In mezzo al furore, ai morti, alle richieste di resa, e là regna una notte spaventosa, è il momento di scrivere, a lettere maiuscole, l’elogio della diplomazia, la diplomazia dell’età classica, quella per cui non c’è mai nulla di definitivo e di irreparabile nelle mischie umane. I segnali sono flebili ad Antalya, potrebbero essere ben più importanti dai saloni di Versailles. Ma si ha il dovere di accompagnarli con uno splendore di resurrezione e un sentimento di gratitudine.
(Domenico Quirico – la Stampa)
Perché il ritorno possibile della diplomazia significa un metodo: che le cose vanno affrontate e non subite, mantenere aperti i canali di comunicazione con il nemico, parlare, mediare, anche e soprattutto in segreto, non c’è nulla di cui vergognarsi, perché strappare anche un solo giorno alla guerra, abbreviarla significa salvare vite, cose speranze. L’Europa può dimostrare la sua compattezza soprattutto diventandone protagonista anche a costo di seguire una via che non piacerà agli americani. In fondo nessuno meglio degli europei la conosce.
L’ha inventata nel 1600 a Wetsfalia, l’ha praticata durante la Guerra fredda. Ne ha ricavato una lunga pace che oggi è di nuovo in pericolo. La diplomazia dell’età classica, e non quella che l’ha brevemente sostituita in cui le lingue di demagoghi sono affilate come coltelli, era convinta che c’era sempre, prima o poi, un dopo per cui bisognava provvedere e creare un nuovo equilibrio. La diplomazia per cui il vecchio telefono è uno strumento mirabile, capace di disinnescare disastri. Ne volete una definizione semplice?
La diplomazia è il contrario di twitter, non ha fretta, sa tacere, punta le sue carte sul fatto che alla fine la ragione avrà sempre la meglio sull’emozione. Confessiamolo: c’era la convinzione che questa diplomazia fosse avviata sul viale del tramonto. Nell’epoca delle grandi potenze nucleari i diplomatici avevano ancora uno spazio per esercitare le loro formule e celebrare i riti delicati dell’equilibrio.
Ma quell’epoca sembrava cancellata dal secolo del destino manifesto americano in cui tutto era (quasi) in ordine. Si ipotizzava che il futuro dei diplomatici fosse quello di commessi viaggiatori «di classe» come si diceva una volta: «introdurre» cioè le delegazioni commerciali e affaristiche, il loro fatturato non sarebbe più stata la pace di cui si pensava non ci fosse più bisogno insomma non esistevano solo piccole guerre? Poi sono venuti tempi delle guerre senza fine, infinite perché inestinguibili, perché il nemico è inavvicinabile e esige non solo la vittoria ma la purificazione.
Nell’epoca dei fanatismi religiosi e dei califfati il diplomatico è semplicemente inutile. Come si fa a trattare con Bin Laden o con i Califfi se loro esistono in quanto esigono la tua distruzione? E poi ci sono i conflitti “tribali”‘dove le memorie sono eterne. Con i talebani, è vero, si è trattato, purtroppo, ma semplicemente perché il loro Assoluto si limita al territorio afgano, non prevede per esistere nessuna palingenesi planetaria. Il nuovo nemico, al contrario dell’antico comunista cinese o sovietico, non vuole discutere, sedersi attorno a un tavolo di qualsiasi forma, esercitarsi nell’arte del dare e dell’avere, cercare un equilibrio.
Il nemico per lui è un impuro. Kennan, il diplomatico americano simbolo dell’età dell’equilibrio atomico e del contenimento, nemico di ogni dogmatismo invasato, vi avrebbe riconosciuto l’avvento di tutti i contrari. Ma la guerra russo-ucraina, sullo sfondo di uno scenario atomico di guerra fredda tirato fuori in fretta e furia dai magazzini della memoria, è di nuovo uno scontro tra nazioni. In cui uno dei due contendenti, la Russia, lo usa come leva per una ridefinizione dell’equilibrio delle potenze in Europa. È il terreno classico dei diplomatici della vecchia scuola.
È a loro che affidiamo le sole speranze di evitare che il conflitto divampi. Sono uomini che sono sicuri dell’importanza che riveste il loro compito, da non aver bisogno di cercare pubblicità, di vedere la propria faccia in tv; non hanno bisogno al contrario dei politici di far colpo sulla gente e stuzzicarne gli umori. Conoscono le regole del gioco, con chi bisogna parlare e che cosa bisogna dire, le parole sono sassi.
Gli uomini che possono fermare la guerra sono consapevoli che sono i rapporti di forza a regolare gli equilibri tra le nazioni, non sono dei santi che sognano un impossibile mondo pacificato. Il dovere di un diplomatico è di ribadire la verità come lui la vede, senza manipolarla in base a considerazioni di politica interna del suo Paese. Per fortuna, pur tra le maledizioni, le ambasciate sono rimaste aperte. Nessuno ha compiuto lo scenografico errore di richiamare i diplomatici e far loro consegnare gli accrediti.
Fu il gesto che segnò l’avvio la prima guerra mondiale. I primo ad accorgersi che il mondo stava precipitando nel baratro furono proprio loro. Alcuni piansero accomiatandosi dai ministri degli esteri di quelli che stavano per diventare Paesi nemici. Nelle loro capitali intanto, politici e folle inneggiavano sconsideratamente alla guerra. La prima regola è quella di non demonizzare mai l’avversario, definirlo animale, mostro, nemico del genere umano come ha fatto una masnada di sedicenti diplomatici popolata di precipitosi, di petulanti nevrastenizzati, privandosi così della possibilità di indicare mediatori.
Che delirano di prossimi tribunali di Norimberga dimenticando che prima di metterli in piedi bisogna vincere e agguantare gli imputati. La loro è una corsa contro il tempo. Quando gli uomini dell’apparato della Forza mettono un piede nella porta è impossibile comandarli o trattare con loro. L’unico modo per imbrigliare i militari è quello di tenerli completamente fuori dai problemi. Altrimenti rapidamente, impercettibilmente giorno dopo giorno, sono loro a prendere in mano le redini del gioco. Chiederanno sempre di più, e a poco a poco la guerra diventa ancor più un grande conflitto barbarico.
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