lunedì 28 marzo 2022

Quando la concorrenza è contro la Costituzione

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Numerosi enti locali (fra i quali, da ultimo, il 22 marzo, giornata mondiale dell’acqua, il comune di Roma Capitale) hanno adottato mozioni in opposizione all’articolo 6 del disegno di legge sulla concorrenza (A.S. 2469, Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021). Attraverso la campagna per lo stralcio dell’art. 6 passa lo scontro tra due visioni del mondo: da un lato la prospettiva, che ha la sua trascrizione giuridica nella Costituzione, che pone al centro la persona inserita in una rete di relazioni, la dignità, i diritti, la partecipazione, la solidarietà; dall’altro, la «lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere» (Gallino). L’orizzonte del disegno di legge, che costituisce una riforma “abilitante” del Piano nazionale di ripresa e resilienza, è ordoliberale: innanzitutto vengono il privato, l’impresa, gli investimenti (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/11/12/il-disegno-di-legge-concorrenza-ovvero-la-festa-delle-privatizzazioni/). È dall’economia di mercato che possono discendere eventuali benefici sociali: il soggetto e l’oggetto sono l’impresa. L’art. 6 prevede una delega in materia di servizi pubblici locali, per «armonizzare la normativa nazionale», nell’intento di «ribadire, in primo luogo, il doppio fine della tutela e della promozione della concorrenza menzionato nel PNRR: quello dell’efficienza economica e quello della giustizia sociale» (così nella Relazione che accompagna il disegno di legge). Scorrendo i principi e i criteri direttivi del futuro decreto legislativo, tuttavia, a dominare è la concorrenza intesa come obiettivo autoreferenziale; obiettivo perseguito a discapito del progetto costituzionale di emancipazione e del ruolo dei Comuni (https://volerelaluna.it/rimbalzi/2021/11/12/draghi-allassalto-dei-servizi-pubblici-locali/).

Il dominio della concorrenza è coerente con la Costituzione?

La «tutela della concorrenza» è esplicitamente menzionata nel testo costituzionale all’art. 117, comma 2, lett. e, e può essere ricondotta alla libertà economica di cui all’art. 41 (co. 1), ma questo non la svincola da un rapporto di necessaria conformità rispetto all’utilità sociale (art. 41, co. 2), che ne determina i limiti, in connessione con la previsione dell’attività legislativa di indirizzo e coordinamento a fini sociali (art. 41, co. 3). Nemmeno vale il richiamo all’ordinamento dell’Unione europea (nella Relazione si legge del «potenziamento delle regole pro-competitive» come «fortemente voluto dalle istituzioni dell’Unione europea»): a) se si considera la disciplina in tema di servizi di interesse economico generale, essa non contempla un obbligo generalizzato di liberalizzazione; b) se, andando alle radici, si cita l’inserimento fra gli obiettivi dell’Unione (art. 3.3 TUE) dell’«economia sociale di mercato fortemente competitiva», restano i limiti e gli indirizzi in senso sociale dell’economia di cui all’art. 41 Costituzione, i quali, dato il loro stretto collegamento con l’art. 3, co. 2, integrano un principio fondamentale e, quindi, un controlimite, in caso di contrasto, rispetto al diritto dell’Unione europea. Non è la concorrenza il paradigma dei rapporti fra istituzioni e imprese, o fra politica ed economia, ma sono il progetto costituzionale di emancipazione personale e sociale e il principio personalista, che pone al centro la dignità della persona. La concorrenza non necessariamente, nel perseguire l’interesse individuale alla massimizzazione del profitto, è coerente con l’utilità sociale. L’utilità sociale non è veicolata di per sé dalla concorrenza, ma piuttosto della concorrenza costituisce un limite (rafforzato dal suo legame con l’art. 3, co. 2), nell’intento di concretizzare l’eguaglianza sostanziale e liberare tutte le persone da bisogni ed ostacoli al “pieno sviluppo”.

La concorrenza – può aggiungersi – è strutturalmente una modalità competitiva, che tende a creare diseguaglianza e a incrementarla. Essa può produrre ricchezza, ovvero profitti, ma questo non implica una redistribuzione o un miglior godimento dei diritti. Rimuovere gli ostacoli alla concorrenza – in una battuta – non equivale a rimuovere «gli ostacoli di ordine economico e sociale» che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza.

Infine, la concorrenza, nel disegno di legge, si accompagna a una razionalizzazione e a una semplificazione, che facilmente degradano in una de-regolamentazione; basti in proposito ricordare come Tocqueville (La democrazia in America, 1835) scrivesse come il «principale merito» delle forme «è di servire di barriera fra il forte e il debole, il governante e il governato…».  

Il senso costituzionale dell’autonomia locale

Il Testo unico delle leggi sugli ordinamenti locali (D. lgs. n. 267 del 2000), dopo aver proclamato che «il comune è l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo» (art. 1, co. 1), stabilisce che «spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione e il territorio comunale», in particolare nei «servizi alla persona e alla comunità» (art. 13 TU). Il testo unico è coerente con gli articoli 118 (che attribuisce in via generale le funzioni amministrative ai Comuni) e 5 della Costituzione.

