martedì 29 marzo 2022

Orazione funebre per una killer

Madeleine Albright è morta a 84 anni. Era un'imperialista che sosteneva con passione l'ordine globale dominato dagli Stati uniti del dopo Guerra fredda. Nel farlo, ha accettato che venissero uccise moltissime persone.


jacobinitalia.it Liza Featherstone 

Madeleine Albright, morta mercoledì 23 marzo all’età di ottantaquattro anni, è stata la prima donna statunitense a diventare segretaria di stato. Tuttavia, gli innumerevoli titoli di giornale che si concentrano su questo fatto rischiano di ridurre le sue gesta a una questione di genere. Non è giusto: era molto più di una pioniera.

Albright era un ghoul imperiale, spietata nella sua ricerca del dominio globale statunitense come qualsiasi uomo. Ha svolto un ruolo centrale nell’elaborazione di una politica post-guerra fredda che ha causato devastazione in più continenti. La sua biografia è straziante: la sua famiglia era fuggita dalla persecuzione nazista quando era bambina e ventisei dei suoi parenti, inclusi tre nonni, furono assassinati nell’Olocausto. È una storia traumatica, ma state tranquilli: in compenso è stata responsabile di molti traumi e lutto per altra gente.

Dal 1993 al 1997, Albright è stata ambasciatrice delle Nazioni unite. In tale veste, ha presieduto le brutali sanzioni contro l’Iraq dopo la Guerra del Golfo, con l’obiettivo di massimizzare la miseria degli iracheni in modo da incoraggiare il rovesciamento di Saddam Hussein. In un’intervista del 1996 con Lesley Stahl di 60 Minutes, Albright sembrava suggerire che la morte dei figli di altre persone fosse semplicemente un costo per fare l’impero. «Abbiamo sentito che mezzo milione di bambini sono morti. Voglio dire, sono più dei morti a Hiroshima – disse Stahl – Ne vale la pena?». Albright rispose: «Penso che sia una scelta molto difficile, ma il prezzo, pensiamo, il prezzo ne vale la pena».

Sebbene le stime di mortalità a cui si riferiva Stahl siano state successivamente messe in discussione dai ricercatori, Albright ha chiarito che era abbastanza preparata a infliggere la morte su quella scala. È difficile percepire la morte di oltre mezzo milione di bambini e la miseria per così tante famiglie contenuta in quell’unica statistica. Eppure quello era un «prezzo» che Albright era disposta a strappare alla gente comune di quel paese povero, dove le sanzioni hanno privato gli iracheni di medicinali, acqua potabile e infrastrutture essenziali.

La Dottrina Powell, ovvero il punto di vista della politica estera post-Guerra Fredda avanzata dal presidente del Joint Chiefs of Staff di Clinton, Colin Powell – anch’egli da queste parti oggetto di un’orazione funebre nient’affatto tenera –, era che gli Stati uniti dovessero limitare i loro interventi militari a situazioni in cui i propri interessi nazionali fossero minacciati. Albright non era d’accordo e si sono scontrati su quale avrebbe dovuto essere il ruolo degli Stati uniti in crisi come quella in Bosnia. Powell ha scritto nel suo libro di memorie che «gli è quasi venuto un aneurisma» quando lei gli ha chiesto: «Che senso ha avere questo superbo esercito di cui parliamo sempre se non possiamo usarlo?».

In qualità di ambasciatrice alle Nazioni unite, Albright ha cacciato dal potere il segretario generale Onu Boutros-Ghali dopo una campagna implacabile, un triste episodio che getta luce sulla sua visione dell’ordine mondiale fin de siècle. Boutros-Ghali, il cui mandato era sostenuto da tutti i paesi diversi dagli Stati uniti, in seguito attribuì la sua cacciata alla pubblicazione di un rapporto delle Nazioni unite in cui si sosteneva che un attacco israeliano a un campo profughi in Libano, che aveva ucciso un centinaio di persone, fosse stato deliberato e non un errore, contrariamente alle affermazioni del governo israeliano. Funzionari statunitensi hanno negato che questo fosse il motivo, citando invece controversie su Ruanda, Croazia e Bosnia. Aveva fatto accapponare la pelle della classe dirigente occidentale definendo la Bosnia una «guerra dei ricchi». Inoltre, Boutros-Ghali, artefice degli accordi di Camp David, vedeva la campagna di Albright contro di lui come un atto di razzismo o xenofobia dei repubblicani anti-Onu (Bob Dole, ad esempio, aveva preso in giro il nome del segretario generale egiziano: «Booootros Booootros» o «Boo Boo»), particolarmente accesi dopo la morte di quindici soldati statunitensi in un fallito raid di mantenimento della pace delle Nazioni unite in Somalia. Tra gli altri mezzi per allontanare il segretario generale dal potere, Albright aveva accusato falsamente Boutros-Ghali di corruzione. Scrivendo all’epoca su Le Monde Diplomatique, Eric Rouleau suggerì il vero motivo della vendetta di Albright contro il suo famoso collega:



