Il fisico, autore di Helgoland (Adelphi), all'Huffpost: "Ogni cosa esiste solo quando è in relazione. A prima vista, è una visione che fa venire le vertigini.
Per prima cosa, il sapere per costruire distrugge: “La scoperta della fisica quantistica, all’inizio del secolo scorso, ha disintegrato il mondo che conoscevamo. La rivoluzione che ne è seguita ha aperto uno strappo nella realtà, frantumando la rappresentazione della natura che l’uomo si era fatto e dissolvendo l’idea che ci sia, almeno con gli atomi, o le particelle elementari, un punto fermo, una materia, seppur piccola, ferma e immutabile, qualcosa di solido a cui aggrapparsi. Ma non è così, anche le particelle elementari non sono che nodi di una rete di relazioni. Questo cambia il nostro modo di vedere il mondo e coinvolge tutta l’umanità, anche la parte dell’umanità che non ha idea di queste idee che nascono in quella porzione piccola della Terra che è l’Europa centrale”.
Mentre Carlo Rovelli – fisico teorico e scrittore di sfrenate avventure concettuali – racconta lo squarcio che la fisica contemporanea ha aperto nella mente dell’uomo contemporaneo, mi torna in mente il romanzo di Michel Houellebecq, Le particelle elementari, nel quale la scomposizione dell’atomo costituiva per Houellebecq il paradigma di un fenomeno più generale che aveva travolto e frantumato tutto il resto della vita contemporanea: la società, i legami, la famiglia, l’amore, il sesso, la fede, la ragione, i valori, tutto sfarinato, fino al punto di lasciare l’uomo solo, disperato, nella sua miseria.
“Detesto quel libro, come tutti gli altri libri di Houellebecq, perché lui gioca sporco. La fisica quantistica sfalda l’architettura del mondo così come l’uomo se l’era rappresentato, ma non distrugge le relazioni di cui è intessuta la realtà. Al contrario, ha scoperto che le cose vivono di connessioni, pervasive, legami estesi, ha mostrato che niente è concepibile di per sé: ogni cosa esiste in relazione a un’altra. La fisica quantistica, eventualmente, parla di una armonia nel mondo, non certo dell’abbattimento di ogni relazione”.
Nel suo ultimo libro, Helgoland (Adelphi), Carlo Rovelli si muove seguendo il secondo movimento del sapere: la ricostruzione. Dopo aver raccontato il prodigio e lo strappo della rivoluzione quantistica, compiendo ancora una volta – dopo Sette brevi lezioni di fisica e L’ordine del tempo – il miracolo di farla comprendere anche a chi come me non sa niente di fisica, Rovelli ne trae una prospettiva innovativa e globale, secondo la quale ogni elemento della realtà è intrecciato a molti altri, nella materia infinitamente piccola, in quella spaventosamente grande, ma anche nel mondo normale. A tutti i livelli, Rovelli mostra connessioni. Per esempio: quelle che ci sono tra le scoperte scientifiche, la letteratura, la poesia, la filosofia, la mistica, la religione, la politica. Di colpo, il mondo prende la forma di un tutt’uno, smettendo di essere diviso in discipline, oppure in monadi che siamo abituati a chiamare individui.
Non è una condanna non poter sfuggire alla relazione?
Perché dovrebbe?
Perché ci condanna a non poter essere più soli.
Anche quando siamo soli siamo in relazione: con i nostri pensieri, con un libro che stiamo leggendo, con l’aria che respiriamo, un film che stiamo guardando, siamo il relazione con la nostra memoria e la nostra immaginazione, con le idee che ci sono arrivate da altri. L’idea che nel mondo niente esista al di là della relazione non è una scoperta recente. La novità che introduce la lettura che io ritengo più coerente della fisica quantistica è che questa struttura di relazioni si estende fin nella profondità più estreme della natura, là dove la fisica classica individuava dei nuclei solidi, dei punti fermi. Le scoperte quantistiche dissolvono l’idea stessa della solidità, dimostrando che non esiste un realtà in sé, incontrovertibile, alla quale ci si possa ancorare. Ogni cosa esiste solo quando è in relazione. A prima vista, è una visione che fa venire le vertigini.
E poi?
Si prova un senso di libertà e di leggerezza, come quando Anassimandro capì che il cielo che è sopra di noi è anche sotto: all’inizio, all’uomo manca la terra sotto i piedi, poi impara a cambiare prospettiva e sentirsi libero di volare nel cosmo sul suo pianeta.
