lunedì 26 ottobre 2020

La stragrande maggioranza della società è working class.

 

Il concetto di classe non è semplicemente legato al reddito ma al poter o meno sfruttare il lavoro altrui. E se nella narrazione dominante sembriamo esser tutti classe media, in realtà la classe lavoratrice rappresenta i tre quarti della popolazione. 


jacobinitalia.it Hadas Thier

La working class – nera, bianca, nativa o immigrata – è fatta di esperienze diverse e attraversata da una miriade di oppressioni, e presa collettivamente costituisce una classe di persone sfruttate per il profitto di pochi. Capire come funziona il concetto classe e su quali basi si determinano le posizioni di classe ci aiuta a svelare le strutture di potere e sfruttamento insite nella nostra società.

Una definizione di base delle classi sociali per come esse esistono sotto il capitalismo comincia con questa premessa: i lavoratori sono costretti a vendere la propria capacità di lavorare, mentre i capitalisti comprano e dirigono la nostra forza lavoro. Non si può comprende la posizione di classe né dei lavoratori né dei padroni senza comprendere che il fulcro del sistema risiede nel modo in cui il lavoro è utilizzato, cioè per produrre profitto per qualcun altro. La classe, detta in altri termini, è una relazione di sfruttamento.

La classe non è una questione di numeri

Il concetto di classe come relazione sociale è completamente assente dalle analisi mainstream. Se e quando si parla di classe, questa viene considerata in termini di ricchezza e stratificazione sociale. I livelli di reddito, istruzione, lo stile di vita e le abitudini di consumo sono utilizzati per dividere una società per lo più descritta come classe media, con ai margini alcune persone molto ricche e molto povere. Secondo molti, quasi tutti siamo classe media, e la working class non esiste affatto.

Una visione che ci viene ricordata ogni due o quattro anni in campagna elettorale, quando i politici fanno riferimento alle «difficoltà della classe media», una categoria che apparentemente include tutti «i bravi americani» o, per dirla con l’ex-presidente Bill Clinton, tutte le persone che «lavorano sodo e rispettano le regole». Le campagne presidenziali di Bernie Sanders sono state così degne di nota proprio perché Bernie ha pronunciato le parole «working class».

La lettura della divisione in classi sulla base dei livelli di reddito ha anche una sua variante progressista, resa popolare dal movimento Occupy Wall Street nel 2001. Lo slogan «Siamo il 99 percento» si è diffuso a macchia d’olio da quando gli attivisti hanno identificato quell’1 percento in cima alla piramide, composto dall’élite economica del paese che da sola possiede circa un terzo della ricchezza nazionale, con la fazione colpevole di aver provocato la crisi finanziaria del 2008 e la Grande recessione che ne è seguita. Anche se quest’analisi è un sostanziale passo in avanti rispetto al presupposto che siamo tutti classe media, parte comunque dal preconcetto che è la quantità di ricchezza a essere determinante per stabilire la posizione di classe.

Classe e ricchezza hanno ovviamente molto a che fare l’una con l’altra, ma non sono la stessa cosa. Un lavoro stabile e ben pagato (nella misura in cui lavori del genere esistono ancora), come quello del macchinista ferrotranviario a New York, può far guadagnare fino a 70 mila dollari l’anno, mentre un piccolo commerciante del Bronx guadagna anche molto meno. Ma il primo è un lavoratore – che non ha controllo sul proprio orario o sulle proprie condizioni di lavoro – mentre il secondo è un piccolo proprietario, che si fa carico del proprio sfruttamento così come di quello degli altri (anche se numericamente pochi).

La cifra riportata in busta paga non dice tutto. Non può dirti, ad esempio, che un manager di Starbucks, che guadagna meno di un macchinista della metropolitana, ha il potere di licenziare tutti i lavoratori nel suo negozio. È chiaro da quest’esempio che la ricchezza è solo una parte del quadro, è più un sintomo della diseguaglianza di classe che una spiegazione della sua origine. In realtà, il potere, il controllo sulle condizioni di lavoro e le decisioni finanziarie sono la pietra angolare dello sfruttamento.

