un avatar di Anonymous, un anonimo simpatizzante di Putin su una piattaforma in lingua russa, dunque il vice primo ministro della Federazione Russa, Dimitri Rogozin. L’agenzia Reuters a quel punto postò a sua volta i leak audio contribuendo a creare malumore tra statunitensi ed europei tanto che, dopo le prese di posizione indignate di Angela Merkel, al Dipartimento di Stato americano non restò che scusarsi ufficialmente per le frasi inappropriate di Victoria Nuland.

La diffusione di tali registrazioni rappresenta probabilmente il primo esempio di alto livello di un metodo che si sarebbe poi fatto strada nell’ambito delle misure attive consistente in una sapiente miscela tra tecniche vecchie e nuove: la raccolta di informazioni tramite intercettazione telefonica e il ricorso ai social media per diffonderle.

Tra ottobre 2013 e l’estate del 2016, a firma Anonymus Ukraine, comparvero su CyberGuerrilla circa cento post contenenti almeno trentasette leak su cui risulta ancora oggi difficile non solo pronunciarsi circa la veridicità di ognuno di questi ma anche individuare con certezza quali siano stati postati da veri attivisti e quanti dagli apparati di intelligence.

Già all’epoca dell’intervento in Crimea l’Unità GRU 74455 russa aveva fatto ricorso ad almeno una dozzina di post inviati da falsi account su Facebook e sul suo equivalente russo Vkontakte per creare un clima di sostegno all’indipendenza della Crimea ma gli agenti della GRU si rivelarono del tutto incapaci di utilizzare i social media: nei giorni dell’intervento in Crimea il loro post su Facebook di maggior successo, riporta Rid, raggiunse soltanto 47 like e 14 commenti. Se al suo incipit l’intervento digitale dell’intelligence russa si rivelò inefficace, poi, inevitabilmente, i sistemi si affinarono.

Se, come apparati burocratici, le organizzazioni segrete hanno sempre necessitato di misurazioni e dati utili a dimostrare la loro efficacia per poter rivendicare risorse governative, con il proliferare in maniera esponenziale dei dati a disposizione, grazie a Internet, a partire dagli anni Dieci del nuovo millennio si sono dati importanti mutamenti.

La disinformazione, per sua stessa natura, ha provato a opporre resistenza ai dati. Se più dati significano misurazioni più affidabili, Internet ha avuto l’effetto inverso sulla vecchia arte del political warfare, con le metriche prodotte dalla disinformazione digitale che erano esse stesse in larga misura disinformazione. Internet non ha reso più precise l’arte e la scienza della disinformazione, ha reso le misure attive meno misurate e più difficili da controllare, così come è più difficile isolare gli effetti voluti. Di conseguenza, la disinformazione è diventata perfino più pericolosa (p. 20).

Nella contemporaneità la disinformazione trionfa ma lo fa in modi inattesi.

La sottile linea che tra vero e falso può essere evidente nel momento in cui l’agente o l’agenzia mettono in atto la falsificazione, ad esempio quando inseriscono un falso paragrafo in un documento autentico, o quando un agente d’influenza inconsapevole viene convinto con l’inganno a cambiare il suo voto di fiducia, o quando un oscuro account online condivide post estremisti o invita utenti ignari di tutto a partecipare a una manifestazione di piazza. I fronti, le manipolazioni e i falsi vanno però ben oltre. Le misure attive determinano quello che gli altri pensano, decidono e fanno, e pertanto incidono sulla realtà. Quando le vittime leggono documenti falsificati, la loro reazione è reale. […] Quando gli utenti di un social si radunano in strada seguendo un invito truffaldino, la manifestazione è reale. Quando i lettori di un sito cominciano a usare il suo stesso slang razzista nella vita di tutti i giorni, esprimono opinioni reali. Queste misure sono attive perché cambiano in modo concreto e immediato il modo di pensare e decidere. Cambiano i fatti, il presente (p. 423).

La disinformazione, però, sottolinea lo studioso, opera anche contro se stessa e ciò accade in modo altrettanto inatteso. Gli stessi agenti e agenzie restano influenzati dalle proprie costruzioni; gli effetti voluti e involontari si sono mescolati gli uni agli altri in effetti reali e osservabili. Con l’arrivo di Internet e la sua mole di dati, con l’hacking, i dump e le martellanti campagne di influenza sui social, tutto sembra proiettarsi su livelli ormai fuori controllo. «Le misure attive sono sempre più attive e sempre meno misurate, al punto che si stanno disintegrando» (p. 427). La disinformazione contemporanea sembrerebbe aver perso la bussola, quasi si trattasse di una macchina avviata che ormai produce automaticamente disinformazione senza controllo tanto che, ormai, si è fatta l’abitudine ad accontentarsi del verosimile [su Carmilla].

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