La conseguenza di quel che dice è che, se nulla esiste in sé, allora si disintegra anche l’idea di individuo.
Ci sono tanti filosofi già nel passato che hanno messo radicalmente in discussione la nozione di individuo. L’idea che noi esseri umani avremmo dentro un centro, un’essenza che ci fa esistere come entità, soggetti del pensiero, è fuorviante. Noi esistiamo come processi, siamo l’insieme delle cose che ci accadono, delle concatenazioni che si stabiliscono dentro di noi, tra noi e gli altri. Più che a un punto, assomigliamo alle nuvole, che si formano, si disfano, e si ricompongono.
Allora cos’è che fa di lei Carlo Rovelli e non un’altra persona?
Io sono il mio corpo: fatto di tanti organi in relazione tra loro che, muovendosi insieme, formano un’unità; sono la mia memoria: il racconto che faccio di me stesso, legando quello che è accaduto ieri a quello che mi accade oggi; sono i miei pensieri, che vengono dagli altri e passano attraverso di me. Sono l’immagine di me riflessa negli occhi di chi mi vuole bene. Sono tutto questo insieme di processi, a cui do il nome di Carlo.
Ma dove si trova il Carlo che dice io?
Da nessuna parte. L’avevano già argomentato filosofi diversissimi come Nietzsche e Mach, ed è un’idea esplicita in una parte del pensiero orientale.
Mi sta facendo girare la testa.
Pensi a una coppia di due persone che si amano. L’unione che hanno è reale. Entrambi riconoscono l’esistenza di un ‘noi’. Lo riconosce anche lo stato, se si sposano. Ma dove si trova questo ‘noi’? Come lo si può afferrare? La risposta è: da nessuna parte, è impossibile prenderlo. Esiste nella relazione. Senza i suoi componenti, si dissolve. Così è per l’io. Se lei toglie da me i miei pensieri, la mia memoria, i miei sentimenti, i miei organi, di me non rimane niente.
Dentro di lei, è rimasto qualcosa di sacro?
Tutto! Quando Spinoza identifica Dio con la Natura, sembra che stia uccidendo la sacralità, invece sta riconoscendo la sacralità della Natura. Io sono ateo, non credo nell’esistenza di un Dio persona, né all’anima immortale, alla vita dopo la morte, però non ho esitazione a sentire che la vita e la natura sono sacre. L’assenza di Dio non elimina il mistero, lo stupore, l’incanto, il valore, di trovarsi di fronte all’immensa vastità della natura, sia nella sua grandezza, sia nella sua piccolezza microscopica. Riconoscere il senso terribile del dolore, la gioia, l’amore. Le mie motivazioni nei confronti della materia che studio, per esempio, non sono dettate dalle formule che scrivo: vengono dalle emozioni che provo. Il mondo per noi è pieno di intensità, di valore. Non c’è niente di anti scientifico nel riconoscerlo. La cultura europea ha fatto un’enorme confusione. Ha creduto che, perso Dio, tutto perdesse senso e valore, e che l’umanità non potesse che precipitare in un nichilismo disperato. Che sciocchezza! La sacralità del mondo non risiede fuori di noi: è nella meraviglia, nell’emozione, nella sorpresa con cui guardiamo ciò che è intorno a noi, e nel valore che diamo alle cose. Tutto questo è reale e viene da dentro di noi, non da un ipotetico Dio che starebbe là fuori.
Nel suo libro la natura è ancora indomabile: perché?
L’idea che la scienza riguardi il dominio della natura è una presunzione degli scienziati convinti che ormai il più sia fatto, e dei filosofi – Heidegger in testa – che confondono la conoscenza scientifica con il dominio.
Cosa c’è di sbagliato? Il sapere non è potere?
Quello del potere è un concetto ambiguo: è il potere che consente a un capo di stato di uccidere e torturare, ed è potere anche la conoscenza che ha permesso all’uomo di guarire malattie che hanno ucciso centinaia di migliaia di persone prima di lui. Non c’è nulla di male nel mettersi nelle condizione di poter fare, anzi, è parte di noi il cercarlo.
Lei definisce la conoscenza un “miele velenoso”. Perché, allora, si è avvelenato?
