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Mentre in Italia il Governo prova a spegnere i primi focolai di protesta contro le nuove misure di contenimento del contagio da coronavirus con la politica dei “ristori”, in Spagna l’esecutivo targato PSOE-Podemos vara una legge di bilancio per il 2021 (Presupuestos Generales del Estado – PGE) all’insegna di cospicui investimenti infrastrutturali (+115%), del rafforzamento del sistema sanitario, di misure strutturali per il sostegno al reddito e della redistribuzione della ricchezza attraverso una maggiore imposizione sui redditi più elevati e sui grandi patrimoni. Un modo diverso di rispondere alla crisi, avendo riguardo in primo luogo alle fasce più deboli e vulnerabili della società; un primo tentativo, per quanto ancora timido, di intervenire sulle gravi diseguaglianze prodotte dalla crisi precedente. Non solo. Rinunciando al MES e ai prestiti del pacchetto Next Generation Ue, l’esecutivo spagnolo sta dimostrando di essere molto più avanti di altri governi europei, a cominciare da quello italiano, nella comprensione di ciò che sta accadendo in questa fase nell’ambito della governance comunitaria.
La prova che Sanchez e Iglesias stanno andando nella direzione giusta? Il giudizio sulla manovra da parte del padronato spagnolo e dei mass media ad esso collegati, che può essere riassunto nell’incipit di un articolo apparso sul noto quotidiano economico Expansion, a firma di Ignacio de la Rica: «Il discorso del duo dei Flintstones è vecchio. Suona come una stantia sacralizzazione del collettivismo sovietico o, non volendo esagerare, del socialismo scandinavo del secolo scorso, felicemente superato dagli stessi paesi di quella regione».
Ma andiamo con ordine.
Dopo molti anni di dominio dell’ideologia monetarista (i suoi danni li abbiamo scontati anche nella crisi del 2008-2012), sembra che questa nuova crisi abbia riportato in auge un concetto che nel dopoguerra, dagli Stati Uniti al Vecchio Continente, nessun Governo avrebbe mai messo in discussione: nei periodi di recessione o depressione non basta aumentare l’offerta di moneta, ma è necessario che questa moneta vanga effettivamente spesa. Meglio ancora se banche centrali e governi lavorano, ognuno dalla loro postazione, per lo stesso obiettivo. Una formuletta keynesiana, che, come tante regole economiche, è solo una regola di buonsenso. Un po’ quello che sta succedendo in Europa in questo periodo. Il patto di stabilità è stato momentaneamente sospeso, i governi spendono in deficit come non si vedeva da decenni, la Banca Centrale Europea tiene bassi i tassi sulle obbligazioni statali.
Perché, allora, indebitarsi con un organismo tecnico come il MES o con la stessa Ue, quando l’accesso al mercato dei capitali attualmente è quasi a costo zero (in Spagna il rendimento dei decennali è inferiore dello 0,5% rispetto a quelli italiani, quindi quasi nullo)? È il ragionamento che hanno fatto a Madrid che, evidentemente, tiene conto di un altro e non secondario elemento: le emissioni statali vengono acquistate sul mercato secondario dalla Bce per il tramite delle banche centrali nazionali e il “reddito monetario” da esse prodotto viene retrocesso agli Stati stessi. Siamo al dunque: meglio avere come creditore la propria banca centrale o un’organizzazione internazionale? Sarebbe logico che anche in Italia alcuni esponenti politici e di governo si facessero questa domanda, anziché parlare di MES senza cognizione di causa, ovvero per buttarla in caciara, come spesso accade dalle nostre parti.
Nella situazione in cui siamo immersi, tuttavia, affidarsi esclusivamente alle risorse del mercato non è la soluzione ideale e nemmeno quella più conveniente (il momento della resa dei conti è sempre incombente). Servono tanti soldi ed è giusto che chi ha molto paghi una parte del costo della crisi per chi ha meno o non ha niente. «Giustizia fiscale, chi ha di più contribuisca di più», ha dichiarato il leader di Podemos Pablo Iglesias. Un concetto che il Governo spagnolo ha provato a mettere in pratica, accompagnando alla dilatazione del disavanzo alcuni interventi redistributivi dal lato, per l’appunto, dell’imposizione fiscale.
Vediamo di che si tratta.
Per quanto riguarda la rimodulazione delle aliquote (IRPF), si prevede un aumento di due punti percentuali di quelle sui redditi da lavoro superiori a 300 mila euro annui e di tre punti per quelle relative ai redditi da capitale superiori a 200 mila euro annui. A queste modifiche si aggiungerà un prelievo dell’1% sui patrimoni superiori a dieci milioni di euro, una piccola patrimoniale, e una tassa minima del 15% per le società di investimento immobiliare quotate. La platea dei contribuenti coinvolta non è molto larga (36.194 contribuenti, lo 0,17% del totale, secondo le stime del Ministero delle finanze), ma, al di là del valore simbolico delle misure, e tenendo conto anche di alcune tasse indirette (bevande zuccherate, “aliquote Google”, tassa sulla plastica), il Governo stima di conseguire da questa manovra maggiori entrate per quasi sette miliardi di euro nel 2021 e di due miliardi e mezzo nel 2022.
Dove andranno questi soldi, tra nuovo deficit, nuove entrate e grants europei (196,1 miliardi di euro, di cui 27 da aiuti Ue)? Anche qui la differenza con il nostro Paese e con altri paesi europei è notevole. I soldi per le piccole e medie imprese ci sono, ma il grosso degli interventi vanno nella direzione della sanità pubblica, del sociale, del welfare. C’è un aumento significativo della spesa sanitaria (+151,4%) e per l’educazione (+70%); un aumentano delle risorse per la ricerca e l’innovazione (+80%), per i sussidi di disoccupazione e per quella che in Spagna viene definita «economia della cura», nella quale rientra il sistema degli asili nido, il baby sitting e tutte le misure di sostegno alle famiglie, compresi i congedi parentali di maternità e di paternità; l’ampliamento della platea dei beneficiari dell’Ingreso Minimo Vital (IMV), il reddito di base che attualmente varia da 461 a 1015 euro al mese (sono stati modificati alcuni requisiti d’accesso alla luce della caduta dei redditi privati nella pandemia). Cose diverse dal “ristorare” attività economiche senza alcun riguardo al loro fatturato o tagliare l’IRAP anche alle imprese che con questa crisi ci stanno guadagnando o dispensare bonus una tantum agli scarti della società.
Non è il “socialismo” di cui parla il giornalista di Expansion, niente rispetto alle conquiste dei primi trent’anni del Secondo dopoguerra, ma la dimostrazione che da questa crisi si può uscire senza portare tutto il conto ai ceti popolari come è accaduto nel recente passato un po’ ovunque in Europa. Un esempio che potrebbe seguire anche il nostro Governo con la prossima legge di bilancio, magari facendo anche meglio.
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