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La recensione ragionata di Angelo Panebianco apparsa due settimane fa sul Corriere della Sera (I sentieri virtuosi di Hayek, 2 novembre 2020), che prende spunto dal saggio fresco di stampa di Alberto Mingardi, Contro la tribù. Hayek, la giustizia sociale e i sentieri di montagna (Marsilio, 2020), è anche l’occasione per ritornare indirettamente sul frame neoliberista tuttora dominante. Ebbene, via via che l’ideologia neoliberista perde la presa sugli immaginari collettivi, anche per le conseguenze sociali del virus, pare che il suo racconto, sia pure nel frammento di una pagina culturale, accentui in forme sempre più esplicite la naturalizzazione di complessi processi storici di lungo periodo, caricandoli quasi di un alone di ineluttabilità.
Così l’articolo in questione dopo aver ricordato in apertura come Hayek «sia così poco apprezzato dal pubblico colto, poco letto al di fuori di qualche cerchia ristretta (specialisti di scienze umane e/o studiosi del pensiero liberale)», d’improvviso cambia registro e soprattutto accresce la posta conoscitiva. Si ripropone infatti una sorta di mito fondativo dell’attuale paradigma economico: all’inizio dell’evoluzione sociale, si evidenzia, c’era il caos delle tribù umane disperse e violente poiché politicamente rette; poi «dalle bande e dalle tribù preistoriche (società semplici e chiuse)» si è passati alla storia delle «complesse società contemporanee, una parte delle quali relativamente libere e aperte».
Ora, è noto che nella concezione materialistica della storia il passaggio dalla preistoria alla storia, a partire da Marx, è un topos ricorrente, segnato per l’appunto dal trapasso dei rapporti di produzione borghese in una società comunista senza classi. «I rapporti di produzione borghese – scrive Marx, nel ‘59 – sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale […]. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana» (Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, 1969, p. 6). Da sempre aspramente contestato, se riproposto in campo marxista, per la sua fallacia, questo motivo pare ritrovare una valenza euristica se serve a scandire il passaggio dal primato della politica, fatta coincidere con la nozione di tribù, al trionfo dell’economico, sinonimo di società libera e aperta.
Ma la differenza sostanziale consiste nel fatto che la formazione sociale capitalistica, rispetto alla prima, perlomeno nella visione proposta, sarebbe sorta spontaneamente dalla naturale evoluzione sociale senza alcuna imposizione politica dall’alto, di qualsiasi segno essa sia: tiranno, sovrano o, magari, uno Stato democraticamente eletto. In questo racconto tante persone umili e ignare si sono premurate, a loro insaputa, di tracciare «sentieri di montagna», preparando così il terreno all’avvento delle società libere contemporanee, che, si ribadisce, «non possono esistere senza mercati concorrenziali guidati da norme impersonali». Come se, in un singolare quadro di filosofia della storia alla Hegel, fosse operante da sempre, nella storia, una sorta di «astuzia della ragione» che, servendosi di anonimi, inconsapevoli agenti, ha dispiegato nel tempo le magnifiche sorti e progressive del mercato capitalistico. «I sentieri di montagna – si chiarisce più avanti – non sono stati deliberatamente voluti da nessuno; si sono formati nel tempo grazie alle tante, anonime persone, che […] hanno, ciascuna, contribuito, inconsapevolmente e involontariamente, a farli nascere», paradigmatica metafora sulla genesi naturalistica del mercato.
Senonché, Hegel nei suoi Lineamenti (1821) fa in tempo a intuire gli squilibri del mercato in formazione, caratterizzato dalla grande ricchezza contrapposta alla grande miseria (fino ad arrivare a giustificare il furto individuale per bisogno), fra l’altro richiamandosi a quello stesso Adam Smith, nume tutelare di Hayek, che scriveva in forma lapidaria ne La ricchezza delle nazioni (1776; Utet, 1975, pp. 874-875), testo fondativo dell’economia politica: «Per un solo uomo ricchissimo, ci devono essere perlomeno cinquecento poveri, anche se poi l’abbondanza del ricco suscita l’indignazione dei poveri, che sono spinti dal bisogno e sollecitati dall’invidia a invadere le sue proprietà». E David Ricardo qualche anno dopo, per quelle stesse ragioni, sosteneva «l’accesso al suffragio solo per quella parte della popolazione che non si possa reputare interessata a sovvertire i diritti di proprietà» (Principi di economia politica, Mondadori, 2009, p. 397), chiosando quasi il suo predecessore.
Questa sorta di filosofia della storia così delineata, lungo i binari di una sua riscrittura in termini naturalistici, prosegue nell’articolo in un crescendo. L’estrema fragilità delle società aperte, fortuito risultato di complessi processi di lunga durata e frutto maturo della concorrenza dei mercati, rappresentando il culmine della storia non altrimenti superabile, se non in peggio, esige governi con poteri limitatissimi. Nonché regole impersonali e generali, che senza ulteriori specifiche parrebbero evocare l’utilizzo neutro degli algoritmi.
Per fortuna pare che la talpa della storia si sia rimessa in moto e vada in direzione ostinata e contraria. In questo coro polifonico a cui si è unita la voce autorevole di papa Francesco (Lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale) si intravede la volontà di rimettere in piedi un ordine incentrato nuovamente sulla politica a sua volta da rifondare profondamente. Certo, riconosce con Minganti «generosità» alla perorazione in favore della giustizia sociale, che questo nuovo ordine sarebbe chiamato a garantire, ma la bontà dell’intento non cancella l’oggettivo tratto distopico della stessa perorazione: «Costoro sono gli inconsapevoli campioni di una distopia negativa: propongono di fare rinascere, dalle ceneri della società libera, la tribù, la società chiusa. Dietro a tante generose perorazioni in favore della giustizia sociale si intravvedono pulsioni autoritarie, nostalgie pauperiste. Il pensiero di Hayek è una risorsa da opporre a quella distopia».
Con Hayek verrebbe posto il divieto ad adoperare l’espressione, ritenuta incompatibile con la libertà e la prosperità delle società, che suona quasi come una damnatio memoriae dell’idea stessa di giustizia. Ma la talpa della giustizia ancora una volta rispunta fuori tra le righe, forse anche oltre le intenzioni manifeste dell’autore, come quando si ricorda la posizione di Hayek favorevole al reddito minimo, ammettendo implicitamente che comunque l’economista austriaco si era dovuto misurare, suo malgrado, con il tema della giustizia. Certo anche qui l’ipoteca naturalistica, la povertà come fenomeno incomprimibile, spoliticizza e neutralizza sul nascere il discorso e non consente di andare oltre una previsione caritatevole a favore dei più poveri ed i meno fortunati, senza rischio alcuno che questa misura possa interferire con la formazione astratta dei prezzi – che viceversa è esattamente il cuore della questione.
Nulla a che vedere, insomma, con quell’ampio dibattitto in corso, ricco di spunti (come un interessante articolo di Luigi Pandolfi: https://volerelaluna.it/lavoro-2/2020/11/05/un-reddito-di-base-per-cambiare-la-societa/), anche in ambito sindacale, e incentrato sul reddito di base inteso come misura universalistica, valida per tutti, non esattamente un’elemosina, volto a rilanciare l’esercizio stesso della cittadinanza. Ma questa è l’opzione niente affatto naturale, o presunta tale, ma tutta politica per la scelta di un campo e di un pensiero con la vocazione all’uguaglianza.
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