Ho avuto un’adolescenza inquieta, come molti della mia generazione. Ho avuto voglia di conoscere il mondo, di attraversarlo, di contestarlo e anche di sovvertirlo. È dolce leggere, viaggiare, scoprire, essere curiosi, immaginare le cose come potrebbero essere altrimenti, ma può essere pericoloso. Io e la mia generazione abbiamo sognato di cambiare il mondo completamente, poi abbiamo scoperto a nostre spese che il mondo non aveva alcuna voglia di essere cambiato. Molti – schiantandosi contro la realtà – si sono fatti del male. Ho visto amici morire per strada, finire in carcere, consumati dall’eroina. Ne ho visto altri che hanno fatto cose splendide. Il miele e il veleno, appunto.
Allen Ginsberg che sapore aveva?
L’ho conosciuto al festival della poesia di Castel Porziano, nel 1978. Era un grande reading di poesia, con lo stile di un raduno rock. Si è sfaldato nella confusione. Da tutta Italia, erano arrivati gruppi di giovani di ogni tipo, e gli organizzatori si sono spaventati. A un certo punto, in un tentativo di sciogliere la confusione e la tensione, Ginsberg sul palco cominciò a salmodiare la sillaba sacra delle religioni orientali: Om. Io ero con lui, e mi sono trovato a salmodiare accanto a lui, con i capelli lunghi e una fascia rossa per tenerli.
La creatività nasce dal disordine?
La creatività è sempre la rottura di un ordine, e spesso nasce proprio da un momento di rottura, spesso si accende nella divagazione, quando ci si allontana dai pensieri consueti, quando ci si dimentica qualcosa. Heisenberg era andato sull’isola di Helgoland per alleviare un’allergia e lì ha avuto l’intuizione chiave della rivoluzione quantistica. Schrödinger ha trovato la sua famosa equazione durante una fuga d’amore segreta nelle Alpi con un’amica viennese. Ma prima della divagazione c’è un sempre lungo percorso di disciplina: uno studia, lavora, si concentra intensamente, poi, quando va a fare una passeggiata perché non ne può più, ha l’idea. Buddha passò anni a meditare, e ebbe l’illuminazione quando smise. Senza tutta la disciplina e il metodo precedente però non sarebbe arrivato lì.
Perché lei sottolinea sempre la bellezza e l’eleganza di una teoria, non basta che funzioni?
La bellezza è proprio nella sensazione di vedere una grande complessità ridursi dentro un’idea semplice capace di racchiuderla. Nel fatto che funziona. Nella fisica, la bellezza può essere il segno che si è sulla buona strada. Ma una teoria può anche essere bellissima ed essere sbagliata.
Cosa c’è di politico nella fisica quantistica?
Direttamente, niente. Indirettamente, tanto. La rivoluzione quantistica descrive un mondo di relazioni, in cui le cose esistono, si muovono e si accrescono solo se stanno insieme. È l’opzione politica della cooperazione, che è il contrario dell’idea della competizione, del prevalere. Cosa c’è di più politico di questo?
Ma l’idea che tutto è in relazione, non relativizza pericolosamente tutto?
No, perché? Anche quelli che consideriamo i punti fermi – per esempio, la dignità dell’uomo – sono nati da una discussione, un confronto, un’evoluzione, non sono stati calati dall’alto, basandosi su idee assolute. Confrontarsi non vuol dire che tutto è eguale. Al contrario, vuol dire cercare insieme la soluzione migliore, invece che pensare di averla già.
Ora, però, ci sono valori stabiliti, o no?
Ma sono sempre soggetti a discussione. E devono esserlo. Per essere concreti: consideriamo la discussione sull’epidemia in corso. Un principio ripetuto dice che è più importante salvare le vite che l’economia. Ma è davvero assoluto? Perché allora non vietiamo le automobili? Negli incidenti stradali, uccidono decine di migliaia di uomini, donne e bambini ogni anno. Vietarle salverebbe vite. I principi sono sempre in discussione. Niente è semplice. Quando parliamo di ricominciare il confinamento o no, stiamo misurando il prezzo di abbreviare la vita di qualcuno contro il benessere di molti, anche se non abbiamo il coraggio di dirlo apertamente. La complessità è inevitabile.
Il mondo è pronto a concepirsi come un tutt’uno?
La fisica quantistica è solo uno dei movimenti che spinge l’uomo a riconoscere la trama di relazioni senza le quali non esiste. La crisi ambientale ci porta a prendere sul serio il fatto che siamo parte della natura, per esempio. O, almeno, spero che ci porti a farlo, prima che sia troppo tardi.
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