Michael Zweig, professore di economia e autore del libro The Working Class Majority, la spiega in questo modo: «Se guardiamo soltanto al reddito o allo stile di vita, vediamo i risultati della classe, ma non le origini della classe. Vediamo le differenze tra quello che possediamo, ma non come ci relazioniamo e siamo connessi l’uno all’altra, e resi differenti, nel processo che dà forma a quello che possediamo».

La spiegazione marxista enfatizza il fatto che la propria posizione nella società non si misura quantitativamente, ma è invece determinata dalla relazione del singolo con il lavoro, con i frutti del lavoro e con i mezzi di produzione. Chiunque ha il controllo economico del luogo di lavoro, ha potere politico, detta i termini delle condizioni di lavoro di altri e altre o possiede capitale che può investire nella produzione, è parte della classe capitalista. E chiunque deve vendere la propria capacità di lavorare per un salario e non ha accesso alla possibilità di produrre quanto è necessario alla propria vita è parte della working class.

Ricchezza e povertà non determinano la classe

Quest’analisi non si applica soltanto ai lavoratori impegnati nella produzione di beni materiali. Anche insegnanti e infermieri devono vendere il proprio lavoro per produrre servizi, e dunque sono parte della working class.

Come sostiene Marx: «Se dobbiamo prendere un esempio al di fuori della sfera materiale di produzione, un maestro è un lavoratore produttivo quando, oltre a battere sulle teste dei propri alunni, lavora fino allo stremo per arricchire il proprietario della scuola. Il fatto che quest’ultimo abbia investito il proprio capitale in una fabbrica di sapere, anziché in una fabbrica di salsicce, non fa alcuna differenza in termini di relazione».

È in questo senso che Marx ed Engels hanno scritto che «il proletario non ha proprietà». «Proletari» è un altro termine per lavoratori; e proprietà privata non significa possesso di beni personali, come la televisione o il computer, ma dei mezzi di produzione – gli edifici, i macchinari, i software, gli equipaggiamenti, gli strumenti, e altri materiali in possesso dei capitalisti.

Marx non voleva dire che i lavoratori non posseggono letteralmente niente, anche se spesso è così. Voleva dire che non abbiamo i mezzi per produrre e riprodurre le nostre vite, e dunque siamo alla mercé dello sfruttamento capitalistico. Una compagnia di costruzioni possiede pale meccaniche, trapani e scavatrici, che gli permettono di sfruttare i lavoratori e produrre profitto. Io ho una pala, che posso utilizzare per piantare fiori o pomodori.

Lo storico Geoffrey de Ste. Croix la mette in questo modo:

[La classe] è l’espressione sociale collettiva dello sfruttamento, del modo in cui lo sfruttamento si è incarnato in una struttura sociale… La classe è essenzialmente una relazione – così come il capitale, un altro dei concetti base di Marx, è descritto da lui nello specifico come… una «relazione», «una relazione sociale di produzione», e così via. E una classe (una classe particolare) è un gruppo di persone in una comunità che si identifica con la propria posizione all’interno del sistema di produzione sociale, definita soprattutto in rapporto alla propria relazione (in termini di grado di controllo) con le condizioni di produzione (sarebbe a dire con i mezzi e il lavoro di produzione) e con le altre classi.

Se usiamo questa definizione, ricchezza e povertà non bastano a determinare la classe. Sono al contrario delle sue manifestazioni. I padroni non sono dunque definiti dalla loro capacità di spendere soldi. Allo stesso tempo, i poveri di una società non rappresentano una «sottoclasse» che, a causa della mancanza di lavoro o ricchezza, si situa al di fuori della società. La povertà è parte integrante dell’esperienza della working class e – come l’attuale crisi dimostra fin troppo brutalmente – la disoccupazione è una minaccia concreta per la maggior parte dei lavoratori.

