martedì 29 marzo 2022

Massimo Fini: “L’Albright riposa in pace, noi no”

La morte di Madeleine Albright è passata quasi sotto silenzio, almeno sui giornali italiani, tranne un articolo abbastanza equilibrato di Massimo Gaggi sul Corriere. In genere dei morti si suole parlare sempre bene, se invece li si copre di silenzio vuol dire che non è proprio possibile.

 

(Massimo Fini – massimofini.it)

Madeleine Albright, benché democratica, ma forse proprio perché democratica, è stata una delle peggiori guerrafondaie, insieme a quella mezza nera e mezza democratica di Condoleezza Rice, degli ultimi trent’anni. 

Segretaria di Stato con Bill Clinton, sosteneva quella che in seguito, con George W. Bush, diverrà l’asse centrale della politica yankee: la superiorità morale degli americani, la “cultura superiore” che ha non solo il diritto ma anche il dovere di intromettersi, con le armi, negli affari interni di altri Stati. 
È lei a imporre il principio dell’“ingerenza umanitaria”.

Cominciò con l’Afghanistan del Mullah Omar. Inizialmente gli americani non erano ostili ai Talebani che avevano vinto e cacciato dal Paese i “signori della guerra” (Massud, Dostum, Gulbuddin Hekmatyar, Ismail Khan) perché pensavano che fosse meglio avere di fronte un solo interlocutore piuttosto che quattro e di poterne fare un sol boccone. Ciò che premeva in quel momento agli americani, siamo nel 1997, era di poter mettere le mani sul colossale affare del gasdotto che partendo dal Turkmenistan sarebbe arrivato al Pakistan, e quindi al mare, attraversando però per la maggior parte del suo percorso l’Afghanistan. La società che doveva condurre in porto l’operazione era l’americana Unocal dove erano direttamente interessati Dick Cheney, Condoleezza Rice e tutto il gruppo che farà poi parte dell’Amministrazione Bush. Gli americani, però, come al solito, non conoscevano gli usi locali né tantomeno il Mullah Omar. Si sa che da quelle parti, come del resto con gli arabi, le trattative vanno condotte in un certo modo, con certi rituali, davanti a una tazza di tè fumante, e che si deve essere pazienti e disposti a perderci delle giornate. I rappresentanti della Unocal arrivavano in Afghanistan, non a Kabul ma a Kandahar dove il Mullah aveva stabilito il suo quartier generale sembrandogli Kabul già un po’ troppo moderna per i suoi gusti, ci stavano un giorno e ripartivano convinti di aver concluso l’affare. Non era nemmeno pensabile che quegli straccioni si opponessero a un colosso come la Unocal e agli Stati Uniti. Più smaliziati furono i rappresentanti della Bridas argentina diretta dall’italiano Carlo Bulgheroni. Si sottoposero alla lunga e defatigante trafila delle trattative. E Omar affidò alla Bridas l’affare del gasdotto. Fu solo dopo questo “sgarbo” che gli Usa, Albright in testa, si accorsero che i Talebani non erano esattamente dei femministi. Dichiarò l’Albright: “È spregevole il mancato rispetto dei diritti umani da parte dei Talebani”. Comincia qui la sequela delle accuse, quasi sempre infondate, ai Talebani definiti sempre e comunque come “brutti, sporchi e cattivi” che porterà poi all’aggressione e all’occupazione dell’Afghanistan nel gennaio 2001 col pretesto, falso, che erano alle spalle dell’attacco alle Torri Gemelle. Nei commandos dell’attacco c’erano arabi sauditi, yemeniti, marocchini, tunisini ma non un solo afgano, tantomeno talebano. E non un solo afgano, tantomeno talebano, fu scoperto in seguito nelle cellule vere o presunte di al Qaeda. Verrà dimostrato in seguito che la dirigenza talebana dell’epoca era assolutamente all’oscuro dell’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono. Ma poco importa, gli Usa erano già proiettati su un altro obiettivo, l’Iraq di Saddam Hussein, accusato di avere “armi di distruzione di massa”. E in effetti quelle armi il rais di Baghdad le aveva avute dagli americani, dai francesi e, via Germania Est, dai sovietici in funzione anti-iraniana e anti-curda. Ma al momento dell’attacco Nato-americano del 2003 non le aveva più perché le aveva già usate contro i curdi (a Halabja, cittadina curdo-irachena, aveva “gasato” 5 mila abitanti, l’intera comunità). L’invasione e l’occupazione dell’Iraq provocherà dalle 650 alle 750 mila vittime civili. Intervistata dalla Cbs che gliene chiedeva conto, Albright rispose: “È una scelta molto difficile, ma il prezzo non pensiamo sia troppo alto. È una scelta morale. Ma lo è anche quanto dobbiamo ai nostri cittadini e soldati e ai Paesi limitrofi per assicurarsi che quest’uomo non sia più una minaccia”. Questa era Madeleine Albright.

A questo attacco all’Iraq parteciparono, oltre agli Usa, la Gran Bretagna, inizialmente la Spagna e altri Paesi europei fra cui l’Italia. Sarà questa carneficina che si protrarrà negli anni a incubare l’Isis. Negli anni in cui massacravamo uomini, donne e bambini del Medioriente, noi europei vivevamo tranquilli nelle nostre città. Andavamo in discoteca e allo stadio, facevamo gli apericena e lo shopping, godevamo del nostro benessere: che ci importava di quella gente così lontana? Non è un caso che in Europa gli attacchi Isis siano avvenuti nei luoghi del nostro divertimento e del nostro benessere: il Bataclan, la Promenade des Anglais, gli stadi, i supermercati. Amedy Coulibaly, l’attentatore al supermercato kosher di Parigi, dirà in una sorta di testamento postumo: “Tutto quello che facciamo è legittimo. Non potete attaccarci e pretendere che non rispondiamo. Voi e le vostre coalizioni sganciate bombe su civili e combattenti ogni giorno. Siete voi che decidete quello che succede sulla terra? Sulle nostre terre? No. Non possiamo lasciarvelo fare. Vi combatteremo”. Potremmo prestare a Coulibaly le parole di De André ne Il Bombarolo, anche se nel 1973 Fabrizio non poteva certo pensare all’Isis: “Potere troppe volte delegato ad altre mani, sganciato e restituitoci dai tuoi aeroplani. Io vengo a restituirti un po’ del tuo terrore, del tuo disordine, del tuo rumore”.

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