L’autonomia locale è inserita tra i principi fondamentali della Carta (art. 5), a sottolineare la connessione che esiste tra essa e principi quali democrazia, sovranità popolare, uguaglianza, solidarietà. L’autonomia è impregnata di tali principi e il riferimento all’unità, sempre nell’art. 5, ribadisce la sua inclusione in un comune orizzonte incardinato intorno alla dignità, ai diritti, all’emancipazione. È un’autonomia – quella costituzionale – che esprime un’idea di territorio come luogo vissuto, spazio di riconoscimento della pari dignità sociale, di esercizio dei diritti, di soddisfazione dei bisogni. Attraverso l’autonomia passano il pluralismo, la sovranità come appartenente al popolo e intrinsecamente plurale, la valorizzazione della partecipazione. La prossimità è vista come garanzia, attraverso la vicinanza e l’effettività, di concretizzazione dei diritti, in armonia e al servizio del progetto costituzionale di uguaglianza sostanziale (si ritorna all’art. 3, co. 2, Costituzione). I servizi pubblici locali sono strumento per la tutela della persona, della sua dignità, della sua emancipazione, dei suoi diritti: a questo sono finalizzati e a questo devono tendere, non al profitto, all’efficienza economica “what ever it takes” (fermo restando, peraltro, il rigetto della vulgata del “pubblico inefficiente”).

è un quadro in linea anche con quanto si legge nella Carta europea dell’autonomia locale (Strasburgo, 15 ottobre 1985): «per autonomia locale, s’intende il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare […] a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici» (art. 3). «A favore delle popolazioni», ovvero in stretta connessione con la centralità della persona, l’uguaglianza, la solidarietà, nella prospettiva dei diritti; e, per inciso, lontano da pulsioni territoriali egoistiche (il pensiero è all’autonomia differenziata).

L’articolo 6 del disegno di legge sulla concorrenza si inserisce in opposizione, in distonia, rispetto a questo quadro. Da un lato, il focus è, come anticipato, sulla tutela della concorrenza e non sul servizio teso ad assicurare il godimento dei diritti (fra i quali, in primis, il «diritto umano all’acqua», come è definito nella Risoluzione del 2010 delle Nazioni Unite). L’art. 6 (co. 2, lett. a) del disegno di legge concorrenza si premura in primo luogo di precisare che l’individuazione delle «attività di interesse generale», necessarie per «assicurare la soddisfazione delle esigenze delle comunità locali», è «da esercitare nel rispetto della tutela della concorrenza». Dall’altro, dal complesso delle varie disposizioni dell’articolo 6 si evince un processo di privatizzazione che ha la sua apoteosi nella lettera f del comma 2, dove si prevede l’obbligo per l’ente locale di una «motivazione anticipata e qualificata per la scelta o la conferma del modello dell’autoproduzione». Il pubblico viene configurato come recessivo: per esistere deve giustificarsi. Il modello è il mercato, è il privato, è la concorrenza. Il testo è chiaro: «oltre la motivazione anticipata e qualificata», in caso di opzione per l’autoproduzione, si richiede che la relativa decisione sia trasmessa «tempestivamente» all’Autorità garante della concorrenza e del mercato e si prevede che sia soggetta a «sistemi di monitoraggio dei costi» (art. 6, co. 2, lett. g e h). Non solo: alla lett. q si prevede una «revisione della disciplina dei regimi di proprietà e di gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni, nonché di cessione dei beni in caso di subentro, anche al fine di assicurare un’adeguata valorizzazione della proprietà pubblica»: una perifrasi per alludere a vendita di beni pubblici e, di nuovo, privatizzazione?

Il fine perseguito non pare, come pur recita il disegno di legge, «la soddisfazione delle esigenze delle comunità locali», nella prospettiva – si può aggiungere – della rimozione degli ostacoli che si frappongono al pieno sviluppo della persona e alla sua effettiva partecipazione alla vita del Paese (art. 3, co. 2, Costituzione), ma quella «piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali» indicata come «necessaria» nella nota lettera della Banca Centrale Europea, a firma di Draghi e Trichet, inviata al “Primo ministro” (così testualmente) il 5 agosto del 2011.

Attraverso la privatizzazione dei servizi pubblici locali, si svuota l’autonomia territoriale, si restringono gli spazi di scelta politica degli enti locali, con un vulnus alla sovranità popolare, alla sua espressione plurale, alla partecipazione: non nel nome, dunque della Costituzione, ma in linea con una governance – per inciso, una brutta parola – del PNRR, top-down, locuzione quest’ultima à la page per sottolineare l’accentramento di poteri, a discapito delle autonomie territoriali, relegando i comuni in un compito di attuazione ed escludendoli dal processo decisionale. Ancora: con la privatizzazione si indebolisce il senso costituzionale di un’autonomia locale concepita in stretta connessione con la garanzia dei diritti e la concretizzazione di un progetto di emancipazione sociale, si svuota la funzione sociale dei comuni e si abbandona il compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli, il cuore del progetto costituzionale. Un compito – si può annotare – che era stato difeso dai cittadini, quando con il referendum del 12-13 giugno 2011, il 95,35% dei votanti (affluenza 57.04% del corpo elettorale) si era espresso per l’abrogazione di norme che consentivano di affidare la gestione dei servizi pubblici locali a operatori economici privati. Un primo tentativo di aggirare l’esito referendario, attraverso il sostanziale ripristino della normativa abrogata, era stato respinto dalla Corte costituzionale (sentenza n. 199 del 2012); oggi ritorna l’arroganza di chi vuole stracciare la volontà popolare e neutralizzare la Costituzione sostituendola con una razionalità altra, neoliberista.

L’art. 6 del disegno di legge sulla concorrenza manifesta una volta di più la prassi di agire “come se la Costituzione non esistesse”; una prassi invero pervasiva, che dilaga nei rapporti fra gli organi costituzionali, si esprime nell’abbandono del progetto di emancipazione, nella rimozione del conflitto sociale e nell’egemonia dell’economia sulla politica. L’invito allora è a opporsi ad un disegno di legge che assume come grundnorm la competitività, per tornare alla Costituzione, a un progetto che pone al centro la persona e la sua emancipazione, per ragionare – per dirlo con Pasolini – non di sviluppo, ma di progresso.

 

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