La caduta del muro di Berlino aveva consentito agli Stati Uniti di condurre la Guerra del Golfo quasi a loro piacimento e questo suggeriva un modello per il futuro: l’Onu propone, su iniziativa di Washington, e gli Usa dispongono. Ma il signor Boutros-Ghali non condivideva questa visione della fine della Guerra fredda.



Dal 1997 al 2001, Albright è stata segretario di stato, sotto il presidente Bill Clinton. In quel ruolo pionieristico tanto celebrato, ha continuato a infliggere sofferenze inimmaginabili agli iracheni. L’assistente segretario generale delle Nazioni unite Denis Halliday rassegnò le dimissioni dal suo incarico nel 1999 per potersi schierare contro le sanzioni; gli Stati uniti «uccidevano consapevolmente migliaia di iracheni ogni mese», disse all’epoca, una politica che chiamò «genocidio». Sebbene molti statunitensi rimasero scioccati quando l’amministrazione di George W. Bush invase l’Iraq, la realtà è che quando Bush è entrato in carica, gli Stati uniti stavano già bombardando l’Iraq, in media, circa tre volte a settimana. Questa è la nostra donna! Guerrafondaia quanto un uomo.

Albright lavorò inoltre per l’espansione della Nato nei paesi dell’ex Unione sovietica nell’Europa orientale, una traiettoria spericolata che numerosi diplomatici di alto rango nel corso degli anni hanno avvertito che inevitabilmente avrebbe portato a inimicarsi la Russia. Quella politica ha contribuito in modo significativo al terrificante potenziale conflitto nucleare che stiamo affrontando oggi, così come al terribile massacro di civili ucraini (almeno 977 di certo, mentre scriviamo, e l’Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani ritiene che il numero reale sia molto più alto).

Albright non si è mai ritirata, cosa che i suoi fan senza dubbio vedranno come un rifiuto di prendere atto dell’età. Ma sarebbe stato molto meglio per il mondo se si fosse presa una pausa per crogiolarsi nei suoi considerevoli successi. La sua società di consulenza ha aiutato Pfizer a evitare di condividere i suoi brevetti internazionali, sebbene in questo modo si sarebbero potute salvare molte vite in tutto il mondo durante l’attuale pandemia di Covid-19. I brevetti sui vaccini rimangono una delle principali cause dell’apartheid vaccinale globale e della morte di massa. Ma è improbabile che questo l’abbia turbata sul letto di morte: la morte di persone povere e non bianche non statunitensi è sempre stato il «ne vale la pena» di Albright.

Durante le primarie presidenziali del 2016, disse delle donne (come chi scrive) che non avevano sostenuto la candidatura di Hillary Clinton: «C’è un posto speciale all’inferno per le donne che non si aiutano a vicenda». In seguito si scusò in un editoriale sul New York Times, quindi non voglio essere meschina al riguardo. Dopotutto, il popolo iracheno non ha mai ricevuto scuse da lei. Ma esaminando le prove di cui sopra, fu sconsiderato da parte di Albright consegnare altre donne a quel famoso inferno.

Quasi sicuramente, c’è già una prenotazione a suo nome in quel frizzante posticino sotterraneo. Forse lì otterrà finalmente il riconoscimento che merita, come una figura di spicco tra i guerrafondai imperiali omicidi di ogni genere.

* Liza Featherstone è editorialista di JacobinMag, giornalista freelance e autrice di Selling Women Short: The Landmark Battle for Workers’ Rights at Wal-Mart. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

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