Anche prima della pandemia, quasi metà della popolazione statunitense non poteva pagare le bollette se saltava anche solo un mese di busta paga, e una persona su quattro riferiva di aver rinviato delle cure mediche perché non poteva permettersele. Un quarto della popolazione aveva perso un lavoro definito a basso reddito. Se a questo quadro preoccupante aggiungiamo le montagne di debito studentesco sulle spalle di decine di milioni di persone e l’aumento del costo della vita, risulta chiaro a tutti che la povertà è un dato intrinseco alla struttura della società statunitense. Oggi, con trenta milioni di persone senza un lavoro e quaranta milioni che sono a un passo dal perdere la casa nei prossimi mesi, la linea brutalmente sottile tra lavoro e miseria non potrebbe essere più evidente.

Il capitalismo richiede che ci sia sempre un certo tasso di disoccupazione o, per dirla con i termini di Marx, un «esercito industriale di riserva». I padroni dipendono da questo esercito di lavoratori di riserva per assicurarsi che ci sia sempre qualcun altro disposto a prendere il tuo lavoro, e riuscire così a disciplinare la forza lavoro salariata e costringerla ad accettare i termini dettati dal datore di lavoro.

Gli alti tassi di disoccupazione sono una caratteristica crudele di qualsiasi crisi economica, ma anche quando «il periodo è buono» la disoccupazione è comunque una dolorosa realtà per milioni di persone. Quello che gli economisti mainstream considerano «piena occupazione» è in realtà un tasso di disoccupazione intorno al 5 percento. L’introduzione di nuovi macchinari, una forza lavoro che cresce in virtù di cambiamenti demografici o migratori, cambiamenti regolari nella struttura dell’economia (quello che viene o non viene prodotto, e dove), possono contribuire al tasso di disoccupazione anche durante i periodi «migliori».

Gli Stati uniti non sono una nazione middle class

Quest’analisi della società traccia un quadro molto diverso rispetto alla versione più diffusa secondo cui gli Stati uniti sono una «nazione middle class».

La classe media esiste, non c’è dubbio. Non vive nel patinato universo alternativo degli schermi televisivi. La classe media è uno strato della società che sta a metà tra la working class e la classe dominante. Include i proprietari di piccole attività commerciali, così come i manager di medio livello, i supervisori, e tutti quei professionisti che hanno un discreto livello di autonomia all’interno del sistema (come dottori e avvocati).

Spesso sono il volto quotidiano dello sfruttamento. Il tuo manager è quello che vedi ogni giorno al lavoro. Potrebbe ricompensarti con un aumento, o potrebbe rimproverarti perché sei in ritardo, ma difficilmente ti capiterà di incontrare l’amministratore delegato che trae profitto da questa situazione.

Eppure, questa classe media è molto più piccola di quanto generalmente si crede, e molti di quelli etichettati tradizionalmente come «professionisti» sono stati progressivamente spinti nei ranghi della working class (o «proletarizzati»), come ad esempio i programmatori informatici diventati scrittori di codici che timbrano il cartellino, i lavoratori sociali che in tantissimi casi passano le giornate a riempire i nostri moduli, o i lavoratori accademici che sono sempre più precari.

Anche all’interno della stessa classificazione di classe media, le differenze di condizioni lavorative tra i professori delle università d’élite e quelli delle università pubbliche, o tra i dottori che hanno uno studio privato e quelli che operano nei pronto soccorso, determinano diversi livelli di controllo nel luogo di lavoro. «La borghesia ha privato della propria aurea qualunque occupazione un tempo onorata e trattata con riguardo», scrivevano Marx ed Engels. «Ha trasformato i medici, gli avvocati, i preti, i poeti, gli uomini di scienza in lavoratori salariati».

Michael Zweig e il giornalista del lavoro Kim Moody hanno entrambi stimato che la classe lavoratrice rappresenti all’incirca il 63 percento della forza lavoro statunitense (Ma secondo i miei calcoli sui dati relativi al credito bancario il 63 percento è una sottostima). Le élite aziendali sarebbero circa il 2 percento e, in mezzo, la classe media che è circa il 35 percento.

Inoltre, se si prendesse in esame la società in senso lato al di là della forza lavoro regolare (i membri della famiglia che non lavorano, le persone anziane, le persone permanentemente non occupate perché disabili, ecc.), il numero corrispondente alla classe lavoratrice sarebbe ancora più alto. Come sostiene Moody: «Se le persone della working class nella forza lavoro rappresentano i due terzi del totale, quelli nel computo della classe sono circa i tre quarti della popolazione – la stragrande maggioranza. E visto che gli insegnanti, gli infermieri, e altri professionisti sono spinti sempre più verso la working class, questa maggioranza si fa sempre più ampia».

Questo dato sottolinea un aspetto generale: le classi sono fluide e piene di zone grigie. Questi numeri offrono soltanto una traccia per enfatizzare il trend generale verso una sempre maggiore polarizzazione. Come scrivevano Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista più di 150 anni fa (un periodo, tra l’altro, in cui la classe lavoratrice era un’evidente minoranza della popolazione mondiale): «La società nel suo complesso si sta dividendo sempre di più in due fazioni contrapposte, in due grandi classi che si scontrano direttamente: la borghesia e il proletariato».

Infine, si appartiene a una classe al di là del fatto che si creda in questa definizione o ci si identifichi con gli interessi di quella classe. Il fatto che i democratici dicano che siamo parte della classe media che stanno provando a salvare, o che Donald Trump prometta meno tasse per la «classe media dimenticata», o che si creda a una qualunque di queste cose, ha molto poco a che fare con il doversi svegliare la mattina per andare al lavoro, eseguire gli ordini di qualcun altro su cosa fare, e tornare a casa con poco più di un magro salario e un mal di schiena. La posizione di classe è determinata dalle condizioni materiali, non dall’ideologia.

Alimentare la coscienza di classe

Allo stesso tempo, la struttura della working class non si trasforma automaticamente in coscienza di classe. In questo senso, possiamo identificare una seconda definizione di classe lavoratrice sulla base della coscienza e dell’attività.

Su queste linee, Marx distingue tra le nozioni di classe come «classe in sé»: definita dalla comune relazione ai mezzi di produzione; e come «classe per sé»: organizzata nel perseguimento attivo dei propri interessi. Come spiega Ste. Croix:

Gli individui che costituiscono una data classe possono o non possono essere completamente o parzialmente consapevoli della propria identità e degli interessi comuni come classe, e possono o non possono provare antagonismo verso i membri di altre classi in quanto tali. Il conflitto di classe (o lotta di classe, Klassenkampf) è essenzialmente la relazione fondamentale tra le classi, e include lo sfruttamento e la resistenza allo sfruttamento, ma non include necessariamente la coscienza di classe o l’attività collettiva in comune, politica o di altro tipo, anche se queste caratteristiche è ragionevole che emergano quando la classe ha raggiunto un certo grado di sviluppo ed è diventata quella che Marx ha una volta (usando un’espressione hegeliana) chiamato «classe per sé».

Una classe per sé è una classe che dev’essere organizzata. Da una parte, una posizione di classe condivisa crea condizioni oggettive che ci connettono e ci legano assieme. Dall’altra, le divisioni interne alla classe, e il ruolo giocato dalle oppressioni razziali, di genere e di altro tipo devono essere affrontate se vogliamo passare dalla possibilità oggettiva all’avanzamento soggettivo.

I socialisti e gli altri e le altre militanti working class possono avere un ruolo cruciale nel forgiare pratiche di solidarietà e aiutare la classe per sé a diventare classe in sé.

*Hadas Thier è un’attivista socialista di New York, e autrice di A People’s Guide to Capitalism: An Introduction to Marxist Economics (Haymarket Books, August 2020) di cui questo testo è un estratto uscito su Jacobinmag. La traduzione è di Gaia Benzi.

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